Lo stesso giorno che la stampa italiana ha annunciato l’enciclica di papa Francesco, il Corriere del 19 giugno pubblica un editoriale di Alberto Alesina: Il merito nelle società diseguali. Strana coincidenza, mi sono detto. Il titolo mi ha fatto ricordare un mio vecchio professore di cui dirò dopo. Ora, deve essere chiaro che rimboccarsi le mani e darsi da fare non è mai un peccato. Anzi. Ma devo confessare che dopo averlo letto sono rimasto con diversi dubbi. Siccome Alesina non è un editorialista qualunque, credendo di non aver capito bene l’ho letto una seconda volta. Le mie perplessità sono però aumentate: i meriti vanno premiati perché sono loro a creare mobilità sociale; un lavoratore non deve fare il lavativo; le tasse fanno male; la scuola non premia il merito. Tesi che così formulate, potrebbero addirittura convincere. Ma che nascondono una triste e vecchia conclusione: siccome il progresso economico è figlio delle diseguaglianze, queste si devono accettare perché necessarie allo sviluppo. Alesina è un noto economista italiano. Insegna nella prestigiosa Harward University che registra nel suo Albo d’oro ben 26 premi Nobel. Da questa Università sono passati, tra gli altri, John Kennedy, Barack Obama, H. Kissinger, Bill Gates. Insomma una fucina di classe dirigente liberale Usa. Insegna anche alla Bocconi dove ha studiato e si è laureato. In questo suo stringato articolo sul merito, recupera alcune tesi di un suo libro scritto anni fa assieme a Francesco Giavazzi: Il liberismo è di sinistra. Un saggio contestato dalla sinistra ideologica. Apprezzato solo in parte da coloro che cercano di coniugare il capitalismo neo-liberista con la democrazia e dagli estimatori delle terze vie. E condiviso dagli inconsolabili vedovi di Francis Fukuyama con la sua previsione sulla “Fine della Storia” e la definitiva vittoria del liberismo capitalista. Chiarito che l’onesto sforzo intellettuale e il rispetto della democrazia di Giavazzi e Alesina sono fuori discussione, sono invece le loro deduzioni che hanno aperto un dibattito ancora non esaurito.
Alcune sicuramente da sottoscrivere. Come per esempio il peso delle corporazioni e delle lobby che limitano le libertà nel mercato; l’eccesso della spesa pubblica, spesso inefficiente (per non aggiungere altro); la elefantiaca presenza dello Stato in aziende che possono essere benissimo privatizzate; la critica severa ai monopoli. Altre da leggere criticamente. Come quando, accanto all’elogio della concorrenza e al rifiuto di uno Stato che pensa a divorare e limitare le libertà dell’individuo – una presa di distanza neo-liberista contro qualunque categoria collettiva e comunitaria, compresi i corpi intermedi, fatta propria dall’individualismo metodologico e messa in atto dalla Thatcher e da Reagan –, si affianca la privatizzazione come dogma della concorrenza e, subito dopo, la presa di distanza da un eccessivo welfare puntando tutto sul libero mercato, sulla crescita e sul “merito”, motori primi dell’ascensore sociale. Anche in questo articolo di Alesina, nessun cenno ai costi umani e sociali della crescita. Ai danni ecologici. Nessuna parola sulla concentrazione di immense conoscenze negli uffici studi di multinazionali in grado di pianificare il futuro dello sviluppo. E nessuna voglia di andare alla radice del c.d. merito confuso tra Ad, caso mai di banche mondiali, e professori di scuola. Perché secondo Alesina è proprio il merito e non il censo sociale di appartenenza che determina il successo. Ed è una società meritocratica che crea la crescita e il benessere. Una tesi valida in un mondo ideale, ma che passata al setaccio della realtà che conosciamo avrebbe fatto impallidire don Lorenzo Milani e quel mio vecchio professore che, forte della sua lunga esperienza didattica, raccomandava di usare il meno possibile il sostantivo merito. E quando lo si usava bisognava mettersi “…i guanti di gomma… e adoperare le pinzette disinfettate dal nepotismo… dalle raccomandazioni … e dalle utopie sempre presenti nella storia dell’uomo”. Sono quelle utopie dei nostri giorni che rimuovono il ruolo centrale del capitalismo finanziario. Quello che investe soldi per produrre altri soldi. Ma che poi è quel capitalismo che può cambiare le sorti di intere nazioni e di interi popoli. Come ha fatto capire papa Francesco rivolgendosi nella sua enciclica alle banche, salvate “…facendo pagare il prezzo alla popolazione”, e chiamando alle sue responsabilità e al suo primato la politica. Nell’articolo in questione Alesina fa un passo in più. Temerario. Bisogna essere diseguali perché solo le diseguaglianze creano gli incentivi al loro superamento, ci rendono competitivi e promuovono giustizia e mobilità: “…Meritocrazia e competizione nel mercato garantiscono giustizia e mobilità sociale”. Una scommessa platonica sul governo dei migliori, una fiducia immensa sull’autoregolazione spontanea del mercato, e una giustizia come variabile dipendente dalla competizione. Insomma un approccio meccanicistico alla società e all’uomo, in cui la povertà viene pensata come una molla sempre carica in attesa di scaricarsi per fare crescere l’economia e il mercato. Lascio la materia agli studiosi e ai filosofi della storia. Per quanto mi riguarda non ho potuto fare a meno di rivolgermi alla enciclica di papa Bergoglio“Laudato Sì” con cui, a ben vedere, l’articolo in questione si scontra ferocemente. Non solo per la decrescita “verde” e la critica al consumismo evocate da Francesco. Ma anche per lo Stato chiamato ad essere presente nelle diseguaglianze e a promuovere lavoro. E per i rimproveri solenni al “paradigma tecnocratico” parente stretto del paradigma meritocratico.
Vorrei allora evitare di pensare che Alesina si avventuri a definire Bergoglio marxista. Lo hanno fatto già i repubblicani Tea party Usa, quando hanno letto nella sua Esortazione apostolica Evangeli Gaudium che l’attuale sistema economico è ingiusto perché uccide i deboli e gli esclusi. Figuriamoci quando, in occasione delle presidenziali, leggeranno la Laudato Sì !
Infine ritorno sul merito col mio vecchio professore. Nella radice latina del verbo “meritare”, diceva, troviamo il significato di “fare le parti…”. Ricevere cioè dalla famiglia “…quanto a uno gli spetta come propria parte, in una divisioni di beni”. Insomma, meritare significa ”avere la propria quota di una ricca eredità “. Non ho mai indagato sulla verità etimologica di questa interpretazione. Per la fiducia che ho sempre avuto verso la sua quarantennale esperienza, ci ho sempre creduto. Perché forse convinceva i miei pregiudizi sul sostantivo e sull’utopia meritocratica. Sul fatto cioè che tranne i geni riconosciuti, nella nostra società alle spalle del c.d. merito c’è sempre qualcuno o qualcosa. O qualche “eredità”.
Concludo. Sono convinto che solo gli stolti pensano di fare come quel servo evangelico “fannullone”, che ha nascosto e sotterrato il talento che il padrone gli aveva affidato, e che il buon Dio ha dato a ciascuno di noi. Ma sono anche persuaso che solo gli innamorati del liberismo pensano che ogni individuo sia l’ombelico del mondo, che è meglio avere uno Stato minimo, che l’anarchia nel mercato e il laissez-faire creino la crescita, e che per sviluppare il merito la società abbia bisogno per forza dei poveri.
Nino Labate
*L’articolo uscirà in forma più breve su “L’avvenire della Calabria”.
27 Giugno 2015 at 14:21
mi permetto di condividerlo su facebook, perchè ne sottolineo ogni parola.