L’articolo, in forma più breve, è apparso su “Toscana oggi” il 17 giugno. L’autore, ex fucino, è ricercatore di Storia della filosofia medievale, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e membro della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Bologna).
Dopo oltre novanta giorni si chiude una delle più lunghe crisi di governo nella storia della Repubblica. Certamente la più drammatica, per il susseguirsi degli eventi, per la fatica generata da un quadro partitico e da uno stile politico tanto nuovi quanto insensibili ai punti cardinali dei procedimenti della democrazia costituzionale, per una fragilità rivelatasi estrema del sistema istituzionale del paese. Un processo, quello che ha portato alla nascita del governo presieduto da Giuseppe Conte, che si è giocato sul crinale, sinora mai sperimentato nella vita della Repubblica, di una crisi costituzionale, quella che ha duramente opposto il Presidente della Repubblica e la maggioranza parlamentare, che segna un salto di qualità nella storia politica del nostro paese. Un evento, questo, arrivato a drammatizzare un quadro politico inedito tanto nei contenuti e nei protagonisti politici quanto nelle forme che ha prodotto: un accordo politico definito “contratto” siglato in assenza di un Presidente del Consiglio dei Ministri anche solo incaricato e che invece viene designato solo una volta concluse le trattative.
In poche settimane il paese si è ritrovato davanti ad una realtà del tutto inedita, che alcuni hanno semplificato evocando un ritorno alle forme e alle liturgie della cosiddetta “prima Repubblica” quando altri annunciavano l’inizio della “terza”, in una scansione storico-politica dubbia ed ridotta tutta sul piano di una retorica superficiale. Di fronte a quello che abbiamo sperimentato occorre interrogarsi, fuggendo polarizzazioni o etichette che comprimono la realtà in pericolosi riduzionismi incapaci di guardare a qualcosa che invece ha vari livelli di interpretazione, con i quali occorre misurarsi nella convinzione che gli eventi che in queste settimane si sono succeduti sul terreno politico-istituzionale sono frammenti di un quadro complessivo che tutt’ora ci è ignoto e che va al di là di una politica che parla la lingua dell’interesse dei cittadini e dell’interesse nazionale e che arriva però a declinarsi come lotta per il potere.
Rispetto a tutto questo, molti commentatori autorevoli hanno spiegato che quello che era in questione era, essenzialmente, la tenuta del nostro sistema istituzionale e del delicato equilibrio di poteri che per settant’anni ha retto la vita dello Stato, messo a rischio dallo scontro fra la rivendicazione delle prerogative qualificanti le istituzioni più alte della Repubblica e una maggioranza parlamentare che, investita dal consenso elettorale, pretende di essere interprete esclusiva della sovranità. Altri hanno invece rimarcato la questione della collocazione europea e internazionale dell’Italia e del suo ruolo nelle prossime evoluzioni del progetto politico europeo, oltre che del peso e dell’importanza del nostro paese dentro il sistema economico globale.
Questi tratti di una crisi politico-istituzionale sono l’esito tangibile di processi ben più profondi e di cui misuriamo oggi la portata storica: movimenti che hanno cambiato la geografia della nostra realtà così che il trauma istituzionale di oggi diventa il segno di un crinale storico in cui l’Italia vive una profonda crisi della propria vita democratica. Là dove il riferimento alla “democrazia” non è riducibile al solo momento istituzionale e alle sue specifiche procedure, ma ad uno stile nel quale l’uguaglianza fra gli individualità si somma al riconoscimento doveroso delle qualità di ciascuno, da preservare e comporre dentro un orizzonte comune. L’accezione istituzionale e quella sociale della democrazia sono difficilmente scindibili a meno di non svuotare le forme del suo spessore politico. Eppure è questo quello di cui oggi viviamo gli effetti, perché il vero nodo del contendere, attorno a cui si coagulano argomentazioni radicali, è esattamente il senso e il valore del termine “democrazia”. Da un lato vi è una Carta costituzionale che, memore dell’esperienza drammatica del “secolo breve”, esprime la democrazia come esercizio di una sovranità da parte del popolo da compiere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, anteponendo cioè diritti e doveri, e dunque la persona, ad un esercizio dell’autorità privo di limiti. Dall’altro vi è un’idea di democrazia intesa come attribuzione del potere ad una classe dirigente, la quale assume su di sé un ruolo di interprete delle istanze dei cittadini e che non ammette limiti, non tanto all’attuazione di un programma di governo o di iniziative legislative quanto nell’esercizio del potere tout court.
Questa contrapposizione è in realtà un elemento costitutivo di questo momento storico-politico europeo e mondiale nel quale forse l’Italia rappresenta un luogo di sperimentazione, sia sul piano del mutamento “genetico” dell’idea di democrazia sia su quello più politico delle risposte alla crisi che guadagnano un consenso crescente. Queste ultime, con il loro appello alla “sovranità” e alla difesa del paese da ingerenze di “potenze straniere”, segnano il ritorno di un lessico e di una visione della politica che, certo in forme diverse ma con toni altrettanto aggressivi, caratterizzava la vita europea cento anni fa. Il fatto che sempre più cittadini percepiscano questo linguaggio come la “novità” del nostro tempo rappresenta un dato non più ignorabile perché esprime un’esigenza a cui dare una risposta proprio pensando alla inseparabilità delle istituzioni democratiche dalla democratizzazione dei processi sociali ed economici nei quali si sostanziano i diritti e i doveri. È un punto, questo, che investe la qualità, e dunque la sopravvivenza, delle istituzioni democratiche e più ancora del progetto Europa per il quale si pone in modo non più eludibile la questione della democratizzazione dei suoi processi decisionali.
Si è osservato che il voto italiano, che nelle cifre elettorali consegna una netta maggioranza a Lega e Movimento 5 Stelle, esprime il senso di smarrimento che pervade la trama sociale, economica, culturale e politica delle nostre società e che si è espresso in quelle periferie sociali che oramai arrivano anche nel centro delle nostre città. Eppure, quello smarrimento è anche la denuncia di un futuro ancora inespresso: quello in cui si pensa la democrazia come governo di un conflitto e di una polarità fra persone e comunità, dunque fra portatori di diritti e doveri, che non può e non deve essere ridotta ma assunta come qualità di una realtà che resiste ad ogni tentativo di uniformità e che in ultima istanza reagisce ad ogni tentativo di conformismo perché la pluralità, con le sue tensioni, è l’origine di ogni dinamica sociale, economica, religiosa.
Di fronte ad un cambio di epoca che scorre sotto la faglia tellurica della crisi dei nostri ordinamenti politici e sociali ci troviamo privi non solo della capacità di lettura della realtà ma anche dello sforzo di governo di processi storici – si pensi all’immigrazione, al ritorno del religioso, alla redistribuzione della ricchezza a livello globale – che sono già in essere e che certo non attenderanno la risoluzione dei dubbi e delle paure dei cittadini italiani ed europei. È qui che si apre non solo lo spazio della politica, ma quello della cultura, che sa cogliere in momenti anche così drammatici i segni di un futuro la cui qualità morale dipende tutta dalle nostre scelte.
Riccardo Saccenti
23 Giugno 2018 at 14:47
Giancarla Codrignani
Davvero non se ne può più con la colpevolizzazione del PD che “avrebbe dovuto”. Che cosa? Fare da sgabello a sinistra del peggior qualunquismo targato M5S che ha detto tutto e il contrario nel giro di poche settimane? che, nella persona di Di Maio, ha minacciato l’impeachment di Mattarella e il giorno dopo si è presentato senza batter ciglio al Quirinale? Il partito del vaffa? il partito che ha zittito ogni giornalista critico? che era contro l’Europa, l’euro, gli immigrati, le donne, gli ebrei? che è proprietà di Rousseau e che ha un primo ministro che chiede l’autorizzazione a Di Maio per parlare?
Eppure il PD doveva dire. Doveva fare. Ha sempre detto. Ma cose vere che non a tutti “piacciono”. Che gli immigrati sono cittadini che cercano di vivere meglio, come gli italiani che per la stessa ragione emigrano e che in questi anni hanno raggiungo la cifra di 5 milioni (gli stranieri entrati sono forse meno). Ha legiferato contro il caporalato, per una Tv professionale e non di partiti, per i diritti civili, contro il depistaggio tutte cose che interessano la democrazia, non la demagogia. Il Pd ha proposto il Jobs Act e la Fornero per dovere di responsabilità per i 2.300 mld. di debito. Il Pd non è furbo: è un reato?
Doveva salvare la sinistra? Facciamo due conti: nel 2002 in Germania la SPD ha avuto il 38,5 %, nel 2017 il 20,5; in Finlandia SDP dal 24,5 al 16,5; in Francia dal 23,8 al 7,4; in Grecia il Pasok dal 43,8 nel 2000 al 19 nel 2018; in Olanda la socialdemocrazia dal 15 al5,2; in Austria dal 36,5 al 27; in Spagna dal 34,7 al 22,6; in Cekia dal 30,2 al 7,3; in Ungheria dal 42,1 al 25,6. Tocca alla sinistra italiana dire che, se la socialdemocrazia è in caduta libera, non si può volerne di più a sinistra di così. Ma dire che seguire è colpa.
Ho vsto Delrio fare opposizione, dire con fermezza a Conte che un Presidente non può ignorare Piersanti Mattarella. Adesso inizia il compito di educare gli italiani a capire a che cosa serve l’opposizione, che rappresenta la parte minoritaria della sovranità secondo la costituzione e non quella padronale degli attuali governanti. E vedere come fare politica sfruttando contraddizioni e conflitti tra due soci rivali.
E la gente di buona volontà che nomina – quasi sempre invano – la sinistra, si prefiguri che cosa farà per l’Europa quando torna dalle ferie.