Il consenso e la stima che il premier raccoglie in Italia e all’estero sono certo un miglioramento rispetto alla situazione precedente, ma finora anche il solo. Invece di affannarsi intorno a questioni marginali come le licenze dei taxi e l’articolo 18, bisognerebbe impostare una strategia per la crescita e la riduzione del debito
di Pierre Carniti, in www.eguaglianzaelibertà.it – 13 febbraio 2012.
L’ammirazione che circonda il premier Mario Monti appare esagerata. Non fosse altro perché non ha ancora avuto il tempo di affrontare i veri problemi italiani. Tantomeno di risolverli. Eppure è elogiato dai leader occidentali, dalla stampa internazionale, dall’establishment nazionale, che lo considerano il salvatore dell’Italia e persino dell’eurozona.
Evidentemente la sua formazione economica, la sua padronanza dell’inglese, i suoi modi sobri e diretti suscitano considerazione e rispetto. Tanto maggiore per l’evidente contrasto con il suo predecessore. Troppo incline alla cialtroneria, alle barzellette, alla superficialità, al fascino femminile. Tuttavia, malgrado questi apprezzamenti, non si può non riconoscere che i pregi ed i difetti dell’Italia rimangono in larga misura quelli di prima e le prospettive economiche sono rimaste le stesse di novembre. Quando cioè il premier ed il “governo tecnico” sono entrati in carica.
In effetti, finora Monti è riuscito a fare poco o nulla per migliorare le prospettive di crescita. Anzi, si è addirittura “incartato” intorno a problemi apparenti. Come alcune pseudo liberalizzazioni, o l’articolo 18 dello Statuto. Ben sapendo che l’aumento delle licenze dei taxi o delle farmacie, così come la querelle sull’articolo 18, non spostano di una virgola i problemi della crescita. Tuttavia, per come sono state enfatizzate queste faccende marginali, si può capire che se il governo non riuscisse a portare a casa qualcosa finirebbe per accreditare l’impressione di non essere riuscito a combinare alcunché. E’ quindi comprensibile che cerchi di scongiurare questo esito. Possibilmente senza esagerare.
Resta in ogni caso il fatto che l’operazione simpatia lanciata da Monti e dal suo governo, per corteggiare i mercati e gli opinion leader e convincerli che le scelte fatte sono quelle giuste, migliora certamente l’immagine dell’Italia, ma lascia immutati i problemi di fondo sulla competitività e la crescita del paese. Soprattutto tenuto conto che l’economia italiana, da tempo in affanno (negli ultimi dieci anni la crescita è stata in media dello 0,4 per cento), è oppressa da: corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata, basso tasso di natalità, aumento del numero delle persone a “rischio povertà”, scarsi livelli di istruzione, infrastrutture inadeguate, enorme debito pubblico. Al catalogo si può anche aggiungere: il collasso della giustizia civile, una burocrazia inconcludente, un tasso di occupazione che ci mantiene assai lontani dal resto d’Europa. Naturalmente l’elenco potrebbe continuare ed ogni commentatore avrebbe probabilmente una opinione diversa su quale sia il problema più grave.
Ad ogni modo, e sia pure con dispiacere, si deve riconoscere che è questa la vera Italia. O per lo meno una sua grossa fetta. Che purtroppo il rispetto ed il consenso, manifestato a livello internazionale, nei confronti del premier italiano non è sufficiente ad intaccare. Tant’è vero che, anche secondo l’ultimo sondaggio trimestrale svolto dalla Reuters tra gli economisti, l’arrivo di Monti non ha migliorato né le aspettative di crescita e nemmeno le attese per la tenuta per i conti pubblici italiani. Al punto che, per quanto riguarda la crescita, dallo zero del precedente sondaggio la previsione sull’andamento del Pil per il 2012 è addirittura precipitata al -1,2 per cento, mentre il disavanzo è stato stimato al 2,2 per cento del Pil. In linea con il 2,3 per cento precedente. Ma significativamente al di sopra dell’obiettivo del governo che è dell’1,6 per cento. Proprio sulla base di queste previsioni negative nessuno degli interpellati ha ritenuto possibile aspettarsi che Monti possa raggiungere, come promesso, il pareggio di bilancio nel 2013.
Si può naturalmente supporre che le previsioni degli economisti abbiano lo stesso grado di attendibilità di quelle delle chiromanti. Tuttavia, i problemi ci sono e continuano a restare incombenti. Basti pensare alla assoluta mancanza di una qualunque politica industriale. Che necessiterebbe dell’individuazione di 5 – 6 settori nei quali l’Italia potrebbe competere con successo sui mercati internazionali, concentrando e destinando a questo proposito i trasferimenti pubblici alle imprese, oggi invece sostanzialmente sperperati con una distribuzione a pioggia. Senza altra ragione che non sia un puro calcolo politico-elettorale. Basti pensare all’assenza di un sostegno adeguato alla ricerca. A cominciare dalle tecnologie più innovative. Basti infine pensare alla carenza di una vera politica energetica.
In proposito è sufficiente ricordare che nel 1999, quando ha adottato l’euro, l’Italia aveva un saldo positivo della bilancia commerciale pari a 22 miliardi di dollari. Da allora la situazione è cambiata radicalmente perché oggi ha invece un deficit di 36 miliardi di dollari. Questo cambiamento è dovuto a molti fattori. Compreso l’aumento delle importazioni dalla Cina. Ma il più importante è stato il rincaro del petrolio. Infatti, nonostante un calo delle importazioni di circa 390 mila barili al giorno rispetto al 1999, oggi l’Italia spende circa 55 miliardi di dollari all’anno per il petrolio importato, contro i 12 miliardi del 1999. Questa differenza è quasi pari all’attuale deficit della bilancia commerciale.
A questo riguardo è possibile fare qualcosa di concreto? Le soluzioni percorribili non sono certo un segreto. Il dato da cui partire è che complessivamente ricaviamo un nono di energia utile dalla quantità di energia primaria impiegata derivante: da combustibili fossili, biomasse, fonti energetiche rinnovabili. La differenza è dovuta a perdite ed inefficienze nei processi di conversione e trasmissione. Perciò, aumentando l’efficienza, si potrebbe ottenere la stessa energia, ma bruciando meno combustibile. Si dovrebbero inoltre definire obiettivi di tutela ambientale per migliorare l’utilizzo del consumo di energia dai combustibili fossili. Ad esempio; si può tassare maggiormente il petrolio per favorire una riduzione del consumo energetico; si possono abbassare i limiti di velocità sulle strade; si può incoraggiare l’uso dei mezzi di trasporto pubblico (che, naturalmente, vanno resi disponibili); si possono destinare crediti d’imposta allo sviluppo di fonti di energia rinnovabili. Magari incoraggiando l’impiego di tecnologie alternative (che in Italia sono già disponibili) rispetto alle importazioni di pannelli solari dalla Cina.
Ovviamente è un cambiamento che durerà decenni e che dunque supera l’orizzonte di permanenza del governo Monti. Ma questa non è certamente una buona ragione per non cominciare subito. Per non iniziare ad agire immediatamente. Invece purtroppo si insiste e si perde tempo soprattutto in operazioni di “facciata”. Che lasciano sempre solo il tempo che trovano.
Se tutto questo non bastasse, si deve anche fare i conti con la questione cruciale del debito pubblico. Che è il nodo scorsoio stretto al collo dell’economia italiana. Problema che, se non affrontato con una misura straordinaria, in grado di ridurre drasticamente lo stock accumulato, trascinerà inevitabilmente a fondo tutta l’economia. Anche perché l’idea che la faccenda possa essere risolta semplicemente con politiche di bilancio restrittive non sta assolutamente in piedi. Del resto è lo stesso viceministro dell’economia Vittorio Grilli a riconoscerlo. Sia ammettendo che le proposte in discussione non serviranno a migliorare l’economia per almeno tre anni, che sottolineando, allo stesso tempo, la inconsistenza dei piani per la riduzione del debito. Per essere ancora più chiaro, ha anche fatto notare che (in anni di politica di bilancio prudente e restrittiva) il debito è passato dal 121 per cento del Pil del 1995 a meno del 104 per cento del 2007. In sostanza in 12 anni di politiche restrittive (tant’è vero che l’economia non è cresciuta) si è riusciti a diminuire il debito solo dell’1,4 per cento all’anno. Cioè meno della metà di quanto ci siamo invece impegnati a fare, sottoscrivendo il “fiscal compact” con l’Europa.
Stando così le cose l’Italia rimane ai piedi del muro. Sia per quanto riguarda la crescita che la riduzione del debito. Se ne deve dedurre che il governo Monti, per contribuire davvero a tirare fuori l’Italia dai guai, dovrebbe dedicare meno tempo ed energie ai problemi apparenti, per concentrarsi su quelli veri. Anche quando la loro soluzione dovesse superare la durata del suo governo. Se ciò dovesse verificarsi, come sarebbe assolutamente auspicabile, all’apprezzamento della élite del potere (interna ed internazionale), potrebbe allora verosimilmente aggiungersi anche quello dei tanti italiani. I quali invece non riescono ancora ad intravedere alcuna prospettiva di uscita dal tunnel. Anche perché finora, specie chi sta in basso nella scala sociale, è stato soprattutto costretto a peggiorare le proprie condizioni di vita. Essendosi dovuto sobbarcare la parte prevalente dei costi di aggiustamento dei conti pubblici.