di Salvatore Vento
In occasione del centenario dell’uccisione di Giacomo Matteotti (1885-1924) da parte dei fascisti, sono stati pubblicati numerosi libri, che ricostruiscono, con approcci diversi, la sua figura umana e politica. Nel corso degli anni, le commemorazioni hanno soprattutto esaltato il coraggio civile e l’intransigenza morale, che ha trovato nell’ultimo discorso di denuncia delle violenze fasciste alla Camera (30 maggio 1924), il momento di maggiore tensione. E’ mancata invece, come scrive Stefano Caretti, una seria riflessione sul suo pensiero e sulla sua storia politica. Fu un vero riformista, nel senso che cercava di migliorare concretamente le condizioni di vita dei lavoratori, dei contadini e della povera gente.
Laureatosi a 22 anni in giurisprudenza all’università di Bologna, fu segretario della Camera del lavoro di Ferrara e segretario dei Comuni socialisti, fu anche eletto nel Consiglio provinciale di Rovigo. Per la sua lotta intransigente contro “la barbarie e l’inciviltà della guerra”, pagata dall’Italia con 600 mila morti, venne inviato per tre anni al confino in un paese dell’entroterra di Messina. In precedenza si era schierato contro l’esaltazione nazionalista e l’impresa coloniale in Libia. Nelle campagne si batteva per il giusto collocamento e l’imponibile della manodopera. Proprio in quelle campagne dove la violenza fascista (squadrismo agrario) si faceva sentire con più forza e lui continuava a raccogliere dati e documentare queste violenze.
Capì, prima degli altri politici di diversa origine politica (massimalisti, liberali, comunisti e popolari) le caratteristiche del fenomeno fascista, destinato a trasformarsi in regime dittatoriale: l’uso della violenza armata come strumento di lotta politica, non era un comportamento contingente, ma rappresentava l’identità costitutiva, la sua ragione d’essere. Una storia, quella dei socialisti, di continui scontri ideologici e di conseguenti scissioni, soprattutto dopo la rivoluzione russa e l’ascesa al potere dei bolscevichi. Da quella data in poi la collocazione di ogni componente interna veniva misurata sull’adesione o meno all’esperienza sovietica. Nacque così la scissione di Livorno del 1921 con la fondazione del Partito comunista d’Italia, una scissione coerente all’adesione all’Internazionale leninista (Comintern). Molto più grave fu l’espulsione della componente riformista di Turati, Treves e Matteotti avvenuta al XIX congresso di Roma dei primi di ottobre 1922, anche se i massimalisti di Giacinto Menotti Serrati prevalsero su misura (ebbero 32 mila voti contro i 29 mila dei i riformisti unitari).
A poche settimane dalla marcia su Roma, e di fronte alle violenze dilaganti (uccisioni, assalto ai locali sindacali, alle sedi delle cooperative, alle istituzioni elettive), i socialisti, anziché rinforzare l’unità, decisero un’ennesima divisione che portò alla costituzione del Partito socialista unitario e all’elezione a segretario di Giacomo Matteotti, dotatosi subito di un proprio giornale “La giustizia”. In quel periodo la battaglia dei nuovi comunisti italiani contro i riformisti, considerati moderati e arrendevoli alla borghesia, si fece più acuta. Antonio Gramsci, in un articolo scritto il 28 agosto 1924, pur riconoscendo Matteotti uno dei pionieri più autorevoli del movimento operaio e contadino, non lo giudicò in grado di guidare la ribellione verso la vittoria: “il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l’ultima espressione, la più evidente, la più tragica ed elevata di questa contraddizione interna al movimento operaio. I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti e andranno raccolti nell’adesione al Partito comunista d’Italia, il partito della rivoluzione proletaria”.
Nel primo dopoguerra, in soli tre anni, dal 1919 al 1922, si decisero le sorti delle istituzioni democratiche e parlamentari. Alle elezioni del 1919 (svoltesi col suffragio universale maschile al compimento dei 21 anni) vinsero due partiti radicati sul territorio, espressione di legami di massa in tutto il paese, superando così i gruppi liberali precedenti: il Partito socialista risultò il primo con 156 deputati (su 535), al secondo posto il nuovo Partito popolare (100 deputati) di don Luigi Sturzo, diffuso nell’associazionismo cattolico. Anche alle elezioni amministrative i socialisti vinsero in oltre duemila comuni e in trentasei Consigli provinciali e alla Confederazione generale del lavoro (Cgdl) di matrice socialista aderivano oltre due milioni di lavoratori; i popolari conquistarono 1613 comuni e sul versante dei lavoratori nacque la Confederazione sindacale cattolica (la Cil).
L’esperienza della prima rivoluzione vittoriosa, fatta dai comunisti in Russia, esaltava gli animi dei primi nuclei comunisti e durante l’occupazione delle fabbriche, veniva issata la bandiera rossa, mentre nelle campagne erano attive le “leghe bianche” dei cattolici sociali di Guido Miglioli. Una conflittualità che venne immediatamente strumentalizzata dal movimento dei fasci di combattimento di Mussolini, che nel novembre 1921 si trasformò in Partito Nazionale Fascista con un rapido aumento degli iscritti che arrivarono a circa 300 mila; la sua peculiarità e novità consisteva nell’uso sistematico della violenza attraverso l’azione dei gruppi armati, ottenendo consensi in particolare tra gli agrari e i ceti medi impauriti. Teniamo conto che l’Italia era un paese prevalentemente agricolo. La maggioranza della classe dirigente politica di quel periodo sottovalutò la portata sovversiva del movimento nella diffusa convinzione sia di poterla incanalare nell’ambito istituzionale (da parte di molti liberali e cattolici), sia per l’incapacità (da parte dei socialisti) di unire almeno le forze di sinistra; sia ancora per non riuscire a procedere con l’alleanza dei due partiti maggiori (socialista e popolare). Alle elezioni del maggio 1921 il principale protagonista dell’inserimento dei mussoliniani nella lista “liberale” del “Blocco nazionale” era stato il vecchio Giovanni Giolitti, ma, su 105 seggi ottenuti, furono eletti soltanto trentacinque fascisti. Nonostante fosse una piccola minoranza elettorale, la sua azione proseguì con maggiore violenza fino alla marcia su Roma dell’ottobre 1922 che poteva essere repressa con la proclamazione del decreto d’assedio già predisposto dal governo Facta, ma non firmato dal Re, che nominò Mussolini capo del governo. Un mese dopo il Duce si presentò alla Camera e ottenne la fiducia della maggioranza dei deputati, compresi i liberali e i popolari, che faranno parte del governo; questi ultimi saranno estromessi nell’aprile successivo, dopo appena sei mesi, perché il Congresso di Torino del Ppi, secondo Mussolini, era stato “essenzialmente antifascista”. Il discorso d’insediamento non lasciava dubbi sul suo programma: “Con trecentomila giovani armati di tutto punto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e infangato il fascismo. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.” Coerente con queste minacce nel gennaio del 1923 trasformò i gruppi militari delle “camice nere” in una propria milizia armata denominata “Milizia volontaria di sicurezza nazionale”, i cui componenti giurarono fedeltà al Duce e non al Re. L’indignazione, in Italia e in tutto il mondo, per l’uccisione di Giacomo Matteotti non riuscì a trasformarsi in azione politica contro la nascente dittatura fascista e nel 1926 Mussolini rincarò la dose con l’istituzione del “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, finalizzato a reprimere definitivamente, con la manifesta complicità della monarchia sabauda, ogni forma di libertà d’opinione.