Della condizione del lavoratore nell’impresa (di cosa produrre, come produrre, perché produrre) non si parla più da tanto tempo. Ma questa condizione non solo confligge con la democrazia, ma oggi è anche il vero e più importante ostacolo alla democrazia stessa. La proposta di un nuovo patto sociale
Nell’area francese e belga, fra l’altro in particolare all’Università di Lovanio (un valido esempio di cose può essere una università cattolica), si esprimono varie voci a sostegno della necessità che anche il lavoro si ispiri alla democrazia.
Da noi è più facile che si parli di temi attuali, come lo smart-working e il lavoro dei riders, ma le questioni di fondo, quelle strutturali, quelle che riguardano la condizione del lavoro umano, che continua ad essere lavoro “subalterno” (e in molti casi anche sfruttato), sembrano oramai abbandonate, ritenute materia di dibattiti ideologici di altri tempi.
Eppure, questa è la condizione della grande parte dei lavoratori, salvo un’area pubblica o autonoma, che però è in larga misura dipendente dal sistema in cui opera.
Ora il discorso del lavoro democratico è estremamente semplice: siamo in paesi democratici, le istituzioni sono democratiche, le scuole educano alla democrazia, la democrazia è un principio costituzionale, ma le imprese rimangono un luogo inaccessibile a questo principio su cui si reggono le nostre società.
Il grande sviluppo del dopoguerra ha spostato l’attenzione sul progresso materiale e sociale (welfare) dei lavoratori: si è attuato nei fatti un compromesso che ha visto il movimento dei lavoratori accettare l’organizzazione tayloristica del lavoro in cambio di un sostanziale miglioramento della loro situazione salariale; ma di quella che è la condizione del lavoratore nell’impresa (di cosa produrre, come produrre, perché produrre) non si è più parlato.
Questa condizione non solo confligge con la democrazia, ma oggi è anche il vero e più importante ostacolo alla democrazia stessa.
Abbiamo assistito anche di recente a votazioni, peraltro nelle maggiori città del paese, nelle quali metà dei cittadini non si sono presentati, segno impressionante di una scarsa coscienza democratica.
Ma se la prima e più rilevante esperienza della loro vita quotidiana, quella del lavoro, si presenta apertamente come un’esperienza opposta, che fiducia devono avere i cittadini nella democrazia?
Che cosa significa esprimere un voto ogni cinque anni per partiti poco presenti, per candidati che non si conoscono e per una politica che si vive come lontana?
Giustamente Axel Honneth afferma che la coesione sociale di un popolo è data più dal lavoro che non da un astratto voto una tantum; sarà pure un voto democratico, ma è troppo casuale e volatile per costituire un forte elemento di identificazione collettiva.
Ma se così è, allora questa coesione sociale del lavoro andrebbe considerata, valorizzata, per così dire democratizzata, perché possa esprimere tutta la sua potenzialità.
Per questo il discorso “strutturale” sul lavoro va ripreso e il tema della partecipazione va portato avanti con forza e determinazione.
Così posto, non è certamente solo un tema sindacale, ma eminentemente politico e culturale.
Molto importanti sono a riguardo i corsi che Alain Supiot, giurista molto noto in tutta Europa anche perché autore di un rapporto dell’UE sul futuro del lavoro, ha svolto al Collège de France.
In uno dei suoi scritti Supiot, nel descrivere come sia nato il “contratto di lavoro salariato”, desunto sostanzialmente dai contratti di natura commerciale (compra-vendita di merci), ipotizza e auspica il suo superamento.
Viene in mente il pensiero di Pio XI che nella Quadragesimo Anno proponeva di “temperare” il contratto salariale con un’altra forma di contratto, da lui definito “contratto di società”, con chiaro riferimento all’esigenza di associare il lavoratore all’impresa.
Questo apre la porta ad un altro tema strettamente connesso al lavoro, quello dell’impresa: perché considerare l’impresa una realtà di proprietà del padrone o degli azionisti e non come una “istituzione” cui contribuiscono una pluralità di soggetti e che ha una responsabilità verso l’ambiente in cui è inserita?
Ad esempio, quando ognuno dei partecipanti ha avuto il dovuto: il salario ai lavoratori, gli emolumenti ai dirigenti, gli interessi ai capitalisti, perché l’eventuale surplus deve andare ai proprietari e non a tutti coloro che vi hanno contribuito?
Sono problemi tutt’altro che superati; sono piuttosto i problemi chiave su cui si gioca il futuro della nostra democrazia: o rimane ferma col rischio già in atto di effetti disgregativi oppure compie un salto di qualità.
E questo salto di qualità deve realizzarsi nella sua struttura economico-sociale per superare il pesante sbilanciamento prodotto da tanti anni di politica neoliberista che ha distrutto il vecchio patto sociale.
Pertanto, si tratta oggi di realizzare un nuovo patto, naturalmente più avanzato e più congeniale allo sviluppo delle nostre società, che significa difendere e far progredire la democrazia: questo è il vero senso della proposta di lavoro democratico.
Sandro Antoniazzi
ottobre 2021