Sulla scissione di Renzi ho sempre creduto poco. Forse sbagliandomi. Ora però che Berlusconi ha annunciato e deciso senza predellini, di fondare un nuovo partito con una identità di “Centro Moderato” e aperto ai cattolici, “L’altra Italia”, la faccenda si fa seria. Anche perché sono pronti a scendere in campo una decina, a dir poco, di liste, movimenti, reti, partiti, partitini e sigle, che dichiarano anche loro un’identità di “Centro moderato”, “Centro cattolico”, “Centro Liberale”, ecc. Tanto che si parla anche di Federazione di centro destra.
Non capisco per niente cosa significhi oggi in politica essere moderati, e perché, ammesso che ancora esista questo elettorato, si dovrebbe riconoscere solo nel Centro politico. Capisco poco la ricerca affannosa, oggi di moda, d’identità: scatole statiche e senza storia, che offrono certezze, e che azzerano le differenze e le mediazioni fra le differenze. Quelle identità che hanno spinto Simon Weil a suggerire la soppressione del partito politico chiuso che asserviva le coscienze.
Capisco infine solo un pochino, pur avendo molti dubbi, l’esigenza di un Grande partito di centro politico che tuttavia viene banalmente giustificato dal sistema proporzionale e da quel 50 per cento di elettori che rimane a casa in pantofole. Se la nascita di un partito politico di centro, che vuole essere “grande”, viene spiegata e difesa da queste ragioni, allora vuol dire che la democrazia non vuole più pensare, e che Tocqueville, quando diceva che solo il “Grande Partito … rovescia la società, mentre i piccoli la agitano soltanto”, si sbagliava di grosso: sono i piccoli a rovesciarla!
Sul nome del nuovo partito di Berlusconi, mi ero però totalmente ingannato. Sono stato per un momento convinto, e rallegrato, che Berlusconi, per fare la concorrenza ai 5 Stelle, avesse rispolverato la Questione Meridionale dell’epoca giolittiana. E che con quel nome volesse piantare le radici del suo nuovo partito in quel Sud Italia sofferente e dimenticato. Svuotato di giovani o con le valigie in mano. Attento all’esodo e allo spopolamento di interi paesi, compensati appena una virgola da quel nobile uomo di Mimmo Lucano arrestato, che, esaltando l’accoglienza, ha proposto una cura alle ubriacature crescenti sulle identità. Mi sono sbagliato! Avverto che “L’altra Italia” è invece l’Italia di chi sta bene. Di chi non ha grossi e molti problemi. Dei “moderati” che ha in testa Berlusconi. E non solo lui. Ed è disinteressata completamente del giovane disoccupato calabrese. Guarda solo alle imprese del Nord. Come il suo sodale Salvini. E a quel poco che rimane della borghesia liberale e conservatrice settentrionale, oggi un poco spaventata. Che ritrova coraggio solo nel delocalizzare imprese e società, e nei licenziamenti. E guarda anche a chi dichiara di andare a Messa la domenica. Mi ero sbagliato.
Le identità
Facciamoci caso. Compaiono sempre più frequentemente bisogni di essere diversi. Non solo nell’offerta politica. Il Pd ha al suo interno diverse correnti che rendono difficile una proposta unitaria. Ogni corrente con la propria illusoria identità personale differenziata, per prendere in giro i pochi iscritti e i militanti. E Berlusconi per ovviare ad un analogo inconveniente, ha proposto di federare le supposte distinzioni della sua nuova “Italia”di Centro, con la certezza di sposare l’attuale Salvini con qualche percentuale in più. Emergono anche ricerche d’identità forti. Progetti di identità, proposte di identità, rimpianti di identità. Emerge insomma lo sforzo di capirsi e di esser uguali a qualcosa o qualcuno e di riconoscersi in qualcosa o qualcuno. Intendiamoci bene: non si tratta di domande banali. Tutt’altro. Nella confusione imperante, sono domande serie che evitano il disorientamento e l’isolamento, e ci avvicinano agli altri. Il fatto è che spesso queste desiderate identità, quando non sono capricci di leader sono ripescaggi e nostalgie d’identità e categorie del passato. Un passato a volte anche nobile e carico di valori. Ma forse poco utile a farci capire lo spirito dei tempi che viviamo. E soprattutto quello in cui vivranno i nostri figli e nipoti nel futuro dietro l’angolo già iniziato. Sarà colpa delle grandi paure create dalla globalizzazione incipiente e della confusione in cui siamo immersi. Sarà colpa della caos generato dai social virali senza auto-controllo. Sarà colpa del neo-populismo o del neo-nazionalismo. Ma dobbiamo mettere nel conto che oggi preferiamo rivolgerci al passato anziché riflettere sul futuro con quel pizzico di creatività di cui siamo capaci. Anche perché inconsciamente invochiamo ordine e quiete. E il passato in questo ci aiuta. Ci fa pensare meno. La ricerca sempre più ansiosa d’identità che ci diano certezze , comprese quelle politiche ed economiche, è dunque un tema che tiene ormai banco non solo in Italia. Si pensi alla grande sciocchezza della Brexit!
Ma è proprio su questa delicata questione che emergono degli interrogativi. Possibile che è sopraggiunta la voglia di cercare certezze e identità guardando solo indietro o rinchiudendoci nel passato? E siamo proprio sicuri che bloccando il fruttuoso sforzo di immaginare futuro, le identità del passato ci diano risposte adeguate? Da quello che notiamo, sembra possibile! Rimango però dell’avviso che il passato è utile solo quando se ne prenda una punta e lo si declini ogni giorno in un progetto di futuro. Come in Usa. E’ un vero paradosso, infatti, che gli Stati Uniti d’America immersi nel loro pragmatismo calvinista del giorno dopo giorno, ci diano lezioni di latino antico. Potrebbe infatti sorprendere ricordare che sullo stemma statunitense compaia da sempre la scritta latina: “E pluribus unum”: Dai molti uno . Una scritta che ha fatto nascere gli Stati Uniti. Un motto posto alle radici del loro sviluppo culturale, sociale e politico. Nonché economico e finanziario. Un detto che ha fatto grande l’America e che ha addolcito e resa ragionevole la nozione di quel pluralismo d’identità forti che sta riemergendo sotto veste di Sovranismo, Neonazionalismo, “First”, Muri, Fili spinati, Polizia di frontiera, ecc. Oggi giocato stupidamente sulle razze, sui diversi, sugli altri da noi, sulle differenze. E sull’autonomia: Autonomos, che poi letteralmente vuol dire, “… sull’esigenza di farsi la legge da soli”. C’è solo da dire che l’antico motto dello stemma Usa è stato costantemente adattato al movimento della loro storia. Perché mentre il rifiuto del passato è stupido, tentare di riproporlo è sciocco. E c’è solo da aggiungere che le tante identità, non significano per forza pluralismo. Anzi spesso sono il suo contrario e approdano nell’atomismo insignificante e alle individualità che si guardano il proprio ombelico. Infine è anche giusto ricordare che la locuzione latina Usa, la troviamo come motto del sogno dell’unità politica europea, proposto nel 2000 dagli studenti di tutta Europa: “Unità nella Diversità”. Un sogno che esalta le differenze e ridimensiona le identità, e che dobbiamo costantemente alimentare, senza perdere la speranza di realizzarlo.
Il narcisismo dell’identità
Se l’identità, di una persona, di un gruppo sociale, di una cultura, di un partito politico o di una associazione è il rapporto dinamico che la persona, il gruppo sociale, la cultura, il partito, ecc. ha con se stesso e che lo distingue da altri, allora gli sforzi, spesso banali, di individuare identità statiche del passato, sono sforzi altrettanto spesso inutili. In alcuni casi addirittura pericolosi. Se si fosse puntato su queste identità statiche l’Italia non sarebbe mai nata. E se si continua a puntare sulle identità e non sulle diversità, sarà purtroppo l’Europa a non nascere. Le diseguaglianze dei gruppi sociali, la perdita di una precisa nozione di classe sociale, classe operaia, ceto, il discensore della classe media e bassa, la ricchezza e la povertà, riportano l’idea astratta di identità con i piedi per terra. Ci fanno vivere sino in fondo la crisi di identità personali, sociali e politiche. E ci fanno capire che l’identità non è data una volta per tutte come ci ha ricordato Paolo di Tarso, perché avendo come unico riferimento la carità, “(…) quand’ ero bambino , parlavo da bambino e ragionavo da bambino. Ma diventato uomo , ciò che era da bambino l’ho abbandonato “. Se io dovessi pensare che la mia identità si è mantenuta costante nel tempo, allora vuol dire che la mia idea d’identità, è una idea sbagliata. Tutto ciò non significa affatto mettersi nelle braccia del relativismo: se sono un individuo unico e irripetibile, sono anche una persona in relazione, inserita in un contesto culturale, sociale e politico che è in movimento. Ma significa, a mio avviso, essere coscienti dei processi storici e della loro influenza sulla formazione delle identità culturali, sociali e politiche. Ci potrà solo essere un accordo su un obiettivo da raggiungere assieme ad altri, che non è identità: è un’intesa momentanea. E non è neanche un contratto o una alleanza. Come fanno capire ogni giorno i Giallo-Verdi. Insomma, ripeto, o l’identità è una categoria dinamica che si misura ogni giorno con la storia e con i cambiamenti della storia, oppure non è. Il ricorso alle mediazioni fra diversi, serve proprio a questo: a tener conto delle differenze utili e non delle somiglianze inutili. Non credo dunque molto alle identità date per scontate e chiuse in una teca. Credo di più invece alle identità dinamiche. Che si confrontano con la storia e che vivono nella storia. Se questo sembra l’elogio del relativismo, allora il relativismo è congenito alla storia dell’uomo. Ma se abbiamo bisogno di punti fermi di riferimento per non essere come isolate “canne al vento”, non è guardando soltanto al passato che li possiamo trovare. Ma semmai interrogando la nostra ragione e “… pensando”, come ci ricorda Blaise Pascal.
Nino Labate