Una riflessione personale, all’indomani della sua sepoltura, sulla figura di un papa la cui forza di pensiero ha interrogato in profondità, e talvolta diviso, credenti e non credenti in un periodo storico in cui più franco e impegnativo si va facendo il rapporto tra fede e ragione e in cui si avvicendano momenti di aspro conflitto e tentativi importanti di dialogo tra diverse culture e fedi religiose
In genere la storia di vita di una personalità pubblica parte da un suo comportamento straordinario (che possiamo definire eroico) dal quale facciamo risalire l’interpretazione di un’intera esistenza. Nel caso di Benedetto XVI, l’evento storico è senz’altro costituito dalle sue dimissioni avvenute l’11 febbraio 2013: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo – affermò il Papa eletto nel 2005 – è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”.
Un discorso di una coerenza radicale; all’atto dell’elezione, infatti, si era presentato come un “semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”. Joaquin Navarro-Valls, per lunghi anni direttore della sala stampa del Vaticano, commentando le sue dimissioni disse che in lui sono stati sempre indissociabili concretezza intellettuale e profondità contemplativa; aveva la consapevolezza che spesso lo spirito del male si opponeva al desiderio di santificazione col pericolo di farlo deviare dalla buona via. Nella prima udienza generale dopo le dimissioni ribadisce che non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore; onvertirsi significa in primo luogo non chiudersi nella ricerca del proprio successo, della propria posizione e prestigio, ma impegnarsi affinché in ogni giorno, nelle grandi come nelle piccole cose, la verità e l’amore diventino le cose più importanti. Il male maggiore è il culto del potere e l’assolutizzazione dell’utile individuale; il delirio dell’onnipotenza appare sempre presente in chi esercita un ruolo di potere. Non è un caso che la sua prima Lettera enciclica sull’amore cristiano, pubblicata nel 2006, abbia come titolo “Deus Caritas est”. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte. L’incontro è, ovviamente, con Gesù Cristo. Amerai il tuo prossimo come te stesso si legge nel libro del Levitico. In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto.
Non dobbiamo dimenticare che era il periodo degli attentati kamikaze di matrice islamica, che esplose anche nel cuore dell’Europa come a Madrid e a Londra, di cui l’inequivocabile segno premonitore fu l’attacco alle Torre gemelle dell’11 settembre 2001, inizio del nuovo secolo. La grande parabola del Giudizio finale, pensa Ratzinger, ci dice che l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Leggiamo nella Lettera di san Paolo ai Corinzi: se possedessi una fede così grande da trasportare le montagne ma non avessi l’’amore, io non sarei nulla. Gesù si identifica con i bisognosi: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Se uno dicesse: Io amo Dio e odiasse il suo fratello, è un mentore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1Gv4, 20). Nella successiva enciclica “Caritas in veritate” del 2009, sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, afferma che la ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano.
Portando alle estreme conseguenze queste affermazioni arriva a dire che “l’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano”. Un’affermazione che mi sembra contraddittoria con lo spirito di dialogo necessario per affrontare i gravi problemi del mondo globale dove tutte le fedi e le visioni antropologiche devono poter dialogare non sulla base di argomenti di fede o di impostazioni filosofiche, ma sulle visioni sociali e politiche che ciascuno fa derivare da esse.
Era stato proprio questo il senso del confronto dell’allora cardinal Ratzinger con il filosofo tedesco Habermas, il quale temeva il dominio di una “modernizzazione aberrante”, che indeboliva il legame democratico e la solidarietà sociale in presenza di “monadi isolate” che agiscono soltanto sulla base dei propri interessi e usano i propri diritti individuali contro il prossimo. Le religioni, e le conseguenti pratiche solidaristiche a favore di tutte le fragilità, costituiscono una sfida intellettuale ineludibile. Il filosofo deve perciò affrontare, secondo Habermas, quei potenziali di significati incapsulati nella religione e deve porsi il problema di pensare una struttura sociopolitica che possa accogliere il messaggio religioso confrontandolo con altre “dottrine comprensive”. In una democrazia pluralista hanno valore e voce tutte le visioni del mondo, purché accettino una “clausola condizionale” delle pluralità esistenti esibendo argomenti sociopolitici e non di fede. E tutte le società devono garantire il diritto al dissenso.
Ratzinger affermava che la ragione è liberatrice, ma ha generato la bomba atomica e anche le religioni, pur essendo salvifiche, hanno generato crimini umani e fondamentalismi, quindi devono lasciarsi illuminare dalla ragione. Nel contesto multiculturale e multietnico contemporaneo non esiste un’unica interpretazione del mondo su cui tutti siano d’accordo. Più in generale, religione e fede sono chiamati alla reciproca collaborazione. Nel dibattito pubblico molte di queste sue prese di posizione sono state oggetto di pesanti controversie e anche di strumentalizzazioni politiche. Molti dei difensori della cosiddetta “tradizione” e delle “radici cristiane dell’Europa” trasformavano l’attaccamento alle radici in chiusura nei confronti di altre culture e nell’erezione di muri contro i migranti e i diversi, mentre chi sente di avere un pensiero forte non solo non teme il dialogo, anzi lo considera un arricchimento di tutti i soggetti partecipanti.
D’altra parte, il tanto propagandato “relativismo culturale”, quale espressione della modernità, finisce per non riconoscere nulla come definitivo e lascia come ultima misura il proprio io e le sue voglie sempre modificabili secondo le mode del momento. La libertà è sempre una scelta morale tra il bene e il male, non ciò che conviene a me e che prescinde dal giusto o non giusto. Il relativismo, se diventa insofferenza ai valori, è un pericolo reale, affermava Giuliano Amato a commendo delle prime dichiarazioni di Ratzinger dell’aprile 2005.
Salvatore Vento
8 Gennaio 2023 at 22:29
Apprezzo le sottolineature riportate; mi preme ricordare quello che considero il capolavoro profetico di Benedetto XVI: l’enciclica “Caritas in veritatem” cui seguì e permane un assordante silenzio!!! Se non si torna a quelle pagine difficile trovare alternative valide ai drammi della società attuale.
roberto cazzola