Alta astensione alle urne per un sentimento dilagante di sfiducia nella politica; un’offerta politica, di classe dirigente, di qualità non eccelsa; comunicazione e linguaggi intrisi di violenza; candidati che non fanno sintesi tra esperienza civica e esperienza politica. Affrontare questi nodi è la sfida del presente. Potrebbe dare un contributo positivo il possibile soggetto di centro liberal-democratico che va affacciandosi all’orizzonte. Ma c’è un ma…
Tra il catastrofismo terrorizzante e il minimalismo tranquillizzante ci sarà pure una via di mezzo ragionevole? Ossia: tra coloro che dicono che la democrazia è moribonda sotto i colpi di autoritarismo e disinteresse astensionistico e quegli altri che rispondono più o meno: “È fisiologico, tutto va ben, madama la marchesa. Non parliamo di fascismi e non creiamo falsi alibi”, ci sarà pure una posizione sensata di mezzo che consenta di fare una riflessione ponderata?
Sì, penso ci sia, e non si tratta di replicare un puro e semplice in medio stat virtus, ma di operare un confronto che, soprattutto per chi si rifà ai valori fondanti e costituzionali della nostra Repubblica, deve sempre essere tenuto come metro di pensiero e azione per poter valutare insieme aspetti positivi e negativi.
Bene: proviamo a mettere in fila quattro elementi (fra i tanti possibili), secondo quello che abbiamo visto e letto dopo l’ultima competizione elettorale.
Primo. L’astensione alle urne è stata alta, molto alta, e denota tre fattori di base: sfiducia verso la politica come strumento per l’organizzazione condivisa della vita collettiva; sfiducia verso le istituzioni che quella organizzazione dovrebbero rendere concreta, presumibilmente perché ritenute incapaci di tenere in seria considerazione le esigenze di singoli e gruppi; sfiducia nelle dinamiche democratiche che dovrebbero esercitare il compito della migliore distribuzione possibile di poteri e contropoteri. Questa struttura di pensiero apre il varco a una cascata di altre potenziali conseguenze dirette. Si pensa che siano inefficaci le regole e il rispetto di esse; inutili il sentirsi parte di una comunità e la solidarietà che ne è il cemento; inefficaci le organizzazioni che rendono questa opzione visibile e tangibile (in primis i partiti); improbabile, se non impossibile, immaginare un futuro migliore che sia condiviso e sia costruito dalle risorse umane e materiali di ciascuno. Sfiducia come “principio ordinatore” di tutto.
Tutto ciò è molto pericoloso. E non si può essere superficiali dicendo che “gli assenti hanno sempre torto”. Perché il vuoto in politica non esiste, e se anche non volessimo chiamare fascismo l’orizzonte che rischia di aprirsi, l’autoritarismo in un contesto siffatto è dietro l’angolol.
Secondo fattore. L’incrocio tra domanda e offerta è, in molti campi, quasi sempre il miglior indicatore che la dinamica in atto ha funzionato. Nella vicenda elettorale appena passata l’enorme quantità di offerta personale di candidati e liste non ha per nulla incontrato la domanda, che era fatta di personale qualificato, di idee, di proposte serie, di dialogo, di analisi e di tutto ciò che denotasse, appunto, una qualche qualità. Credo proprio che si possa dire che la delusione per questa offerta così inadeguata si sia tradotta in astensione.
Terzo: i linguaggi. Continuo a pensare che le parole, oggi più che mai, a lungo andare danno forma al pensiero e – spesso – determinano le azioni che ne conseguono. Timbro e registri della violenza non sono stati per nulla accantonati con l’inattesa caduta del sistema della “Bestia” (la comunicazione leghista che ben abbiamo conosciuto in questi anni); rimangono forti ed impregnano tutto e tutti, persino le sedi istituzionali (si veda il richiamo alla “strategia della tensione”, per l’assalto alla Cgil, insensato sia dal punto di vista storico che fattuale). Insomma, è necessario un radicale cambio di registro, fatto di una comunicazione gentile e capace di ascolto, non-violenta nel pensiero prima ancora che nelle azioni. Chi ha il coraggio (perché la cosa riguarda la destra, in particolare, ma non solo) di cominciare esplicitamente con questa radicale novità?
Quarto: gli strumenti della partecipazione politica attivano la consapevolezza che si fa parte di una comunità e nei suoi confronti si può assumere, almeno in parte, una ragionevole quota di responsabilità gestionale. Bene, siamo sinceri: anche nel nostro mondo cattolico in molti hanno pensato che la politica si inverasse anche (se non proprio soltanto) con la concreta e trasparente azione del volontariato e degli organismi di partecipazione dal basso; e altri hanno considerato questi mondi come, sì, positivi, ma sostanzialmente inadatti per la “vera” politica (quella che punta alla “stanza dei bottoni”). Si tratta di due opinioni distanti che alla fine hanno trovato un qualche punto di incontro soltanto nella cooptazione di persone singole, appartenenti a quelle realtà. Risultato? In sostanza, un depotenziamento di attendibilità, trasparenza e “voce in capitolo”.
Si dovrebbe tracciare, invece, (abbiamo provato a farlo qualche anno fa con un convegno di C3dem) un cammino – certo, faticoso e non privo di ostacoli – di confronto continuo e rispettoso, se non proprio di intreccio: cittadinanza civica e cittadinanza politica devono andare, se non proprio a nozze, almeno a braccetto. La qualità dei risultati politici in due città, Milano e Bologna, dove da tempo si sta cercando di praticare questo modello, ne è la prova provata.
Ora, queste sono solo quattro semplici indicazioni che mi permetto di suggerire (ma altre se ne possono aggiungere, per carità), visto un certo clima bipolare che – dopo il confronto elettorale e la radicalizzazione delle opinioni che ha comportato – si sta creando anche presso molti intellettuali (forse sollecitati dal rimprovero più volte a loro mosso, non sempre a ragione, di essere assenti dal dibattito contemporaneo). D’altra parte, aggiungo, siccome si fa un gran parlare di un Centro necessario al quadro politico nazionale per una più chiara riconfigurazione di proposte, strategie e alleanze in vista delle prossime elezioni politiche (a partire da quella per il Presidente ella Repubblica), è bene considerare che il disegno del centro non è solo una questione di collocazione, ma – di più, molto di più – è un atteggiamento mentale e culturale, che alle quattro questioni indicate sopra può dare risposte precise e nette. Ma la domanda è: questo possibile prossimo centro moderato – che non voglio giudicare qui se auspicabile o no – può astenersi (è proprio il caso di dirlo…) dal definire il suo orientamento rispetto ai campi politici della sinistra e della destra, in vista di un futuro governo? Non è vero, come qualcuno si è incautamente affannato a dire, che sinistra e destra siano concetti finiti. Cinque questioni, tra le molte: uguaglianza, fisco, alleanze europee, diritti civili, lotta contro la povertà. Davvero si può dire, in tutta onestà, che le risposte politiche a questi nodi sono ormai superate da quelle tecniche? Le scelte sono indifferenti? Ci si può dire neutrali?
Ecco, allora, penso che si possa chiedere che questo centro, autodefinitosi liberal-democratico, con le forze che sono già in campo e quelle che potrebbero nascere da ulteriori scissioni, faccia subito chiarezza. Ne va della dignità del confronto politico. Alle elezioni parlamentari, come ben si sa, non esistono i ballottaggi.
Vittorio Sammarco