E’ stato l’argomento del seminario promosso l’8 maggio dal Circolo “Il Borgo” di Parma in collaborazione con la rete nazionale dei cattolici e democratici “C3Dem -Costituzione, Concilio, Cittadinanza”.
E’ stato un appuntamento pensato come sviluppo, a servizio della comunità locale parmense, di uno dei temi emersi nel convegno nazionale C3Dem su “Costituzione ed Economia” svoltosi a Milano nel novembre scorso. Oltre quattro ore di serrato confronto finalizzate a porre a verifica alcune opinioni oggi molto diffuse: è vero che la spesa pubblica nel nostro Paese è troppo alta e frena la crescita? E’ vero che le risorse sono diminuite? Ha senso un welfare universalistico o sarebbe più equo che i “ricchi” pagassero i servizi che chiedono?
Il seminario è stato introdotto da Paolo Scarpa (Presidente del Circolo Il Borgo) e Vittorio Sammarco (coordinatore nazionale rete “C3Dem”). La relazione iniziale e la replica finale sono state affidate al prof. Massimo D’Antoni, uno dei relatori di Milano, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Siena, economista particolarmente attento a queste tematiche. Previsti 5 interventi programmati di persone particolarmente coinvolte nelle tematiche affrontate: Giuseppe Bizzi (consigliere comunale a Parma), Alessandra Bussolati (professionista e dirigente di partito), Giacomo Romanini (consigliere comunale a Colorno), Aluisi Tosolini (dirigente scolastico in un istituto superiore), Alessandro Volta (medico e consigliere comunale a Parma). Lavori organizzati e coordinati dai referenti di Parma nella rete C3Dem, Carla Mantelli, Eugenio Caggiati e Sandro Campanini.
Nel portare il suo saluto, Paolo Scarpa ha confermato l’impegno del circolo Il Borgo nella rete C3Dem e ha ringraziato per la scelta del tema. Nella nostra Costituzione sono, infatti, sanciti diritti – come quello al lavoro, alla salute, all’istruzione – che rischiano di non essere garantiti.
Anche Vittorio Sammarco ha ringraziato Il Borgo per aver voluto proseguire a livello locale la riflessione iniziata a Milano e ha ricordato il senso del lavoro portato avanti come rete di cattolici e democratici.
Per Sammarco, la politica consiste nella capacità di governare e non di cavalcare le domande che vengono dalla popolazione. Oggi mentre aumentano le richieste (e talvolta anche le pretese…) la possibilità di governarle è sempre più complessa se non impossibile. Chi governa ha sempre più bisogno di alimentare il consenso per sostenersi. Occorre perciò che il dibattito collettivo sulla possibilità di “permettersi” o no ancora un certo livello di Welfare, di cosa sia nella sua sostanza, di quali sono le coordinate di fondo e gli elementi da correggere, sia alimentato da una rete di associazioni e di realtà profondamente radicate nei territori e da quei corpi intermedi che si vorrebbero finiti… Ma un dibattito di questo genere non può fondarsi solo sulla “ragione”, su numeri e dati: da qui si parte ma si deve tenere conto anche di quell’immaginario e sentimento collettivo che alimenta il senso di appartenenza a una comunità, uno Stato, un Paese, una collettività, in cui le scelte sono fatte puntando all’utilità complessiva e non solo a quella di una singola parte. Non bastano, perciò, i discorsi che puntano solo alle idee e alle elaborazioni razionali: occorre far vivere le esperienze di comunità. Sentirsi parte non è un ragionamento astratto, ma una realtà vissuta nella concretezza. La cittadinanza, per dirla in parole povere, non è un concetto giuridico e basta: è una pratica quotidiana e partecipativa di condivisione a una Città, un Paese, un Continente. Solo così, ogni dibattito sul Welfare, come su altre scelte strategiche per il futuro del nostro Paese, può trovare legittimità.
Massimo D’Antoni ha iniziato il suo intervento con brevi accenni alla storia del welfare. Si tratta, infatti, di un sistema che si è affermato piuttosto di recente. Alla vigilia della prima guerra mondiale la spesa pubblica sul PIL nei paesi occidentali era del 10%; attualmente è intorno al 50%. Una crescita di ampiezza del welfare che è iniziata quindi dopo la prima guerra mondiale e proseguita dopo la seconda, con una forte accelerazione tra gli anni ’60 e ’90.
In questo contesto generale, l’Italia ha vissuto una situazione particolare: arriva tardi a quei livelli perché partiva da condizioni più arretrate e succede che il sistema di welfare va a completarsi proprio nel momento in cui le risorse cominciano a calare, cioè negli anni ’70. Negli anni ’80 si assiste poi a un accumulo del debito pubblico, dovuto a molti fattori ed errori ma anche a questa discrasia tra ampliamento del welfare e calo di risorse.
In sintesi, tra la fine della guerra e gli anni ’70 c’è una specie di “golden age” che assomma sistemi capitalistici e forte ruolo dello Stato, un periodo in cui si verifica il coinvolgimento delle classi medie e medio basse. Dagli anni ’80 questo trend si è invertito.
Due sono le principali idee guida di fronte a questo fenomeno:
– quelle condizioni erano possibili finché c’era la crescita economica, ma adesso non sono più sostenibili: è la posizione tipica del pensiero conservatore ed è entrata molto nel pensiero comune, ma è un’idea sbagliata;
– è proprio la diffusione del welfare che ha reso possibile la crescita. La spesa sociale è una parte fondamentale della crescita perché crea stabilità sociale; le “interferenze” del pubblico nel mercato consentono di farlo funzionare meglio, compensando i suoi “fallimenti” (cioè obiettivi che il mercato non riesce a ottenere, per esempio nella sanità, nel sociale, nell’istruzione).
Secondo i sostenitori della prima idea, la diseguaglianza è parte del funzionamento del mercato, che dà premi e punizioni e quindi incentiva. Il welfare impigrisce gli individui, se ce n’è troppo crea dipendenza. Questa tesi spesso fa breccia nel mondo politico, negli intellettuali e nell’opinione pubblica e porta un arretramento del welfare.
Secondo i fautori della seconda idea, viceversa, la spesa sociale è fondamentale per garantire un meccanismo redistributivo, non solo grazie alla progressività delle imposte, ma soprattutto perché consente l’accesso a servizi universalistici. In Italia, in particolare, il ruolo della spesa sociale è fondamentale perché la nostra situazione è caratterizzata da elevata incidenza del lavoro autonomo, che è molto diseguale al suo interno, elevata incidenza dei redditi da capitale, bassa partecipazione delle donne nel lavoro.
Il settore pubblico si fa carico della spesa sociale appunto per l’insufficienza delle risposte private/volontarie.
Il mercato è fondamentale per l’aumento della ricchezza ma le sue azioni sono basate sul calcolo costi/benefici a livello individuale. Ma una certa parte del valore di un certo bene va oltre il singolo.
Se vediamo la protezione sociale come una grande “assicurazione”, capiamo che mentre il settore pubblico può accollarsi le incertezze che potranno esserci nel futuro di ogni persona, non altrettanto può fare il mercato privato, se non a costi esorbitanti per il singolo o, più probabilmente, escludendo dalla copertura costi futuri non prevedibili. Infatti, il sistema pubblico garantisce la persona al di là di ciò che le succederà nel lungo periodo e delle variazioni nel tempo (ad esempio dei costi per una cura), mentre il mercato, per reggere, non può farlo nella stessa misura.
Non è poi vero che con un sistema sanitario basato su assicurazioni private il costo per la collettività è inferiore: in Italia il sistema sanitario pesa per il 7%, in Usa per il 17%, (metà sul pubblico per le situazioni di indigenza e metà a carico dei privati). Quindi nel complesso, il sistema USA costa di più rispetto a quello italiano.
Altro esempio importante da citare sono le pensioni, che costituiscono un patto intergenerazionale garantito dallo Stato.
Introdurre una selettività – lo Stato si occupa degli indigenti, i ricchi si pagano da soli i servizi – è pericoloso: intanto perché per le motivazioni sopra dette (difficilmente un’assicurazione privata può dare le stesse garanzie dello Stato). In secondo luogo, il dover pagare tasse, seppure inferiori, sapendo che andranno a vantaggio solo di alcuni, benché più poveri, tende ad essere visto in modo negativo; mentre compartecipare tutti a qualcosa di cui ciascuno beneficia è maggiormente accettato. Inoltre, chi beneficia dell’aiuto verrebbe stigmatizzato come categoria povera, creando divisioni nel corpo sociale.
Il primo intervento programmato è stato quello di Giuseppe Bizzi, che ha esordito dicendo che sentiamo dire molto spesso queste frasi: “non ce lo possiamo permettere”, “non ci sono alternative”. E’ un’esperienza che egli stesso sta vivendo come consigliere comunale, proprio in questi giorni. Ma perché queste affermazioni si fanno solo a proposito del welfare, dei servizi? Perché non per altre voci di spesa? Cosa intendiamo per welfare? Non è solo un’erogazione di prestazioni: occorre allargare l’idea di welfare. Ad esempio, la gestione del tempo, che oggi è un bene fondamentale, la fruizione della cultura. Si tratta di ridurre i servizi? O non piuttosto di organizzarli meglio? Molto spesso sono pensati come una forma di utilizzo passivo da parte delle persone, mentre la Costituzione non ne parla in questi termini ma come dovere di “rimuovere ostacoli” finalizzato alla partecipazione di tutti… Si taglia ciò che si vede, senza indagare su ciò che non si vede: ad esempio, se calano le iscrizioni in un asilo nido, invece di capire perché ciò avviene, è più semplice chiuderlo. Chi è il soggetto che “non se lo può permettere”? L’ente pubblico come amministrazione o la collettività? Quando si parla di ridurre un servizio, chiediamoci: abbiamo il diritto di “non permettercelo”? Abbiamo messo in campo tutte le azioni per evitarlo? Ad esempio il recupero fiscale, una maggiore capacità amministrativa…
Aluisi Tosolini, ha dato alcuni elementi sulla situazione della scuola. Le spese per la scuola, ha detto, sono legate per il 95-98% agli stipendi, quindi meno del 5% per il funzionamento didattico e altre iniziative. Occorre perciò cercare risorse nel territorio, non solo in forma di denaro. Spendiamo tutti questi soldi perché, secondo l’art. 3 della Costituzione, la scuola serve a “rimuovere gli ostacoli”. Oggi c’è invece il rischio che produca ‘ruderi’. La scuola in realtà è ormai uno dei pochi ambienti davvero “pubblici”, in cui un ragazzo o una ragazza incontra tutti, di ogni condizione, provenienza, idee, credo religioso, situazione personale. La scuola dovrebbe avere la funzione di “intellettuale sociale”, restituire senso alla comunità in cui vive. Anche per Tosolini, serve innanzitutto una diversa organizzazione delle risorse che già ci sono. Infine, vanno superati alcuni equivoci e alcune resistenze: la scuola delle competenze non è la scuola della competizione; la scuola non deve essere autocentrata: il parere di famiglie, studenti e società è importante; la valutazione degli insegnanti va fatta, naturalmente con criteri seri e corretti.
Il giovane consigliere comunale Giacomo Romanini ha aperto il suo intervento sottolineando che per capire come gestire le risorse, bisogna innanzitutto chiedersi “quali sono le priorità?”. “Qual è il progetto politico?”. Ma per entrare nel merito del progetto, occorre farsi idee precise. Occorre tornare a studiare. L’intervento di D’Antoni dimostra che abbiamo assorbito una sola teoria, mentre con informazioni, conoscenze, formazione condivisa (e non gelosamente tenuta per sé, come spesso succede) è possibile intravvedere strade alternative. E’ molto importante a questo proposito che ci sia uno scambio di esperienze e conoscenze tra adulti e giovani. Occorre, infatti, maturare competenze per essere in grado di entrare nel merito delle scelte amministrative e non accontentarsi di ciò che viene dato per acquisito. Occorre uno sforzo per individuare percorsi e scelte innovative che molto spesso non si ha la capacità o il coraggio di introdurre.
Per Alessandra Bussolati, giovane professionista nel campo della sanità e impegnata politicamente, nel parlare di welfare occorre innanzitutto ricordare la responsabilità della politica: a volte l’esternalizzazione dei servizi è il prezzo che si paga per una mancanza di controllo su ciò che viene elargito al cittadino. L’amministrazione ha il diritto e dovere di cambiare le proprie strategie se verifica che non funzionano come dovrebbero. A volte, poi, mancano idee e volontà di informarsi e così si scelgono le soluzioni più facili e immediate. Ad esempio, Bussolati ha ricordato come quasi per caso avesse avuto occasione di ascoltare l’esperienza della Sindaca di Corsico, nel milanese, che per contrastare/prevenire infiltrazioni criminali ha creato una banca dati nel suo Comune in cui si incrociano tutti i dati in possesso dell’amministrazione e poi li si incrocia con quelli tenuti da altri soggetti (Agenzia delle Entrate, ecc.). In questo modo, oltre ad avere un quadro sempre aggiornato della situazione della popolazione del suo Comune, che consente di rilevare “anomalie”, è riuscita a recuperare 500.000 euro di evasione che sono stati investiti in servizi al cittadino. Altro esempio concreto: il suo Comune, Montechiarugolo, ha potuto risparmiare una somma significativa tramite il ricorso a risorse di energia rinnovabile e risparmiando sull’illuminazione pubblica con lampadine a led. Questi esempi dimostrano che è molto importante lo scambio di esperienze e buone pratiche, nella ricerca di nuovi modi di affrontare le scelte amministrative, non adattandosi a una gestione puramente contabile.
Secondo Alessando Volta, il welfare non va considerato una spesa, ma un investimento. E’ questo cambio di mentalità che dovremmo introiettare e praticare. La sanità purtroppo ormai non è più realmente universalistica perché la compartecipazione è molto alta. Per cui bisogna immaginare in modo diverso e più articolato il sistema sanitario, sulla base del principio di appropriatezza – che è la vera parola-chiave – delle cure e dei trattamenti, identificando innanzitutto i livelli essenziali di assistenza (LEA) che devono essere sempre garantiti. La grande sfida che ha di fronte la sanità è il governo della domanda. Infatti non riusciamo a tenere sotto controllo le cure primarie perché non puntiamo ancora abbastanza sulla prevenzione. Occorre spostare risorse su tutte le azioni che possano evitare in futuro ricorso all’assistenza, a partire dai bambini e dalle famiglie. Ad esempio, gli interventi di natura psicologica e psichiatrica, quando attuati su giovani ormai cresciuti, rischiano di essere poco utili oltre che molto dispendiosi, mentre occorre un lavoro di diagnosi e prevenzione che inizi molto più presto, già nell’età dell’infanzia.
Un ampio dibattito, sia sui temi di fondo, sia su aspetti concreti e diretti, si è sviluppato con l’apporto delle tante persone presenti: ma di questo non riusciamo a dare conto e ce ne scusiamo con chi è intervenuto. Un’esperienza, nel complesso, che si è rivelata, a detta dei presenti, utile e stimolante e che potrebbe proseguire in futuro. Soprattutto, continuando a esplorare temi concreti e a tenere aperto il dialogo e il confronto tra nuove e “mature” generazioni, in uno scambio che arricchisce entrambi.
Sandro Campanini