La Corte Costituzionale ha pubblicato pochi giorni fa le motivazioni della sentenza dello scorso aprile che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di fecondazione eterologa imposto dalla legge 40. La Corte sostiene che “avere figli è espressione della fondamentale libertà di autodeterminarsi”. Sulla sentenza, la n. 162/2014, della Consulta si sofferma l’autore, già docente di Diritto processuale penale all’Università di Torino e presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale.
E così, sotto i colpi della Corte costituzionale, è caduto un altro tassello della legge 40 sulla procreazione assistita. L’“inseminazione eterologa” – cioè praticata con i gameti di un ”donatore” esterno alla coppia, per lo più anonimo – viene ad essere consentita, anche in Italia, «qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili». Più ancora della conclusione specifica, ha però colpito un’affermazione di principio, racchiusa in un aggettivo usato dalla sentenza per definire il diritto delle persone ad avere figli: “incoercibile”.
Presa alla lettera, l’affermazione vorrebbe dire che quel diritto non può essere sottoposto ad alcuna forma di costrizione o di restrizione; ed è vero che la stessa Corte costituzionale, chiarendo di non volersi spingere tanto in là, sottolinea che il riconoscere come incoercibile la libertà di autodeterminazione della coppia «di sicuro non implica» che tale libertà possa «esplicarsi senza limiti»; ma la suggestione delle parole è quella che è, ed un vocabolo del genere si presta indubbiamente ad essere usato con toni ultimativi per troncare ogni discussione su tutta una problematica altrimenti apertissima.
Capita. E capita che di quell’“incoercibilità” ci si avvalga sino a tacciare di “arroganza” l’agire di chi, in Parlamento, aveva ritenuto opportuno porre, con mano più o meno felice, dei freni al far west dei “figli in provetta”. Certo, gli estremismi ideologici non sono tutti da una parte sola: così, continua ad essere forte, in molti, l’opposta tentazione di considerare come mero capriccio di imperdonabili egoisti (e di assassini virtuali) il sottoporsi al percorso, tutt’altro che “comodo”, della procreazione artificiale: da una parte e dall’altra, scavalcandosi con disinvoltura il dramma dei sentimenti e la delicatezza degli equilibrii di tutela che un argomento come questo chiama in causa, se si vuol tenere nel debito conto sia le comprensibili aspirazioni di chi cerchi quella via per soddisfare una vocazione alla maternità e alla paternità, sia le potenzialità dei frutti dell’“impianto” (ah, questa terminologia che riporta ad immagini di tanta aridità operazioni che incidono sulle più intime profondità dell’esistenza …) e in particolare il futuro di chi diventerà un bambino in carne ed ossa.
Mi si permette di prendere le cose alla larga, da “non-specialista” del tema specifico? A mio parere, sarebbe ora che, quando si discute di argomenti come questo – e come altri, a loro volta attinenti a quello che viene definito l’“eticamente sensibile”-, la si smettesse anzitutto di usare toni da guerra ideologica combattuta senza esclusione di colpi. Basta, perciò, con l’evocare Auschwitz e le camere a gas ogni qual volta si sentono avanzare dei dubbi sul fatto che l’embrione sia in tutto e per tutto equiparabile a una persona già completamente formata. Ma basta anche con le accuse di oscurantismo, di ipocrisia e addirittura di totalitarismo, lanciate a man salva appena qualcuno difende certe regole a suo tempo poste con la legge 40, oppure ne contesta altre, operate con la legge 194 sull’interruzione della gravidanza (ormai proclamata come intoccabile in ogni sua parte e baluardo irrinunciabile di quel “diritto di abortire” che invece si teneva pudicamente sullo sfondo allorché si trattava di agevolarne l’approvazione).
Non è comunque il caso di abbandonarsi alle lamentazioni o di covare propositi di rivincita purchessia. In questi campi non ci si deve immiserire in battaglie di schieramento, con vincitori a trionfare e sconfitti ad attrezzarsi per ricambiare il cappaò. Quanto alla legge 40 – ammettiamolo – è ormai quasi del tutto smantellata ed è impensabile che la si possa far tornare com’era, nonostante che sia stata il risultato di un impegno convergente di credenti degli opposti schieramenti politici e di non-credenti che sarebbe ingeneroso bollare, tutti e soltanto, come “atei devoti”.
Le soluzioni legislative allora raggiunte non hanno retto all’enfatizzazione dei diritti individuali che è divenuta dominante, almeno negli orientamenti maggioritari all’interno delle Corti supreme europee, costituzionali e sovranazionali: anche se tale enfatizzazione è per molti versi lontana, nel bene e nel male, dal modo in cui si concepiva il bilanciamento tra i diritti (anche fondamentali) ed esigenze di altro genere quando si scrivevano le “Carte” dell’immediato dopoguerra, nelle quali, tra l’altro, non c’è neppur traccia visibile di alcuni tra quelli che oggi vengono invece indicati come diritti intangibili (in particolare, per quanto concerne la sfera sessuale).
Probabilmente occorrerebbe un … rimettere la palla al centro e ripartire da un confronto a tutto campo senza tabù di sorta, accettando tutti senza riserve mentali di operare su un terreno “laico”: non però nel significato di forzatamente “areligioso” o addirittura “antireligioso” che sovente si dà a questo termine per impedire ai credenti di metter bocca su certi problemi, ma nel senso di una spinta alla ricerca di un terreno comune tra tutti gli uomini e le donne “di buona volontà”, in cui ciascuno porta il contributo di quanto gli suggerisce la coscienza individuale e quella del contesto – culturale e di fede o “non-fede” – cui appartiene, stando però in reale ascolto delle ragioni degli altri. Il quadro complessivo della politica italiana non consente forse di farsi soverchie illusioni sulla volontà collettiva di porsi in questa prospettiva, ma … la speranza non deve mai morire. E tuttavia, se non si vuole che quel confronto resti un dialogo tra sordi, occorrerebbe liberarsi, tutti, da un sottinteso pregiudizio: quello che porta a pensare che in ogni caso “siamo noi” – noi gruppo, noi partito, noi Chiesa … – gli unici a possedere le chiavi per interpretare correttamente le più reali esigenze del bene comune e dunque ad avere il diritto-dovere di farle prevalere ogniqualvolta si controverta sulle dimensioni e sulle modalità di un diritto.
La vicenda della legge 40 dovrebbe però anche far riflettere sul tramonto di un’illusione. Resta, sì, vero che i “paletti giuridici” – come spesso si dice – possono essere importanti anche nel “creare costume”, ossia nell’indirizzare i comportamenti individuali di rilevanza sociale. Ma guai ad affidare a quei “paletti” il compito principale, o addirittura esclusivo, di tenere alti valori e princìpi, sia pur sacrosanti, come l’attenzione per il bisogno di “identità” del bambino che può nascere dalla provetta: e, questo, non solo e non tanto perché, specialmente oggi, le leggi di un Paese possono essere facilmente aggirate da “chi può”, col trovare all’estero quel che non trova qui.
Giustissimo, d’altronde, non volere che si incoraggi la riduzione a mero egoismo individuale quello che chiamerei, non tanto diritto incoercibile, quanto desiderio irreprimibile di avere figli. Però, secondo me, la controspinta più efficace non si trova tanto in limiti e divieti – più meno credibili e più o meno cedevoli e mutevoli – che si riesca a inserire in questa o quella legge specifica, ma piuttosto nella testimonianza di comportamenti diffusi tra coloro che in certi valori “ci credono”, così che questi possano percepirsi come veramente vissuti, e non soltanto sotto un profilo particolare. Ed è semmai “in positivo” che in questo compito difficile e mai abbastanza realizzato si può essere sostenuti da leggi e istituzioni, con un insieme di scelte complessive – soprattutto di organizzazione dell’istruzione, del lavoro, della sanità … – che alla solidarietà si ispirino realmente, non come a un incubo negatore di diritti, bensì come a un fattore di contemperamento di diritti e doveri.
Tutto ciò, poi, senza cedere al vezzo della moralistica somministrazione, dall’alto, di ricette per comportamenti virtuosi o addirittura per eroismi che si fa in fretta a suggerire, un po’ meno a praticare. Mi viene in mente un esempio, per un’associazione di idee che a me riesce spontanea tra la realtà della procreazione assistita e quella dell’adozione, del resto evocata sovente come alternativa di solidarietà alla prima. Chi adotta un bambino, certamente, deve impegnarsi – e ci mancherebbe altro … – a cercare, anzitutto, e soprattutto, il bene dell’adottato; e non è male ricordarlo; ma quanti soloni fanno in fretta a servirsi di questa evidenza per dubitare della sincerità di quell’impegno, se alla radice di una domanda di adozione emerge che c’è stato, più che altro, un desiderio, proprio della coppia e di ciascuno dei due, che non si è riusciti a realizzare “naturalmente” ….
La solidarietà – e l’amore, perché di questo, in definitiva, propriamente si tratta – hanno tante strade per esprimersi: più e meglio di quanto si pensi quando se ne ragiona a tavolino e con schemi rigidamente prefissati.
Mario Chiavario
18 Giugno 2014 at 14:54
Grazie per questo contributo, davvero di spessore. Un caro saluto!
19 Giugno 2014 at 17:21
Ottimo, Mario! Equilibrato e (anche perciò) incisivo.