Il Parlamento e la legge di bilancio: punto terminale della crisi della democrazia rappresentativa?

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L’approvazione della legge di bilancio, consumatasi nei giorni scorsi nella sua terza e definitiva lettura parlamentare rappresenta un passaggio politico la cui portata e gravità ha molteplici risvolti. Vi sono certamente quelli relativi ai contenuti del testo, all’impianto economico e culturale che il governo ha voluto seguire nella composizione dei diversi provvedimenti e i cui effetti saranno misurabili nei prossimi mesi, quando le disposizioni legislative produrranno i loro effetti sulla realtà del paese. Accanto a questo occorre poi valutare un elemento di carattere istituzionale e che riguarda le modalità con cui la legge è stata redatta, presentata al Parlamento, radicalmente riscritta e presentata direttamente nelle due Camere per un’approvazione con voto di fiducia che rappresenta un’oggettiva novità procedurale nel nostro ordinamento costituzionale.

All’interno della discussione fra le forze politiche, soprattutto nelle aule parlamentari, questa oggettiva forzatura del procedimento legislativo è stata oggetto di aspre contestazioni soprattutto da parte delle opposizioni ma la eco che ha prodotto al di fuori delle aule parlamentari appare assai debole. L’opinione pubblica appare comprensibilmente assai più attenta ai provvedimenti della manovra economica, correndo il rischio di sottovalutare un passaggio che de facto ridefinisce in modo profondo i rapporti fra le componenti del nostro ordinamento costituzionale, nello specifico fra Parlamento e Governo, modificando gli equilibri di poteri delle istituzioni repubblicane in direzione di un eccesso di centralità dell’Esecutivo.

Le ragioni di quanto accaduto sono certamente legate alla contingenza di un governo dei processi di costruzione della decisione politica all’interno delle istituzioni che evidenzia le fragilità, sul piano della cultura politica e istituzionale, da parte delle forze che compongono la maggioranza parlamentare e la compagine ministeriale. Tuttavia, la diffusa indifferenza da parte dell’opinione pubblica del paese per quello che appare come un vulnus ad una centralità dell’istituto parlamentare che è caratterizzante la nostra forma repubblicana suggerisce di analizzare e comprendere il caso specifico alla luce di un quadro più articolato, sia rispetto al significato che acquista nell’attuale passaggio storico del paese, sia nei riguardi di uno sviluppo della storica politico-istituzionale del paese che coinvolge gli ultimi tre decenni.

Molti osservatori e studiosi hanno messo in evidenza, da molteplici prospettive disciplinari, l’esistenza di un lento ma progressivo indebolimento dell’istituzione parlamentare nel quale trovano espressione alcuni degli elementi che qualificano le criticità del quadro politico e istituzionale italiano. La ricerca storiografica ha sottolineato, a partire dall’omonimo lavoro di Pietro Scoppola, come la nostra Repubblica sia nata, sul piano storico-politico, come un sistema strettamente collegato all’esistenza dei partiti e nello specifico di partiti di massa capaci di esercitare una funzione di rappresentanza che non aveva solo un ruolo di mediazione fra società e istituzioni. Quei partiti svolsero la funzione di inserire le diverse componenti del paese dentro una dinamica unitaria e sostanzialmente democratica di istituzioni sia politiche che sociali. Un ruolo, questo, che si è accompagnato a criticità evidenti sul piano della costruzione di relazioni fra classe dirigente e settori rilevanti della società e dell’economia, che nel tempo hanno finito per erodere quella stessa funzione inclusiva che i partiti erano chiamati a svolgere. Il Parlamento repubblicano è stato lo spazio istituzionale in cui tutto questo ha trovato una traduzione e delineato delle dinamiche che, se da un lato hanno evidenziato i limiti e le fragilità della Repubblica dei partiti, dall’altro ne hanno anche espresso la capacità di tenuta e unità del paese come comunità politica attraversata da una pluralità di attese.

La crisi del sistema politico, che inizia, con gli anni Ottanta e si traduce in una progressiva perdita di contatto fra classe politica e realtà sociale, economica e culturale, si risolve in una cesura, quella del 1992-1994, nella quale il venir meno del sistema dei partiti riverbera in modo evidente i propri effetti sullo stesso istituto parlamentare. Il referendum del 1993, in conseguenza del quale si introduce in Italia un sistema elettorale di carattere sostanzialmente maggioritario, nelle intenzioni dei promotori voleva restituire autorevolezza ad un quadro istituzionale compromesso, sul piano morale, dalla corruzione e oggetto di un vero e proprio attacco da parte della mafia. L’intenzione era quella di dare alla democrazia parlamentare italiana una forma di carattere “britannico”, che certamente rendeva più stabile ed efficace l’azione dell’Esecutivo ma al tempo stesso, mediante l’elezione uninominale di collegio di deputati e senatori, rafforzava una funzione rappresentativa del Parlamento che sembrava esser stata largamente compromessa dalla crisi politica.

A fronte di questo orientamento, quello che poi si è dipanato, sul piano politico e istituzionale, è stato un processo di modificazione nei rapporti fra le istituzioni e i poteri dello Stato nel quale hanno prevalso altre istanze. Da un lato si è declinato il sistema maggioritario come una sorta di elezione “diretta” del Presidente del Consiglio dei Ministri, attribuendo al voto un valore politico che, nei fatti, faceva venir meno la funzione di mediazione istituzionale propria del Parlamento. Dall’altro lato, la preoccupazione per lo sviluppo di una “democrazia decidente”, capace di affrontare con rapidità e forte incisività un’azione di riforma del paese e delle sue strutture, ha spinto ad un uso crescente degli strumenti della decretazione d’urgenza e della delega legislativa al Governo, portando al di fuori del Parlamento le maggiori riforme: dall’istruzione alla sanità, dalla Pubblica amministrazione al sistema previdenziale. Una tendenza, questa, accentuata da un ricorso crescente al voto di fiducia sia da parte dei governi di centro-destra presieduti da Silvio Berlusconi, che da quelli di centro-sinistra presieduti da Romano Prodi, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Questo ricorso alla fiducia, teso a limitare l’intervento del Parlamento sui testi dei disegni di legge di iniziativa governativa, si è sommato ad una iniziativa legislativa segnata da un netto prevalere di disegni di legge di iniziativa governativa rispetto a quelli di iniziativa parlamentare, anche in un terreno delicato e trasversale alle maggioranze parlamentari come quello delle riforme costituzionali.

Questa sovraesposizione del Governo, non solo sul terreno dell’azione esecutiva ma anche su quello della funzione legislativa, con la conseguente compressione del ruolo e delle funzioni del Parlamento ha rappresentato il riflesso una faglia culturale emersa nel corpo vivo del paese e giunta ad un punto di rottura negli ultimi anni, dopo un processo lungo due decenni. La crisi del Parlamento come crisi di rappresentanza ha conosciuto l’emergere di esperienze diversificate di politica “al di fuori dei partiti”, nelle quali si è cercato di dare forma ad un civismo che voleva marcare una netta distanza dalle liturgie e i compromessi di una forma partito che, dopo la crisi dei grandi partiti di massa, ha faticato ad elaborare un modello efficace e attuabile. L’esito di queste esperienze è stato l’emergere di prospettive eterogenee costruite a partire da contingenze specifiche, di un territorio o di una specifica componente economico-sociale, prive però di un orizzonte generale e dunque di una composizione ordinata ad un bene superiore e comune all’intera comunità nazionale. In parte questo genere di tensioni locali o parziali hanno convissuto all’interno delle forze politiche o delle coalizioni che hanno segnato la vita del paese fra il 1994 e il 2018, riflettendo sull’azione riformatrice e sulle scelte politiche i limiti insormontabili di interessi incomponibili e conflittuali nella loro specificità. In altri casi, soprattutto a partire dalla crisi del 2011, crisi non solo economica ma politica, hanno preso corpo al di fuori del sistema dei partiti, confluendo poi all’interno di un progetto politico come il Movimento 5 Stelle, tanto frammentato e privo di una lettura unitaria del paese quanto motivato da istanze di carattere morale esemplificate nel concetto di “onestà”.

La crisi del sistema politico e dell’istituto parlamentare si rivela allora come una delle espressioni di una più profonda fragilità culturale del paese: un abbassamento della capacità democratica delle relazioni economiche e sociali che rende il conflitto non occasione di confronto, di elaborazione e ricerca di una prospettiva superiore che ricomprenda l’interesse generale, ma un problema di strategia con la quale far prevalere interessi particolari fra loro opposti. Il metodo democratico, che attraverso la discussione pubblica mira a delineare sintesi possibili e stabili, viene così ridotto all’applicazione di un principio maggioritario che consegna alla maggioranza numerica il monopolio decisionale. Questo elemento, evidente nel modo in cui si sono sviluppate le dinamiche parlamentari, rappresenta tuttavia prima di tutto un fatto culturale, radicatosi nella crisi di quei corpi intermedi (associazioni, sindacati, categorie) che dovrebbero essere gli elementi di una diffusa pratica democratica nel governo dei processi sociali ed economici del paese. Questo suggerisce che la crisi di rappresentanza, alla quale è riconducibile l’attuale crisi del Parlamento, non investe solo i partiti, ma tutte le forme di organizzazione plurale del nostro quadro sociale. È qui che, in modo profondo, viene meno la finalità di ricercare e comporre una visione generale e si riducono i rapporti interni ad una semplice sommatoria di voti con la quale riversare il consenso in modo univoco e indistinto non su una compagine plurale ma su un’unica figura di riferimento che assume una funzione e un ruolo quasi cesaristici.

Questo combinato di profondità storica e caratteristiche della nostra attualità permettono di leggere l’episodio della forzatura dell’articolo 72 della Costituzione nell’approvazione dell’ultima legge di bilancio non solo come l’effetto di una gestione delle dinamiche istituzionali “approssimativa”. Si tratta del punto terminale di un processo più esteso e complesso, tradottosi ora in una dinamica legislativa che nei fatti nega la capacità rappresentativa del Parlamento e la trasferisce al Governo, la cui legittimazione a legiferare viene dall’essere espressione della maggioranza parlamentare e dunque, si argomenta, della maggioranza dei cittadini. Governare e legiferare sono così due funzioni che vengono affidate ad un’unica istituzione, in ragione di un principio di “rappresentanza” ridotto al possesso di un consenso maggioritario che legittima il prevalere di alcuni interessi, identificati come “nazionali” ma di fatto “particolari”, su altri interessi che un domani potrebbero, forse, diventare a loro volta maggioritari. È evidente il venir meno dell’idea che l’interesse generale sia tale non solo perché superiore agli interessi particolari ma perché superiore anche al formarsi e venir meno di un consenso diffuso come di maggioranze parlamentari.

Il punto centrale di questo tornante critico è, del resto, la stessa nozione di rappresentanza dalla quale occorre prendere le mosse per definire, nell’attuale contesto, quella che dovrebbe essere la funzione dell’istituto parlamentare. La rappresentatività di un’assemblea elettiva e finalizzata all’esercizio della potestà legislativa non risiede infatti soltanto nella capacità di tradurre in maggioranza parlamentare il consenso di una parte del sistema politico del paese, finalizzandolo alla sola composizione di interessi particolari mediante una qualche forma di compromesso. Una concezione della politica democratica e del compromesso, quest’ultima, che trova la propria traduzione nella riduzione di un accordo politico a “contratto” fra soggetti privati, individuali o collettivi che siano, che scelgono di aiutarsi a dar seguito a richieste e aspettative di parte e rinunciano alla ricerca di un interesse generale. Proprio il nostro tempo, con le sue lacerazioni e fratture, suggerisce invece l’esigenza di dare alla nozione di “rappresentanza” un senso ben più ampio e articolato, ossia quello legato alla capacità di restituire un’immagine unitaria e ordinata ad un fine comune di una pluralità di realtà sociali, economiche e culturali che riconoscono, nelle relazioni reciproche nate e maturate, anche nel conflitto, la condizione migliore per sviluppare le proprie capacità. La “rappresentanza” non rappresenta semplicemente l’espressione di una delega da parte del corpo elettorale ai componenti del Parlamento, quanto piuttosto una capacità di chi assume responsabilità pubbliche di comporre la pluralità delle componenti del paese dentro una dinamica decisionale unitaria nella quale i diversi interessi non sono declinati come in competizione ma piuttosto come punti di vista che aiutano ad elaborare una consapevolezza di quello che è, in una certa fase della vita del paese, quel bene collettivo nel quale trovano più compiuta attuazione i diritti e i doveri dei cittadini e delle realtà sociali.

Questa nozione inclusiva e dinamica della rappresentanza fa del Parlamento il luogo non tanto di una democrazia “decidente” in base al mero criterio delle maggioranze numeriche, ma di una democrazia “deliberante”, capace di elaborare norme che aspirano a rispondere ai diversi livelli di bisogni e attese che compongono la realtà del paese. Al tempo stesso, questa nozione di rappresentanza fa del Parlamento la più rilevante delle istituzioni rappresentative della comunità politica, dotata di una funzione ordinatrice, ma non la sola. Esso si estende a tutte le diverse realtà sociali e collettive, a quei corpi intermedi che su questa base possono ritrovare quella funzione essenziale di diffusione di una prassi democratica inclusiva, capace di ritessere i legami e le fila di un consenso affidato, prima che a singole forze politiche o a singoli uomini politici, alle istituzioni sociali, culturali, economiche e politiche che sono chiamate a guidare il paese.

 

Riccardo Saccenti

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