Governo Monti. Non solo gaffe

Molto si scrive su alcune opinioni espresse da ministri dell’attuale governo tecnico rispetto ai giovani e al loro rapporto con la vita e il lavoro.

Riportiamo di seguito alcuni articoli che ci sembrano particolarmente efficaci.

–          “L’uomo nella prosperità non comprende (Sal 49)”, di Luciano Benini, in www.finesettimana.org

–          “Signor Governo, rispetto e saggezza!”, di Enrico Peyretti, in www.finesettimana.org

–          “Lo spettro di Malthus si aggira per l’Italia”, di Barbara Spinelli in la Repubblica del 8 febbraio 2012

 

“L’uomo nella prosperità non comprende (Sal 49)

 di Luciano Benini*,  7 febbraio 2011

La fulminante osservazione del salmo 49 mi è tornata in mente in questi giorni di governo Monti. Del governo Monti se ne può parlare male senza essere tacciati di essere schierati politicamente. E poi la questione che voglio affrontare non è solo politica perchè va al cuore dell’essere cristiani.

A che servono i governi? Certo, per fare leggi e provvedimenti che facciano vivere ordinatamente le comunità, siano esse uno Stato, una Regione, un Comune. Ma soprattutto servono a fare in modoche i più deboli, deboli di denaro, di relazioni, di opportunità, possano avere una vita dignitosa. Si dice che bisognerebbe governare col criterio del buon padre di famiglia. Ma in una famiglia se ci sono pochi soldi si utilizzano per un figlio che sta male o per far andare in vacanza quello che sta bene? E il cibo viene diviso secondo le necessità o qualcuno da solo se ne prende la metà e lascia agli altri quello che avanza? Eppure la manovra del governo Monti non ha affatto pensato a chi sta male, ma anzi ha prelevato da chi appena sopravviveva e ha continuato a far divertire chi già se la spassava benissimo. Persino la Confindustria aveva chiesto una patrimoniale da 50 miliardi di Euro in 3 anni, ma Monti no, ha tagliato le pensioni. Servivano soldi per gli ammortizzatori sociali e magari per il salario minimo d’inserimento: si potevano tagliare le spese militari (scendendo al livello pro-capite della Spagna, che comunque è un paese della NATO, si sarebbero trovati 15 miliardi di Euro) ed altri 15 miliardi si potevano trovare annullando i 131 cacciabombardieri. Ed invece altre tasse per tutti.

“L’uomo nella prosperità non comprende”: può governare per la gente povera (perché questa è la finalità di ogni buon governo, i ricchi e potenti possono fare a meno dei governi) chi è ricco e lontano dai problemi della gente? In Italia il 10% più ricco detiene il 50% della ricchezza nazionale mentre il 50% deve accontentarsi del 10%: in una famiglia si fa così? Si chiede troppo se si chiede di riequilibrare questa situazione di squilibrio che ha pari solo nelle dittature latino-americane degli anni ’60 e 70?

Si racconta che De Gasperi in un pranzo ufficiale con capi di Stato mangiò mezza mela e offrì l’altra mezza ad un presidente della repubblica estero per non sprecare quella avanzata. Si racconta anche che gli amici di La Pira gli regalarono un cappotto nuovo al posto di quello consunto perché doveva recarsi in visita ufficiale all’estero. Quando gli amici lo andarono a salutare alla partenza all’aeroporto lo trovarono di nuovo col vecchio cappotto. “C’era un barbone che moriva dal freddo, così gli ho dato il cappotto nuovo che avevo indosso” si giustificò. Quei politici sapevano bene cosa voleva dire perdere il lavoro, non avere una casa, non riuscire ad arrivare a fine mese, perché la loro vita era simile a quella della gente normale. I politici di oggi vivono fuori dal mondo ed invece di governare, cioè di fare scelte a favore della povera gente, prendono decisioni che fanno comodo ai propri pari.

“L’uomo nella prosperità non comprende”: appunto, come i nostri politici. Ma possibile che i cristiani non se ne accorgano? Non insorgano di fronte a tanto scandalo?

*pacifista, già presidente del MIR, consigliere comunale per la lista civica “Bene Comune” a Fano

 Signor Governo, rispetto e saggezza!

 di Enrico Peyretti*, del 7 febbraio 2012

Signore ministre e signori ministri, ci avete fatto felici sostituendo il precedente governo dell’Innominabile. State facendo con impegno il possibile per rimediare i guai economici italiani, anche se – riteniamo in molti – il guaio è tutto il sistema economico attuale, e non qualche settore ad esso interno. La crisi non è “nel” sistema, ma “del” sistema.

Comunque, speriamo. Ora, però, dovete smettere subito di canzonare, un ministro-ministra dopo l’altro/a, con battute sciocche, i giovani che cercano di entrare nel mondo del lavoro. Sapete bene che senza posto stabile non si può fare un mutuo per la casa, necessario per sposarsi e sostenere la natalità italiana. Sapete bene che abitare vicino ai genitori è necessario, più che migrare di città in città, per avere l’aiuto dei nonni, indispensabile per la cura quotidiana dei bambini, che non trovano tutti nido e scuola materna.

Dovete smettere di esibire dall’alto ignoranza delle reali condizioni di vita della gente, dei giovani, per avere ancora la fiducia che vi abbiamo dato, non senza qualche incertezza e dubbio misti alla gioia relativa al passato.

Auguri di saggezza e di buon lavoro

* Torino (nonno, pensionato, 76 anni)

 Lo spettro di Malthus si aggira per l’Italia

di Barbara Spinelli, in “la Repubblica” dell’8 febbraio 2012

C’è una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso («Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: «È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po’ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po’ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci».

Resta tuttavia l’inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un’esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, «i governi politici hanno avuto troppo cuore», accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore – «esuberante», contaminato da «buonismo sociale» – è apparso moralmente pernicioso.  

Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull’articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare – disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà – fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent’anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c’è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: “Parlateci di queste ‘condizioni accettabili’, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi”. Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d’animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull’impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d’aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell’unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).

È come se Monti, più o meno consapevolmente, “si sbagliasse d’epoca”, e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell’amore), si è passati all’algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L’impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c’è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.

Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del «dramma pedagogico» che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l’esistente. Somiglia un po’ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d’esser re, che ordina al sole d’alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l’alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell’ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo. 

Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c’è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l’è presa con gli studenti che finiscono tardi l’università, chiamandoli sfigati (l’aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.

Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell’altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c’è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un’attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell’utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l’istinto riproduttivo s’attenuasse: «Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l’errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano – intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse – di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l’impazienza, qualora s’esprimesse con atti criminosi».

Malthus bussa alle porte d’Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un’austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza essere penalmente perseguibili. Sull’Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ’20-30. Sull’«ondata mondiale di rinazionalizzazioni», che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e «trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso». In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.

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