Mi sembra molto bella e interessante la riflessione a più voci che si viene sviluppando su c3dem sui temi democrazia costituzione economia lavoro, con autori qualificati come Antoniazzi, Formigoni, Sammarco ed altri. Ovviamente tutti sono (siamo) consapevoli che si tratta di una riflessione globale, in cui sono in gioco tutti i valori della nostra convivenza civile, il nostro passato e il nostro futuro. E la ragione di una riflessione così vasta è dovuta alla vastità e gravità della crisi che attraversiamo. Una crisi che mi sembra molto profonda, fino a toccare il livello della coscienza personale e collettiva. E proprio a questo livello – che Lazzati avrebbe definito “culturale” (non nel senso astratto e accademico, naturalmente, ma a quello di integralmente e profondamente umano) – la crisi potrà essere affrontata e risolta.
E qui potrei mettere un punto, perché quello che avevo da dire… l’ho già detto in queste poche righe.
Però… Proverò però ad aggiungere qualche altra parola. Anzitutto vorrei confessare che condivido la preoccupazione di quanti considerano davvero grave e pericolosa la realtà (e le prospettive) di crisi che stiamo attraversando. Di fronte a vari problemi diciamo così di attualità (linguaggi, scelte, uomini e prospettive della vita politica nazionale) mi sembra che non sia facile intravvedere vere e proprie soluzioni soddisfacenti, anche se non nego che alcune decisioni vanno pur prese. Il rinnovamento dello stile e del linguaggio della politica, che è in corso, ha aspetti positivi e negativi; l’orizzonte e il progetto di riforme costituzionali mostra intuizioni buone accanto, forse, ad equivoci. Gli opportunismi si mescolano alle buone intenzioni. C’è del rinnovamento ma anche molto trasformismo ed opportunismo; ma ciò non può indurci allo scetticismo e all’immobilismo.
Naturalmente bisogna affrontare i problemi dati con le energie, gli uomini e le idee che ci sono; cercare di discernere e di costruire il meglio senza fanatismi né illusioni, anche attraverso un dialogo il più possibile sereno e un’attenta, ma sincera, apertura di credito verso i nostri interlocutori. Ecco: a me sembra che proprio in questo compito, difficile ma essenziale, il mondo associativo che si richiama a c3dem può offrire, e già offre, un contributo significativo (e vorrei dire esemplare). E non c’è da meravigliarsi: in fondo questo nostro mondo è cresciuto e cerca di riferirsi alle lezioni di Dossetti e di Moro, di Lazzati e di Elia, di Bodrato, Mazzolari, Bachelet e tanti altri. Se possiamo ritenere che la Costituzione sia nata da una maturazione delle coscienze avvenuta anche attraverso la crisi della democrazia e il disastro della guerra… possiamo sperare che qualcosa di nuovo e di bello possa nascere anche dalle difficoltà della situazione attuale. Lo accenno soltanto, ma meriterebbe pagine di considerazioni e documentazione: la crisi che stiamo vivendo e affrontando è assai profonda, viene da lontano, non sarà superata senza profondi mutamenti strutturali e soprattutto culturali ed etici.
Un certo benessere, abbastanza (ma non equamente) diffuso, ci rende disattenti alle crescenti cause di crisi che si diffondono nel tessuto sociale (nazionale e mondiale; economico, culturale, etico…) e rendono precario il già insoddisfacente equilibrio in cui viviamo.
Che fare? A me sembra necessario tornare urgentemente alla lezione che ci viene dalla storia: ed è l’invito a ricostruire anzitutto la forza delle coscienze, la consapevolezza della realtà in cui viviamo e dei diritti e doveri che in questa realtà dobbiamo radicare.
Anche perciò mi sono piaciuti molti recenti contributi apparsi su c3dem e la ragione stessa dell’esistere di questa Rete che non ha l’obiettivo di essere una scuola di alta politica né quello di parteggiare per qualcuno contro altri, ma vuole e può essere una scuola di dialogo e di riflessione, di coscientizzazione… per far crescere coscienze sempre più mature. E non parlo (solo) delle coscienze dei giovani. Parlo della nostre coscienze (della mia che ho passato i 70) perché tutti abbiamo da crescere e da aiutare a crescere chi ci sta intorno.
Da qui vengono i nostri richiami, il nostro ascolto della Costituzione, le nostre riflessioni sulla politica e sull’economia. Ed io vorrei sottolineare soprattutto, oggi, il tema del lavoro.
So bene che oggi, specie per i giovani, il tema del lavoro è anzitutto quello di un posto di lavoro, possibilmente stabile. Ma quando pensiamo al lavoro dobbiamo avere il coraggio di guardare anche più in profondo (e forse potrà anche essere un modo per…). Il lavoro è la principale via attraverso la quale ciascuno di noi contribuisce a far crescere la società, a rapportarsi con gli altri aiutandoli e facendosi aiutare. È la via attraverso la quale costruiamo la società di oggi e di domani, determiniamo l’ambiente (e la cultura) in cui vivranno i nostri figli… Per i credenti (e forse per tutti gli uomini di speranza, al di là delle confessioni religiose) è il modo con il quale contribuiamo alla creazione del mondo e del futuro.
Direi proprio che il tema del lavoro (inteso in questo senso lato e profondo) è davvero la questione fondamentale della nostra vita personale e sociale, della nostra democrazia. Del resto la nostra Costituzione dice proprio “fondata sul lavoro”, perché i costituenti hanno ritenuto che tutto il Paese si riconoscesse in questa idea dell’ homo faber, del civis faber… anzi di una comunità di uomini che lavorano, cioè costruiscono insieme il mondo in cui vivono oggi e vivranno domani, insieme con i loro figli e, chissà, con quanti verranno a bussare alla loro porta.
La centralità del lavoro, la sua riscoperta e valorizzazione, prendere coscienza del suo valore antropologico e politico (come scriveva Antoniazzi) è, a mio avviso, una battaglia decisiva per il domani d’Italia. Anche su questo potremo riflettere ancora, con questo bello stile di dialogo che questo “portale” c3dem ci consente. Potremo infatti affrontare e vincere le gravi difficoltà del nostro Paese, dell’Europa e del mondo (dell’ economia e del diritto, del dialogo tra i popoli, dell’etica familiare e sociale…) solo con una rinnovata, condivisa e forte idea del lavoro come impegno a costruire la città dell’uomo con giustizia, amicizia, efficienza, intelligenza, fraternità e speranza per tutti. Mi sembra quasi che oggi il lavoro non rappresenti (nella vita delle persone e dell’intero Paese) quella forza e quella speranza che dovrebbe e potrebbe… per la ragione che appare (ed è) eccessivamente relazionato, e subordinato, all’economia piuttosto che alla politica. Mi spiego: capisco bene che il lavoro serve alle persone per vivere; ma non solo: il lavoro serve a costruire la vita sociale, la cultura, l’ambiente, la libertà delle persone, le speranze di una comunità. È finalizzato al “possedere la terra” e a migliorarla, renderla abitabile, bella e degna degli uomini.
Oggi il lavoro è eccessivamente relazionato all’economia e alle sue necessità, al danaro, alle sue leggi e misure, ai suoi obbiettivi. Certo anche questo è necessario. Ma la vita sociale, la polis hanno anche altri riferimenti e valori, non meno importanti e decisivi anche se talvolta meno cogenti nell’immediato. Ecco perché mi sembra che un certo cambio di passo oggi e domani dovrebbe avvenire attraverso una considerazione del lavoro più aperta e caratterizzata dal riferimento a valori antropologici, sociali e politici (insomma, culturali) più ampli e comprensivi. È attraverso una diversa cultura del lavoro, più vasta, più vera e creativa, che potremo contribuire a costruire una società più giusta, accogliente, capace di futuro… e di amore.
Concludo (mi scuso della lunghezza e genericità, ma prego chi avesse letto queste righe di approfondire il tema qui accennato con ulteriori interventi adeguati): per contribuire a migliorare la vita e le prospettive della nostra società credo che possiamo e dobbiamo impegnarci sempre di più in un compito educativo e culturale creativo, costruendo per noi e proponendo ai giovani un progetto di città dell’uomo per cui valga la pena di vivere e lavorare e battersi (e per i credenti: per cui valga la pena di chiedere anche l’aiuto di Dio). In questo quadro credo che sia essenziale il compito pur modesto di realtà associative, culturali, formative… quali noi siamo; non riesco infatti a vedere nessun’altra strada più onesta ed efficace di questa per costruire, per noi e per gli altri, compresi i nostri figli ed amici vicini e lontani, un mondo migliore (e anzitutto non peggiore, come invece stiamo rischiando).
Angelo Bertani
P.S.: E infine, poiché parlare di “lavoro” significa anche parlare di cose concrete, mi permetto di aggiungere una considerazione che può apparire fuori luogo, ma non credo che lo sia: chi segue questo portale, lo legge, lo considera utile… non potrebbe fare il piccolo sforzo di contribuire (anche con una piccola somma, 10 o 20 euro) alle spese, che pure sono ridotte al minimo, ma sono inevitabili… Per i versamenti: C3dem – Banca Prossima – Codice Iban: IT86T0335901600100000067110.
16 Luglio 2014 at 15:11
Una prima reazione a caldo.
1. Oggi il lavoro, anzichè essere una dimensione che accomuna persone mature (che già lavorano da tempo) e giovani (che fanno il loro ingresso) è diventato uno spartiacque insieme economico e generazionale: da un lato i grandi, con un lavoro fisso o quasi, dall’altro i giovani, con un precariato che spesso si riduce a un quasi-capolarato.
I “vecchi” stanno cercando di ovviare a questo problema sostenendo, attraverso la famiglia, i giovani, nella speranza che prima o poi si sistemino. Compito nobilissimo ma che erode i risparmi e che si gioca in una dimensione privata: mentre invece questo “aiuto” intergenerazionale dovrebbe essere condiviso e non rivolto da singolo a singolo, mantenendolo ma senza prospettive, e concretizzato in progetti di occupazione per i giovani stessi (start up, cooperative, borse di studio e di ricerca, ecc.). Pensionati e dipendenti col posto fisso (io sono tra quelli) hanno il dovere di contribuire, nei limiti delle loro possibilità: ma occorre un meccanismo per poterlo fare (un fondo nazionale gestito da saggi super partes? una fondazione ad hoc? E la comunità ecclesiale non può far qualcosa…?).
2. Il lavoro oggi divide anche persone adulte, tra chi lo ha e chi lo ha perso o è in cassa integrazione. Anche qui, occorrerebbero meccanismi di solidarietà più marcati e un senso della condivisione maggiore.
3. Ha ragione Bertani quando indica il rischio della riduzione del lavoro al solo obiettivo del salario per vivere o (in alcuni casi) per stra-vivere. Dimensione imprescindibile, certo, quella dello stipendio, ma che non può diventare assoluta. Mi domando: abbiamo trasmesso/trasmettiamo il valore del lavoro ai nostri giovani (ecco il tema educativo sollevato da Angelo)? O abbiamo fatto passare l’idea del solo guadagno? Un bravissimo professore delle medie di un mio figlio, alcuni anni fa, ha detto a noi genitori: ma voi raccontate ai vostri figli quello che fate al lavoro? Sanno di cosa vi occupate? Raccontate i vostri successi ed insuccessi, le sfide e le difficoltà? Da allora, quando i figli mi chiedono “come va?” non mi limito a dire più “bene” o “così così”, “giornata pesante” o “è stata una buona giornata”, ma cerco di dire quello che ho fatto, cosa succede nel mio ufficio, i progetti che sto seguendo, e così via. Il valore del lavoro si trasmette non solo vivendolo (che è la prima cosa) ma anche raccontandolo. Ho presente ragazzi e ragazze delle scuole “rapiti” dai racconti di artigiani che spiegano loro “il mestiere”, così come da esperti di marketing che svelano loro i trucchi di un’espansione della produzione…
4. Assistiamo a un paradosso: da un lato il lavoro che manca; dall’altro persone che devono lavorare troppo. Giovani che appena assunti devono dedicare tutta la loro energia solo e soltanto al lavoro: come se in cambio di un agognato posto, il prezzo da pagare sia un impegno totale e totalizzante (e a proposito, come si fa in queste situazioni a programmare la nascita di un figlio…? Se non hai lavoro, non ci pensi nemmeno, se ce l’hai, rischi di non poter accudire tuo figlio!). Ho presente un amico dirigente di azienda che ha avuto come benefit una buona auto ma che, oltre a numerosi viaggi in Cina e in altri posti, deve usarla per recarsi in Germania una o due volte al mese, per qualche giorno. E la moglie e i due figli piccoli? La leggenda vuole che gli italiani lavorino poco: non credo proprio! Amici di una grossa azienda alimentare di Parma mi raccontano che, mentre loro si fermano fino alle 18,30-19 o anche più, se telefonano ai colleghi dell’azienda “consociata” nel nord Europa dopo le 17, non trovano nessuno… E d’accordo che là è buio presto e ci sono molti gradi sotto zero, però… Da noi in Italia, il sistema della “luce accesa” (far carriera non per meriti specifici ma rimanendo in ufficio un minuto in più del capo/a; cosa che il capo o la capa, ahimè, spesso apprezza, invece di guardare ad obiettivi raggiunti e capacità…) è ancora molto vivo ed è anche per questo che il telelavoro stenta a decollare…
Si diceva anni fa: lavorare meno, lavorare tutti… Beh, sarà uno slogan trito, ma ha un fondo di verità. E aggiungerei: lavorare meno, lavorare tutti e lavorare meglio. In Italia molto spesso la quantità di tempo dedicato al lavoro è ritenuta più importante della qualità, anche per un ritardo nella nostra cultura organizzativa, sia nel settore pubblico- in particolare – ma anche in quello privato (basti pensare al numero di riunioni più o meno inutili che si fanno, magari iniziate in ritardo, interrotte da telefonate e messaggi e non-concluse con un “ci aggiorniamo”…). Occorre quindi ridare valore al lavoro ma anche ricollocarlo nella giusta dimensione: il lavoro è per l’uomo/la donna, non viceversa. C’è la famiglia (sia per i maschi che per le femmine, non scordiamocelo!), gli amici, i propri anziani, e sperabilmente un impegno volontario e associativo, la spiritualità… e anche il tempo libero, che anch’esso, oltre ad essere un diritto, è un buon volano dell’economia (non penso certo ai centri commerciali, ma a tutto il sistema culturale che si può avvantaggiare di questo: città d’arte, turismo, mostre, musei, iniziative musicali, sagre, feste popolari…). Non solo; ma se fossi un datore di lavoro serio, sarei più contento di avere dipendenti che hanno una loro dimensione personale e chiedendo loro un po’ meno tempo di lavoro potrei a buon diritto esigere maggiore impegno e qualità dei risultati.
Scusate il tono molto concreto e poco… culturale, ma spero che si siano colti, al di là delle esemplificazioni, i nodi, davvero grossi, che vi sottendono.