di don Enrico Ghezzi
Forse i nostri quattro lettori sono gli “innamorati” del Papa che ha sviluppato e diretto con sapienza, dopo il carisma di dolcezza e bontà di Papa Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II; ma essi saranno d’accordo con me che, con il Concilio sotterrato nell’oblio, è stato trascinato con sé, nell’oblio, anche Giovanni Battista Montini, l’uomo, il sacerdote e il papa Paolo VI, che è stato l’anima e il conduttore fermo e saggio di quell’evento destinato a segnare la Chiesa.
Trovo infatti difficile parlare di Papa Montini senza pensare alla sua formazione umana e spirituale, che in quegli anni, dopo la seconda guerra mondiale,si era diffusa nell’Europa. Ricordo soltanto J. Maritain, il p. de Lubac, Guardini, Mazzolari, Rahner, lo stesso Ratzinger, Thomas Merton, i Padri della Chiesa che si andavano riscoprendo, la riforma liturgica maturata fin dall’inizio del secolo XX con lo studio e la ripresa monastica della tradizione benedettina, per non parlare poi del fervore che avevano preso gli studi di esegesi biblica, influenzati dai grandi esegeti della Riforma e che stavano trasformando tutta la teologia tradizionale legata al tomismo.
Non si potrebbe immaginare il Concilio senza quel fervore spirituale e intellettuale, e spesso anche scientifico, che si diffondeva nel mondo. Come sempre, per i grandi eventi dell’umanità, la cultura precede la storia. Non ultimo, in quegli anni, il travaglio politico che spesso partiva proprio dalle università cattoliche.
Nello sfondo di questi fermenti, in quegli anni, c’era anche una nuova sensibilità spirituale per indicare la sequela evangelica, come fu quella di Charles de Foucauld dei Piccoli fratelli di Gesù, di S. Teresina del Bambino Gesù, unita a un forte fermento missionario verso l’Africa e l’Asia.
Il Concilio voluto da papa Giovanni XXIII è stato sviluppato e concluso sotto la guida sapiente, ferma e coraggiosa di papa Paolo VI. Voglio qui osservare che l’immagine di papa triste, mesto o ansioso, attribuita a papa Montini anche da qualche ambiente storico cattolico, a me sembra semplicemente falsa. Come poteva un uomo ansioso o triste condurre il Concilio più grande della storia della Chiesa, chiamato coi suoi documenti a cambiare il volto e anche l’anima della Chiesa stessa?
Molti non si sono accorti che questa insistenza su un’immagine montiniana triste o sempre in ansia può essere stata una scelta strategica di certi ambienti, per affossare, negli anni successivi, la stessa grande opera del Concilio. Fin dagli anni in cui fu vescovo di Milano, Montini aveva, sì, una sorta di ‘ansia’, ma non l’ansietà nevrotica di chi si sente schiacciato dalla sua missione, bensì un’ansia che era il movimento interiore dell’anima e del cuore, frutto dello Spirito che lo conduceva a dare al mondo e agli uomini la certezza che Gesù “il Salvatore del mondo” (Gv 3,17; 2Cor 5,19): così si spiega la ‘grande missione di Milano’ del ’57-58, la sua prima enciclica ‘Ecclesiam suam’, con quello sguardo universale del mondo convergente verso la centralità di Cristo, a partire proprio da quelle periferie delle nostre città, come oggi ci ricorda papa Francesco.
Papa Montini ha saputo, sotto la grazia dello Spirito santo, far vivere in sé la natura mistica del quarto vangelo di Giovanni e il fuoco missionario di Paolo.
Verso la fine dei suoi anni, nel 1975, anni politicamente torbidi soprattutto in Italia, questo Papa dona alla Chiesa la bellezza di due grandi documenti sulla gioia e sul gaudio che devono essere il distintivo della Chiesa missionaria e del cristiano: l’esortazione “Gaudete in Domino”, del 9 maggio 1975 (anno santo), e la perla dell’altra esortazione “Evangelii nuntiandi” (8 dicembre 1975).
Ora, però, il ‘ritorno’ di Paolo VI è dato due fatti recenti.
Primo. Papa Francesco ha stabilito per il 19 ottobre prossimo, la data di Beatificazione di papa Montini. Un riconoscimento tardivo, perché nessuno ha mai potuto dubitare della ‘santità’ di questo papa: umile, forte, servitore appassionato della Chiesa e del mondo, con una rara intelligenza illuminata dalla grazia dello Spirito nell’intero percorso della sua esistenza.
Secondo. Il discorso di papa Francesco nel pomeriggio di lunedì 19 maggio, tenuto ai vescovi italiani riuniti in Assemblea per trovare nuove regole nella elezione del loro presidente. Il papa ricordava ai nostri vescovi la necessità di dare testimonianza nella chiesa italiana di ‘comunione’, la necessità di vincere le ‘tentazioni’ che spesso li accompagnano, e di farsi accanto ai poveri, uscendo dall’ombra accomodante del loro campanile; fuori ci sono i poveri, i disoccupati, i cassaintegrati, i rifugiati ecc.
Nessuno può dubitare della ‘parresia’ di papa Francesco.
Ebbene, in quel discorso, il papa Francesco si è rifatto al discorso tenuto da Paolo VI 50 anni fa, nel 1964, alla prima assemblea dei vescovi italiani (la Cei appena costituita), riuniti prima della nuova sessione del Concilio Vaticano II che andava riprendendo, dopo la morte di papa Giovanni.
Ho riletto l’intero intervento di papa Montini, pubblicato dall’Osservatore romano il 19 maggio 2014. Lì il papa chiedeva alla chiesa italiana di contribuire, all’interno del grande corpo conciliare, con una testimonianza di ‘comunione’ come segno fondamentale del vangelo, e inoltre, pregava quei vescovi di offrire una intensa collaborazione alla riflessione e alla stesura dei documenti conciliari.
Quelli erano tempi di grandi vescovi e cardinali del nostro paese!
Ora, non solo papa Francesco ha citato il discorso montiniano tutto imperniato sul significato carismatico dell’evento conciliare che si stava vivendo come dono immenso per la Chiesa, ma ha voluto dare a tutti i vescovi la copia del discorso montiniano.
Papa Francesco, che io trovo particolarmente affine alla sensibilità intellettuale di Montini, è come lui impegnato a riscoprire il volto ‘missionario’ della chiesa nel dialogo con il mondo, con la scienza, con le diverse fedi religiose, ripartendo, anche per i gravi nuovi problemi, dal vangelo. Proprio come il Concilio aveva ridisegnato la Chiesa di Cristo.
Don Enrico Ghezzi