Le ultime elezioni hanno affondato il bipolarismo? Ce lo si può legittimamente chiedere, e si può tentare un ragionamento su questa situazione nuova.
Io non sono un sostenitore del bipolarismo come articolo di fede. Più modestamente, penso però che il bipolarismo sia una logica di razionalizzazione dell’offerta politica che porta chiarezza per l’elettorato, permettendo di capire la fondamentale differenza in gioco. E porterei un elemento di ordine storico: guarda caso, più o meno tutte le grandi democrazie contemporanee, europee e non, hanno un’organizzazione bipolare dello spazio politico con una destra e una sinistra. Categorie vituperate e condannate, ma alla fine ancora dominanti. Certo, ci sono occasionali modificazioni (terzi partiti, forze anti-bipolari, coalizioni e «grandi coalizioni» temporanee), ma tutti eventi che complicano, articolano, o correggono lo schema bipolare senza stravolgerlo radicalmente. Certo, c’è anche un’evoluzione nel tempo: destra e sinistra non sono immobili, mutano pur nella riproduzione di alcuni stilemi di fondo. Sarà pure un principio di realtà, quindi, considerare questo orizzonte. Mi pare improbabile la teorizzazione per cui l’Italia debba sempre fare eccezione in nome di una presunta diversità (arretratezza? specificità? Mah…).
Detto questo, oggi le cose come si presentano? Ci sono i due poli storici degli ultimi vent’anni ridotti a circa un terzo scarso dell’elettorato. C’è stato il tentativo di Monti di presentare un’offerta «oltre la destra e la sinistra», etichettato da più parti come centrista, che non ha ottenuto grande successo. C’è un quarto dell’elettorato che ha votato il M5S che si presenta anch’esso fuori dallo schema bipolare (vogliono sedere «in alto» in parlamento, non a destra o a sinistra).
Osservo questo: dal punto di vista sistemico, non è probabile che il bipolarismo italiano si evolva in bipartitismo. Quindi, il bipolarismo non è per principio contro le alleanze. Se si teorizza che il Pd ha un «tetto invisibile» nell’elettorato che non riuscirà mai a sfondare, non è affatto contro la logica bipolare che cerchi alleanze. Certo, deve esserci qualcuno che intercetti i consensi che il Pd non riesce a intercettare e che sia «alleabile», cioè produca una sinergia positiva, e non causi perdite di consensi paralleli e maggiori di quelli che porta. Per dirla tutta, una eventuale alleanza Pd-Monti prima di questo turno elettorale sarebbe stata probabilmente ambigua e fragile, proprio per la divaricazione di molte parole d’ordine e una certa incompatibilità di elettorati.
D’altra parte, Monti non ha sfondato a destra: non si è coalizzato con la destra, ma non è riuscito a sottrarle più di tanto consenso. Quindi, se qualcuno pensava che l’attuale presidente del Consiglio potesse finalmente risolvere il problema di una destra italiana impresentabile e problematica, condizionata dalle vicende personali di Berlusconi, ha perso la scommessa. Non è però questo un problema che possa essere caricato sulle altre forze culturali e politiche. C’è qualcuno che possa esprimere altri tentativi in questo campo? La destra italiana deve esprimersi soltanto con l’asse forza-leghista? Se sarà così, possiamo anche ipotizzare che sia destinata a una prospettiva di marginalità.
Il M5S pone un altro tipo di problemi. Ha sfondato nei consensi, con un programma e con ambizioni palesemente diretti contro i due poli e oltre gli schieramenti. In prospettiva, però, potrà sottrarsi alla scelta bipolare? Una volta che, poniamo paradossalmente, l’arma critica contro i privilegi della casta gli fosse sottratta da una ondata virtuosa di autoriforma della politica, se volesse governare il sistema, da che parte starebbe? Il momento attuale ci ricorda una certa analogia con la Lega nord: la prima ondata leghista era una protesta contro la politica «romana», di taglio localista e federalista, in cui convivevano istanze diverse; poi il combinato disposto di derive dei leader (che hanno intercettato alcuni umori xenofobi e antistatalisti del «profondo nord») e dell’operazione brillante e non semplice di Berlusconi di cercare una sponda alla propria discesa in campo, ne hanno cavato una forza organica di un’alleanza di centro-destra (anche a prezzo di rotture, aggiustamenti ed emarginazioni di alcune componenti messe in secondo piano dall’emergere prepotente di nuovi fattori). Non potrà succedere qualcosa di simile per quanto riguarda il destino del M5S? C’è qualcuno in grado di compiere un’altrettanto ardita operazione politica, che approdi a valorizzare in chiave di riformismo europeo di centro sinistra alcuni elementi presenti nel programma del movimento (trasparenza, democrazia, ecologismo, afflato sociale e anti-finanziario), depurando al contempo un aspetto di arroganza contingente da homines novi e un poco convincente approccio verticistico-assembleare dalle venature preoccupanti? Oppure, specularmente parlando, il movimento continuerà a illudersi di vincere da solo o si adatterà a una logica sistemica europea, scendendo dal cielo poetico del successo «antipartiti» alla prosa della costruzione di progetti politici realizzabili? Ci sarà il tempo per costruire un processo di questo tipo, parallelamente alla necessità di governabilità del sistema?