di Giovanni Franzoni, in “l’Unità” del 28 febbraio 2012
Ricordare Giulio Girardi al momento in cui lui ci abbandona fisicamente ma sicuramente non spiritualmente, significa ripercorrere tutta la nostra vita di cristiani impegnati dopo il Concilio tra gli anni 70 sino ai nostri giorni. Erano gli anni in cui gli uomini di scienza e di sapere non utilizzavano più le loro conoscenze per consolidare e rafforzare i poteri esistenti, ma spinti dal Concilio Vaticano II scendevano dalle cattedre per rendere viva e incarnata nella realtà sociale dell’umanità la loro fede.
Sono gli anni della lettera dei tredici preti romani che protestano contro la condizione di emarginazione di chi viveva in condizioni incivili nelle baracche della Capitale e della mia lettera «la Terra è di Dio» con la quale denunciavo la speculazione edilizia e il silenzio della Chiesa compromessa con gli interessi dei grandi proprietari fondiari e con le speculazioni fatte sulle spalle della povera gente nell’interesse della Dc romana. Erano gli anni in cui Gerardo Lutte, docente al pontificio ateneo salesiano come Girardi, usciva dai ranghi delle istituzioni e andava ad abitare tra i baraccati di Prato Rotondo. In quegli anni Giulio Girardi metterà a disposizione la sua conoscenza filosofica e teologica per una strategia di riavvicinamento del mondo dei credenti con la sinistra storica. Per la rivoluzione delle classi subalterne spesso ridotte in condizioni subumane. Scrive «Cristianesimo e Marxismo». Avrà una cattedra alla Sorbonne di Parigi. Girardi metterà in crisi il suo rapporto con l’istituzione dell’ordine salesiano e con l’Ateneo salesiano. Con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez ha cominciato ad assecondare la fondazione del movimento Cristiani per il Socialismo e la Teologia della Liberazione. È stato un lungo periodo durante il quale ci ha supportato e documentato sulla possibilità di non far coincidere l’alto percorso di fede con l’ideologia filosofica marxista. Ma di individuare obiettivi sociali concreti sui quali si realizzava l’incontro con le forze sociali e politiche di ispirazione marxiana. È stata una grande stagione di elaborazione e di rivisitazione della fede che ha coinvolto le comunità cristiane di base sviluppate prima in America latina, poi in Africa e finalmente in Europa.
Ci ha aiutato a maturare la convinzione che optare per una scelta di classe non significava abbracciare una scelta ideologica, ma di rivisitare l’insegnamento evangelico dalla parte dei poveri e degli sfruttati. Era così che si dava concretezza a quell’idea maturata durante il Concilio Vaticano II grazie soprattutto all’opera del cardinale Lercaro, di una Chiesa che è anzitutto «convocazione dei poveri». Non una Chiesa esclusiva, nella quale sono soltanto i poveri, ma che rilegge il messaggio evangelico nella condizione di coloro che sono senza voce, senza potere, senza autorità. A questa grande stagione di impegno teologico è seguita quella di Giulio Girardi che si fa supporto alle culture delle popolazioni indigene. Siamo alla crisi del socialismo reale che mostra il suo volto repressivo e autoritario.
Matura la convinzione che fosse da privilegiare la lotta delle popolazioni indigene per uscire dall’oppressione del colonialismo e dello schiavismo internazionale. A Quito in Ecuador nel 1992 ci sarà la svolta con la grande assemblea delle popolazioni indigene e dei movimenti che sostenevano i “senza terra” in Brasile. Anche nelle comunità cristiane si recupera la scelta di porsi non dalla parte dei civilizzatori, ma da quella dei colonizzati. Perché alle popolazioni indigene con il Vangelo era stata portata anche la sottomissione. Giulio Girardi partecipava con grande impeto a questo movimento. Era come innamorato della spontaneità e trasparenza della lotta di questi popoli. In Nicaragua aveva una sua stanza nel Centro Valdivieso di Managua. Sarà a fianco delle popolazioni del Chapas, in Messico ed amico e consigliere del leader cubano Fidel Castro.
Oggi nessuno può avanzare una formula unica per la liberazione dei popoli. Molte sono le strade e molte le esperienze con cui misurarsi. Girardi aveva fatto sua la formula della nonviolenza attiva. Ha scritto su Gandhi il vescovo Proano. Riflettendo su Che Guevara è arrivato ad indicare una venatura di clemenza e di amore anche nella lotta di liberazione armata. Chi prende le armi per amore deve sapere che anche il nemico è un uomo oppresso da liberare. È così che anche nelle comunità di base si cominciò a coniugare una sorta di mitezza non soltanto verso gli oppressi, ma anche verso gli oppressori. Giulio Giradi è spirato in questa convinzione e la sua memoria non può diventare museale. Seguita ad essere quella che è stata sino ad oggi: una pratica di liberazione per tutti gli oppressi. Un processo che non può venire dall’alto, come accade con la globalizzazione finanziaria che lascia tutto nelle mani dei potenti. La Teologia della Liberazione ci ha aiutato a capire che non è contro un nemico esterno che occorre combattere, che il nemico è anche dentro di noi. Che allo sfruttamento alimentato dall’esterno ci sono processi di reazione vitali: quelli autogestiti dalla base e dal mondo degli oppressi. È questo che con grande fatica ci ha aiutato a vedere Giulio Girardi. Questo portiamo avanti. Con la sua passione mite, gentile e profondamente umana, ma al tempo stesso rigorosa. Il suo è stato un faticoso andare controcorrente e verso il «poco probabile». È il cammino delle comunità di base. Come recita la canzone di Bennato, è stato il ricercatore dell’isola che non c’è. Ma che ci potrebbe essere. Sta a noi fare in modo che ci sia. Così lo ricorderemo oggi alle 14 alla Comunità di san Paolo. Si è spento nell’umiltà, ma la speranza di civilizzare l’umanità non è certo morta.