Una terribile vigilia di Ferragosto, quella del 14 agosto 2018, quando a Genova crollò il Ponte Morandi e costò la vita a 43 persone. Milioni d’italiani nel momento culmine delle vacanze si stavano riversando sulle strade. Crollò una delle opere civili simbolo del miracolo economico degli anni ’60, luogo di passaggio obbligato per chi si recava nel ponente della città o nelle zone turistiche della riviera ligure e della costa azzurra francese.
Un utile esercizio per capire gli anni di costruzione del Ponte è la lettura della cronaca dei primi di settembre del 1967. Il quotidiano “Il lavoro nuovo”, diretto da Sandro Pertini dal 1947 al 1968, scriveva: “L’ardita realizzazione desta ovunque grande interesse. Da una sponda all’altra della Valpolcevera un nastro di cemento armato di 1103 metri. Molti automobilisti si fermano per ammirare il superbo colpo d’occhio offerto dal nastro di cemento armato che svetta a 50 metri dal fondovalle”. Considerata l’ubicazione dell’opera, che sorgeva in un tessuto urbanistico estremamente congestionato e complesso (torrente, fabbriche, case di abitazione, due grandi parchi ferroviari), si scelse il progetto redatto dall’ing. Riccardo Morandi che rispettava il “paesaggio murato” esistente. Quest’ultima esigenza, affermava Morandi, mi ha convinto ad eseguire la costruzione in calcestruzzo anziché in ferro; un materiale che si lega cromaticamente e stilisticamente al paesaggio e al volto attuale delle città. Lunedì 6 settembre 1967 il Ponte fu inaugurato con la partecipazione del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, del Ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini, di due Ministri genovesi (Paolo Emilio Taviani degli interni e Giorgio Bo delle partecipazioni statali). Il viadotto, aveva detto Mancini, “fa onore all’Italia e a tutti coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione, primo fra tutti il prof. Morandi che aggiunge con quest’opera un nuovo alloro in tanti già ottenuti durante la sua luminosa attività scientifica”.
Le case per operai, impiegati e soprattutto ferrovieri, che giacevano sotto il ponte erano state costruite prima. Una donna ricorda: quando ci lamentavamo, ci rispondevano “non vivete sotto i ponti, ma sotto il Ponte, sotto un’opera d’arte”. In cinquant’anni di vita si sono succeduti almeno due generazioni e molti ricordano l’allegria dei loro genitori che finalmente possedevano una casa propria in cui vivere. Fin qui la storia. La notizia del disastro si diffuse immediatamente in tutto il mondo e ovunque provocò accese discussioni, perché i ponti non devono crollare. In quel luogo, alle ore 11.36, ci poteva essere chiunque di noi. I ponti sono un simbolo della nostra voglia di futuro, denotano apertura (come i porti), si costruiscono per essere attraversati, per andare oltre, per collegare, per avvicinare, per raggiungere qualcuno o qualcosa; c’è implicitamente l’idea di un domani. Questa tragedia è stata vissuta dai genovesi come se fosse il momento finale di una lunga crisi; disperati, hanno pensato: “ora basta, bisogna reagire tutti insieme”. Cominciò anche immediatamente una gara di solidarietà, come già la si era sperimentata durante l’alluvione dell’ottobre 1970, che aveva provocato la morte di 44 persone, o per l’alluvione del novembre 2011, quando morirono 6 persone.
Scrivo queste note in seguito a una conferenza che ho tenuto a Ginevra presso “l’Université Ouvrière” – promossa dalla locale Società Dante Aligheri in collaborazione con la “Societè de Geographie” – sul crollo del Ponte Morandi e l’identità della città, segno evidente di un interesse sempre vivo sulla tragedia genovese. Come leggere la storia della resilienza di Genova? Esiste un filo conduttore esplicativo?
La prima risposta la troviamo nella parola “solidarietà”. Quando la città si sente offesa nella sua dignità reagisce in maniera unitaria e solidale. Valga per tutti l’esempio delle storiche giornate della Liberazione del 1945: Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, si liberò da sola, prima dell’arrivo delle truppe angloamericane. L’atto di resa dei tedeschi porta la firma di un operaio, Remo Scappini, e la mediazione fu resa possibile dall’attivo ruolo svolto dalla Chiesa cattolica. Molte vie adiacenti al Ponte sono dedicate ai partigiani caduti per la libertà. In tempi più recenti, la solidarietà si è espressa durante le lotte per la difesa dell’apparato industriale. L’ultima grande manifestazione si svolse il 29 settembre 1983 con lo slogan “Perché Genova viva”. Nel volantino dei sindacati c’era scritto: “Non lotta solo il mondo del lavoro, è tutta una città che manifesta compatta la propria volontà di resistere, di lottare, di vivere”. Così fu.
Poi, a metà degli anni Ottanta, il processo di deindustrializzazione procedeva senza soste fino a cambiare, anche demograficamente, il volto della città. Nel decennio 1981-1991, infatti, la popolazione è diminuita di oltre 80 mila abitanti e oggi ne conta soltanto 580 mila (compresi i 56 mila immigrati, in maggioranza provenienti dall’Ecuador).
Ci sono stati però altri momenti durante i quali la città ha ritrovato un’identità nell’immaginare un futuro possibile. L’Expo ’92, anno delle celebrazioni dei cinquecento anni della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492), fu una grande occasione di rinnovamento urbanistico che trovò il suo massimo splendore nel progetto di Renzo Piano basato sul ricongiungimento dell’area del Porto antico alla città: camminando a piedi dalla centrale Piazza De Ferrari finalmente si poteva arrivare al mare. Oggi, questa zona è diventata un luogo vissuto quotidianamente dai cittadini (vecchi e nuovi genovesi), una vera e propria “Piazza sul Mediterraneo” (anche senza averne le forme geometriche) di circa 130 mila mq. Il mare è stato restituito alla sua città, dopo anni di incomunicabilità tra “waterfront” e tessuto urbano.
L’altro grande evento a forte impatto identitario fu nell’anno 2004 quando Genova venne nominata “Capitale Europea della Cultura”. A questo proposito ci piace ricordare che il primo libro sulla bellezza dei palazzi genovesi (meta primaria dei turisti) venne scritto nel 1662 dal pittore fiammingo PP. Rubens: era il periodo del “siglo de oro de los genoveses”, punto di riferimento storico di queste celebrazioni. Per la prima volta i genovesi, superando la tradizionale riservatezza (Italo Calvino diceva di loro che sono poco narcisisti), hanno voluto comunicare all’Europa e al mondo l’immagine non solo di “città di mare”, ma anche quella di “città dell’arte e della contemporaneità”. La parola chiave scelta, attraverso un questionario compilato da duecento rappresentanti di associazioni, fu “il viaggio”, sia in senso fisico che metaforico. Si trattava di ridefinire l’identità culturale come città a più vocazioni, dove convivono la tradizione marittimo-portuale e industriale con quella delle attività turistiche e del terziario. Già nel 2002 per stimolare la partecipazione dei cittadini veniva costituita una “Consulta delle associazioni” che si riuniva intorno a sei coppie di parole guida (ricordo/memoria, trasmissione/passaggio, incontro/scambio, scoperta/avventura, conflitto/evoluzione, sperimentazione/cambiamento). Nel volume Genova 2004 in viaggio con le associazioni si possono leggere i risultati conseguiti. L’identità collettiva, si sa, è un concetto molto complesso e oggi politicamente conflittuale. Non è un dato acquisito una volta per tutte; occorre una continua contestualizzazione spazio-temporale.
Dal punto di vista territoriale, la città delle dimensioni attuali risale al 1926, come risultato dell’aggregazione di 19 comuni autonomi, ed oggi è suddivisa in 9 Municipi. Si estende in lunghezza, da Nervi a Voltri, per oltre 30 chilometri e costituisce un anfiteatro collinare stretto tra i monti e il mare. La prime ricerche sociologiche, effettuate da Luciano Cavalli tra gli anni ’50 e ’60, mettevano in risalto una città socialmente divisa; ma, per la sua stessa configurazione orografica, ogni conflitto nato nelle fabbriche (ubicate dentro il tessuto urbano) coinvolgeva l’intera città e diventava un caso politico. Così come nel centro storico i palazzi nobiliari sono destinati a convivere con gli immigrati residenti nei vicoli. Ogni quartiere ha una storia propria fortemente determinata dal tessuto produttivo: i quartieri del Ponente e della Valpolcevera (l’area del Ponte Morandi), con gli storici insediamenti industriali (cantiere navale, elettromeccanica, siderurgia) che qualificavano Genova come “città del triangolo industriale” (con Torino e Milano); il centro-levante, dei ceti medi e professionali); la Valbisagno, area dei grandi servizi (cimitero, carcere, stadio…) e luogo originario delle tragiche alluvioni.
Per finire, vorrei sottolineare due dati positivi e pieni di promesse per il futuro. Il primo ottobre, con una rapidità davvero senza precedenti, è avvenuta la posa della prima sezione dell’impalcatura del nuovo ponte progettato da Renzo Piano, sotto il quale ci sarà un parco urbano avveniristico ideato da Stefano Boeri, architetto milanese noto a livello internazionale (nel parco è compresa una passerella ciclo-pedonale in acciaio di un chilometro e mezzo, che si conclude in una torre del vento alta 120 metri e dotata di turbine eoliche la cui energia alimenterà l’intera area). Secondo elemento positivo: l’attività dell’associazione “Quelli del Ponte Morandi”, in rappresentanza delle 260 famiglie sfollate (e ricollocate in altre abitazioni) che per un anno, ogni 14 del mese, hanno ricordato le vittime della tragedia e che oggi sono attenti testimoni della ricostruzione.
Salvatore Vento