Il crinale storico e politico sul quale ci troviamo a camminare viene sempre più interpretato e definito in termini di crisi della “democrazia”. Il successo elettorale che, in molti paesi europei, negli Stati Uniti e più in generale nei paesi retti da democrazie rappresentative, si è determinato a vantaggio di formule politiche che rivendicano in modo assoluto l’esigenza di un’identità e di una sovranità nazionali da difendere e preservare, rappresenta la cifra forse più evidente ed appariscente del quadro che si viene componendo sul piano internazionale. Le scelte compiute su questioni cruciali come l’immigrazione o le relazioni economiche e politiche internazionali, dentro e fuori i confini dell’Unione Europea, rappresentano i frutti di un’applicazione di questo assunto fondamentale che viene esemplificato attraverso una linguistica politica che si è arricchita dei termini “populismo” e “sovranismo”.
Le letture possibili della crisi
Numerose sono le interpretazioni che sono state offerte di questo evolversi del panorama storico e politico del nostro tempo. Si osserva allora che quello a cui assistiamo costituisce il riverbero, sul piano politico, di un combinato che unisce la crisi economica alla crisi dell’ordine internazionale, di cui il fenomeno migratorio rappresenta la più diretta e vistosa manifestazione, che ha messo in luce la fragilità politica di molti partiti e la efficacia di molteplici istituzioni.
Diversamente, si è messo l’accento sul carattere “originario” della crisi del sistema partitico che ha sin qui caratterizzato le democrazie rappresentative attraverso una distinzione fra partiti di matrice conservatrice e liberale e partiti di orientamento progressista e socialista. Seguendo questa lettura, il punto cruciale da cui origina il rivolgimento che attraversiamo è da collocarsi nella crisi delle forze politiche di sinistra, socialiste o progressiste, che si somma a quella della cultura politica “liberal” negli Stati Uniti e oramai si estende ai partiti conservatori di matrice liberale (dalla CDU-CSU tedesca, ai popolari spagnoli, ai conservatori inglesi e ai repubblicani americani che conoscono il riemergere di una tentazione “di destra” a cui già si sono adeguati, ad esempio, i popolari austriaci).
Una terza lettura possibile è quella che qualifica questo secondo decennio del Ventunesimo secolo come il tempo della crisi della democrazia stessa, almeno nella sua forma rappresentativa e liberale. Rispetto al principio della rappresentatività, alla divisione e distinzione dei poteri e all’idea cardine del limite imposto all’esercizio dell’autorità dello Stato rappresentato dai diritti individuali e sociali, sembrano avere successo modelli giudicati più efficienti (come la Russia o la Turchia). Nell’opinione pubblica dei paesi con istituzioni “democratiche” si fa allora strada una preferenza per soluzioni istituzionali che accentrano nel governo i poteri e la funzione decisionale, arrivando a ridurre la divisione dei poteri non solo e non tanto ad un “orpello” rispetto alla necessità di decisioni rapide, ma ad una sorta di menomazione di un potere “del popolo” che non dovrebbe conoscere divisioni ma dovrebbe essere riversato interamente nelle mani di chi riceve un mandato politico attraverso il suffragio elettorale.
Tutte queste prospettive interpretative fanno luce su aspetti diversi del nostro presente ma vi è una ulteriore lettura possibile che può aiutare a individuare una sorta di filo conduttore che attraversa la crisi dei partiti e la lega a quella delle strutture politiche, sociali ed economiche. Vi è infatti una sorta di saldatura delle fratture che emergono sul piano politico e istituzionale così come su quello economico e sociale, con faglie culturali antiche, che affondano le radici nel Novecento e che hanno un forte connotato religioso, cristiano e cattolico in particolare.
Le faglie del cattolicesimo europeo
Quello che si ha di fronte è un mutamento culturale di portata globale, che nasce da un quadro storico generale dove sono messi radicalmente in questione i fondamenti della democrazia. Si tratta di una sfida che investe il piano essenziale e dimenticato della cultura politica e che fino ad ora nessuno ha saputo o voluto affrontare. Tuttavia, dentro questo deterioramento progressivo delle forme della politica, vi sono luoghi nei quali più evidente è l’esistenza di un nesso strettissimo fra l’emergere di una politica che esplicitamente rifiuta i fondamenti della democrazia liberale e il manifestarsi di un cattolicesimo identitario, declinato secondo forme molteplici di nazionalismo o di affermazione della diversità culturale esclusiva ed escludente di un popolo.
Se ci limitiamo ai confini dell’Unione Europea, la esplicita volontà di difendere la sovranità nazionale attraverso l’affermazione identitaria di un insieme di valori che hanno un fondamento religioso di matrice cattolica rappresenta un tratto qualificante della politica di alcuni governi europei: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Italia. A questo elenco è possibile aggiungere, considerando il dato politico che emerge dalle recenti consultazioni elettorali regionali, alcune ampie zone della Germania, soprattutto la Baviera, storicamente “cattolica”.
Si tratta di una geografia che investe certamente paesi di più “recente” democrazia, nei quali, come un attento osservatore qual è Massimo Cacciari ha notato, sembra manifestarsi ora una saldatura fra identità statuale e identità nazionale che i paesi dell’Europa occidentale avevano conosciuto due secoli fa. Tuttavia, la diffusione di un consenso per una politica autoritaria e “forte” si dispiega dentro un’area che ha un connotato storico-geografico specifico: quello che cento anni fa è emerso dalle ceneri dell’impero asburgico e che è fatto di linee di faglie e di linee tensione che hanno un fortissimo connotato cattolico.
Occorre capire le ragioni di tutto questo, soprattutto le ragioni di un cattolicesimo che nel corso del Novecento ha assunto un ruolo identitario sul piano nazionale in ragione di un susseguirsi di contingenze storiche spesso tragiche. Quell’area geografica multiculturale che dal Mar Baltico arriva all’Adriatico, ha conosciuto infatti il deflagrare dei nazionalismi e il loro assumere l’aspetto di totalitarismi di matrice fascista, per poi essere proiettata dentro il perimetro di un socialismo reale che, nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica, aveva cercato di livellare le differenze nazionali e culturali. È qui, che il cattolicesimo supplisce alla costruzione di una dimensione identitaria nazionale e assume così un ruolo di carattere politico che oggi mostra tutta la sua problematicità. Soprattutto perché si tratta di un cattolicesimo che, se è stato un palese avversario del socialismo reale, lo è stato anche dei sistemi liberali, giudicati non solo come “non cristiani” ma come anticristiani. Il magistero di un pontificato come quello di Giovanni Paolo II, che pure ha assunto una portata planetaria e internazionale come mai prima era accaduto ad un successore di Pietro, è attraversato da alcune di queste tensioni. Dentro i diversi contesti nazionali, soprattutto dell’Europa dell’Est, il cattolicesimo ha così conosciuto riformulazioni secondo una chiave di lettura che recuperava un carattere antico dell’apologetica cattolica: l’idea che la modernità, liberale o socialista, sia costitutivamente anticristiana e che come tale abbia dato origine a strutture politiche che, nei loro fondamenti, sono viziate da un relativismo. Così, in questo che è un giudizio storico-religioso ed etico sugli ultimi secoli, la democrazia diviene la traduzione politica di un atteggiamento, per così dire, filosofico, che ponendo ogni verità sullo stesso piano, finisce per negare la possibilità di affermarne una che abbia valore universale.
Il ritorno della critica della “modernità”
Si tratta di giudizi che non più di un decennio fa ancora venivano espressi, anche in sede di magistero, nei confronti di un’Unione Europea che non aveva esplicitato le proprie “radici giudaico-cristiane” nel suo progetto di Costituzione. Una posizione, questa della critica alla “modernità” filosofica e con essa alla modernità politica, che oggi si fa particolarmente efficace, sul piano culturale, in quei paesi nei quali il cattolicesimo fatica a trovare un confronto critico ed efficace con il nodo chiave della democrazia, intesa non solo come formula istituzionale ma come metodo e prassi di governo delle relazioni politiche e sociali.
Una dinamica diversa si compie in paesi “occidentali” come l’Austria e l’Italia e in regioni come la Baviera, ma anche in Francia con il successo del Front National di Marine Le Pen. Qui, la decennale battaglia culturale del magistero contro il relativismo si è saldata con la battaglia di movimenti di destra contro la democrazia plurale e rappresentativa e dunque, anch’essa, “relativista”, incapace di proteggere i cittadini perché frammentata e preda di interessi “altri”, “privati” e non “nazionali”.
L’esito di tutto questo è un’Europa nella quale la questione della democrazia e della sua crisi si traduce in una crisi strutturale che certamente è anche determinata da una problematica originaria: quella del rapporto fra cattolicesimo e politica. Essa nasce dalle critiche che, da ambienti ecclesiastici o di cultura cattolica, sono state mosse alla democrazia e dall’aver stabilito o teorizzato l’esistenza di una saldatura fra il sistema istituzionale democratico e l’indifferentismo etico dello Stato liberale. Vi è in questo l’effetto lungo dei decenni a volte tormentati che sono seguiti al Concilio Vaticano II. A questo si aggiunge un dato di carattere storico-politico. A partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento la crisi dei partiti politici di ispirazione cristiana, soprattutto nell’Europa occidentale, inizia a rivelarsi come qualcosa di ben più profondo della semplice fine di un sistema politico, determinata dal venir meno della contrapposizione fra Est e Ovest.
La fine della Democrazia Cristiana in Italia, che è il frutto di molteplici fattori, fra i quali vi è anche una crisi irreversibile di un metodo di gestione del potere, ha tuttavia manifestato un vuoto progressivo nella traduzione politica di una cultura politica specifica. Quella cultura politica che, ispirandosi all’insegnamento sociale della Chiesa, aveva saputo mettere a disposizione di una spiccata sensibilità sociale le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, dando ad esse una finalità politica. È la stessa cultura che, ancora negli anni Ottanta del Novecento, era propria degli omologhi partiti tedesco e spagnolo e di una parte del panorama politico francese (Mitterrand era stato, nella prima fase della sua carriera politica, un uomo di governo del partito “cattolico” francese).
Se in Italia quella cesura storica ha determinato la fine della Democrazia cristiana, negli altri paesi essa ha assunto i tratti di una mutazione “genetica” di quei partiti di tradizione democratico-cristiana: questi sono diventati partiti liberal-conservatori, modificando i loro riferimenti culturali e accettando un orientamento che veniva dall’America di Ronald Regan o dall’Inghilterra di Margareth Thatcher e che gli storici della politica e dell’economia chiamano “Washington consensus”.
Questa mutazione ha coinvolto anche i partiti progressisti e socialisti, che hanno accettato un ordine di rapporti politici ed economici che era imperniato sulla drastica contrazione dell’autorità delle istituzioni pubbliche, sia nazionali che internazionali. Del resto, è questo l’orientamento che, negli anni Novanta e nei primi anni duemila, hanno seguito paesi come la Germania e l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, l’Italia stessa, quando sono stati governati da coalizioni di matrice progressista. Pur di fronte al riemergere di istanze sociali e pur con la consapevolezza di dover rispondere ai contraccolpi di un quadro che diventava globale, non si è adeguatamente compreso quanto l’ordine delle cose che prendeva forma avrebbe fatto emergere nuove questioni identitarie, nuove paure e nodi sociali che sono governabili solo attraverso le istituzioni pubbliche e non possono essere risolti dalle forze “naturali” del mercato.
La sfida delle culture politiche
La vera sfida che allora sembra emergere dal nostro tempo e dalle sue radici storiche è quella della cultura politica. Si tratta di una questione che oggi riguarda, in modo particolarmente evidente, le forze politiche di sinistra e progressiste, che sembrano soffrire una crisi di identità senza soluzione e senza fine. Essa però riguarda anche, e forse in modo ancor più decisivo, il cattolicesimo e la sua capacità di animare culture politiche rinnovate o nuove nel quadro europeo di oggi.
Non si tratta di ricostruire partiti “cattolici” o partiti dei cattolici. Farlo significherebbe non capire che quello che oramai è venuto meno è un modo di intendere la politica che è proprio del Novecento: fatto di partiti con un forte connotato ideologico e di una coincidenza fra una struttura partitica e una determinata cultura politica, che oggi è difficilmente riproponibile. In questo, i cosiddetti “populismi” o “sovranismi”, che invece rivendicano proprio un carattere espressamente “di parte”, mostrano il loro essere l’ultimo resto del Novecento politico.
La questione è allora cosa viene dopo, o più direttamente: cosa costruire dopo? Un primo passo è quello di ritessere la trama di una, meglio, di più culture politiche: certamente di una cultura politica che, lasciandosi provocare dall’insegnamento della Chiesa, dal Vangelo e dalla teologia, rilegga i tratti così confusi del nostro tempo per decifrarne gli intrecci e leggerne i contenuti. Economia e politica, democrazia e solidarietà, istituzioni politiche e relazioni economiche, strutture sociali e orientamenti intellettuali, sono gli elementi costitutivi della realtà storica in cui questo nostro tempo si esprime e da cui soltanto può emergere una cultura politica rinnovata.
La costruzione di una cultura politica non è rinviabile e soprattutto non si deve commettere l’errore, che troppo spesso si fa, di giudicarla qualcosa di decorativo ma di non importante perché lontano dalla “concretezza”. Cultura politica non significa esercizio di un giudizio filosofico sulla politica o sulla storia: significa invece avere gli strumenti per guardare e capire il cambio d’epoca che attraversiamo, significa apprendere l’alfabeto con cui è scritta la realtà che viviamo e dunque tutt’altro che chiudersi in un mondo di sole idee. Significa fare quell’esercizio di comprensione dell’ordine delle cose che disegna linee di sviluppo storico il cui punto di fuga è nel domani. Più ancora, la cultura politica ha un ruolo essenziale proprio per la politica: perché è l’unico efficace antidoto ad ogni tentazione di declinarla o come pura competizione per l’esercizio del potere o come semplice onesta amministrazione. In entrambi i casi, per usare una locuzione teologica, l’esito è una politica disincarnata, che perde la sua umanità perché non è più nella storia e quindi diventa la cosa forse più distante dalla “concretezza”.
Rispondere a questa urgenza non rappresenta certamente una soluzione rapida alle tensioni che il quadro attuale ci mette davanti. Ma questo non ne riduce la necessità: se possibile l’accentua. Occorre dunque la pazienza di raccogliere questa sfida, che è quella di “pensare politicamente” e di farlo alla luce di un’ispirazione cristiana. È solo così che si edifica un rapporto fra cattolicesimo e democrazia che, consegnando alla storia una lettura diffidente della vicenda degli ultimi secoli, sappia riconoscere la presenza e il perdurare di un’influenza religiosa anche in quella modernità che pure sembra essere inesorabilmente etichettata come “laica”.
Rileggere la storia della democrazia, per come noi la conosciamo, da questo punto di vista permette di far luce su un dato essenziale che diventa anche una prospettiva percorribile per il futuro. Se il secolo che segue il 1789 è segnato, sul piano della cultura politica, dalle istanze di libertà che si traducono nelle istituzioni rappresentative e parlamentari e nelle prime costituzioni, quello che lo ha seguito, il “secolo breve” delle guerre mondiali, dei nazionalismi e dei totalitarismi, è stato anche attraversato da una sensibilità crescente per istanze di giustizia non solo individuale ma sociali e collettive. Forse, allora, una cultura politica per il secolo che ci sta davanti è quella che completa la libertà e l’uguaglianza con il terzo, più dimenticato e forse più cristiano, degli ideali della Rivoluzione francese: la fraternità.
Riccardo Saccenti
Relazione tenuta a Parma, con questo titolo, il 15 novembre 2018.
L’autore, ex fucino, è ricercatore di Storia della filosofia medievale, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e membro della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Bologna).
24 Dicembre 2018 at 23:00
Molto interessante e utilmente stimolante anche per la rete e i suoi soggetti aderenti. Le culture politiche restano mentre i partititi e le istituzioni cambiano, necessariamente, perché riferiti a periodi definiti e comunque limitati. Resta il problema del rapporto tra i soggetti interpreti e diffusori delle diverse culture politiche ( come la rete c3 dem) e i partiti o forze politiche che si caricano della responsabilità istituzionale attraverso la competizione elettorale. Rapporto che non può essere né irreversibile ne interscambiabile, quindi ancorato alle risposte possibili sulle questioni basilari che interessano le comunità. Impegno politico con funzioni distinte purché chiaramente discoplinate e rispettate