Il ritorno della guerra in Europa: De Gasperi settant’anni dopo

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Con l’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo  il testo integrale della “lectio degasperiana” da lui tenuta oggi, 18 agosto 2022, a Pieve Tesino, per iniziativa della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi presieduta da Giuseppe Tognon. “La guerra russa all’Ucraina ha sollevato il tappeto sotto il quale era stata nascosta la questione della sicurezza dal 1954, il cui esito è stato una Europa integrata sul piano economico ma non su quello politico e militare. Un esito che De Gasperi e Spinelli cercarono tenacemente di scongiurare…”

 

Premessa

Vorrei innanzitutto ringraziare la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi (nelle persone del suo presidente, prof. Giuseppe Tognon, e del suo direttore, dott. Marco Odorizzi) per l’invito che mi è stato rivolto a tenere la Lectio degasperiana 2022. È un grande onore per me, oltre che un piacere per via dei legami familiari, sentimentali e intellettuali che mi legano al Trentino.

L’argomento che mi è stato chiesto di discutere è il ritorno della guerra in Europa. L’aggressione russa dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio scorso, rappresenta un evento drammatico, di proporzioni storiche. Sebbene l’Unione europea (Ue) abbia reagito compatta all’aggressione russa, è tuttavia indubbio che essa si sia trovata impreparata ad affrontare il problema della guerra. Un problema, invece, che i leader europei (a cominciare da Alcide De Gasperi) si erano posti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, elaborando e quindi sottoscrivendo (il 27 maggio 1952) il progetto più avanzato di integrazione militare e politica, la Comunità europea della difesa (CED). Tenendo presente quell’esperienza, analizzerò le implicazioni dell’aggressione russa per l’Europa integrata. Procederò come segue. Primo, discuterò le ragioni che hanno reso l’Europa impreparata ad affrontare l’invasione russa dell’Ucraina. Secondo, discuterò il Trattato della CED, così come era stato pensato da Alcide De Gasperi nel dialogo con Altiero Spinelli, progetto finalizzato a difendere l’Europa da minacce esterne ed interne. Terzo, discuterò le conseguenze del fallimento della CED (1954) sullo sviluppo successivo dell’Europa integrata. Concluderò derivando da questa analisi, sulla base dell’azione di De Gasperi e del pensiero di Spinelli, una agenda per il futuro della sicurezza europea.

 

24 febbraio 2022

L’Ue ha risposto con immediatezza e compattezza all’aggressione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022, decidendo di inviare armi letali al governo ucraino per potersi difendere e concordando con gli alleati atlantici diversi pacchetti di sanzioni economiche nei confronti del governo russo. Tuttavia, è indubbio che l’Ue si sia trovata impreparata, sul piano istituzionale e culturale, ad affrontare la guerra in casa propria. Durante la Guerra Fredda (1950-1991) aveva affidato alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) il compito di garantire la sicurezza dei Paesi europei; dopo la Guerra Fredda ha finito per ritenere che la sicurezza non fosse più in pericolo nel continente europeo. Per l’Ue, con il crollo del muro di Berlino (1989) e l’implosione dell’Unione Sovietica (1991), la “storia era finita”. L’epoca della violenza tra stati avrebbe lasciato il posto alla cooperazione economica e culturale tra di essi.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, le leadership europee (sotto la pressione di quelle tedesche) hanno finito per pensare che la lotta per il potere tra gli stati sarebbe scomparsa dalla politica internazionale, in quanto le relazioni interstatali si sarebbero svolte all’interno di regimi internazionali istituzionalizzati, le cui norme e aspettative avrebbero mitigato le loro pulsioni aggressive. E così è avvenuto. L’interdipendenza economica e culturale è stata causa ed effetto della formazione di un sistema di istituzioni internazionali incaricate di risolvere le dispute e i conflitti tra stati e attori privati attraverso il multilateralismo o ricorrendo alla mediazione di magistrature internazionali. Si è infatti formato un ordine legale globale capace di influenzare le scelte degli stati così come degli altri attori internazionali (corporations multinazionali, lobbies internazionali, organizzazioni non-governative). L’Ue è stata la protagonista di tale normazione della globalizzazione, divenendo una vera e propria potenza normativa, un attore internazionale specializzato nell’esportazione di regole e nella promozione di commerci.

L’Ue si è talmente identificata con questo suo ruolo che ha finito per pensare che, come se fossimo in un mondo post[1]moderno, la guerra era stata ormai delegittimata in quanto strumento per la soluzione delle contese. Certamente, attraverso la diffusione di intensi scambi commerciali, finanziari, industriali, culturali, il sistema internazionale si è globalizzato, consentendo a milioni di persone dei Paesi non industriali di uscire dalla miseria. Anche se non erano mancati conflitti (si pensi a quelli generati dal fallimento della ex Jugoslavia) che avevano messo in discussione l’interdipendenza economica, è stata soprattutto la decisione di Putin del 24 febbraio scorso a mostrare l’altra faccia di quest’ultima. Sebbene, negli ultimi trent’anni, l’economia russa si sia venuta ad intrecciare con le economie dei Paesi europei, in particolare della Germania; sebbene il Pil russo sia divenuto dipendente dalle esportazioni di gas e materie prime nei Paesi dell’Europa integrata (tra cui il nostro); sebbene la nuova classe media russa sia stata attratta dai consumi occidentali; sebbene i ricchi russi abbiano trovato estese e convenienti occasioni di investimento finanziario, immobiliare e industriale in Paesi come il Regno Unito; sebbene le sanzioni successive al 2014 (in risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia) abbiano accresciuto la dipendenza energetica di Paesi come l’Italia e la Germania al gas russo; sebbene tutto ciò, Putin non ha avuto scrupoli a mandare all’aria l’interdipendenza economica, invadendo militarmente l’Ucraina.

Dunque, i commerci contano, ma non abbastanza per fermare la guerra. Quest’ultima, infatti, deriva quasi sempre da logiche interne, logiche che nei regimi autoritari (come la Russia di Putin) non incontrano ostacoli. Quei regimi, per dirla con Michail Sergeevič Gorbačëv, sono “automobili senza il freno a mano”. Nel nostro caso, l’aggressione russa dell’Ucraina è il risultato delle scelte di attori domestici (Vladimir Putin e la sua cerchia di potere) per promuovere una precisa visione del ruolo internazionale della Russia, sostenuta da una precisa ideologia politica (la Russia è una nazione-impero con una missione storica da perseguire). Nel discorso del 21 febbraio 2022, Putin affermò di volere rimediare agli errori di Lenin, il principale dei quali era stato quello di legittimare il principio di autodeterminazione nazionale. Tale principio, per Putin, aveva infatti condotto alla formazione di una pluralità di repubbliche (quindi aggregate nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) che, con la fine della Guerra Fredda, poterono rivendicare la loro sovranità nazionale. L’aggressione all’Ucraina del 2022 è dunque una tappa del percorso di ricostruzione di una Grande Russia di impronta zarista. Un percorso iniziato nel 2008 con l’invasione della Georgia, andato avanti nel 2014 con l’annessione della Crimea, rafforzato con l’annessione di fatto della Bielorussia di Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnka e giunto quindi all’aggressione dell’Ucraina nel 2022. La Russia di Putin rappresenta una minaccia permanente per l’Europa integrata. Putin ha ricordato all’Ue che la storia non è finita, che la guerra non è scomparsa.

 

27 maggio 1952

La Comunità europea della difesa (CED)

Che la guerra costituisse una minaccia permanente in Europa, ciò era invece molto chiaro ad Alcide De Gasperi e ai leader europei (come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Paul-Henri Spaak) che si trovarono al governo delle nuove democrazie europee postbelliche. Per De Gasperi, la minaccia della guerra proveniva sia dall’esterno (dall’Unione Sovietica) che dall’interno (dalla rivalità tra gli stati nazionali dell’Europa occidentale). La minaccia esterna divenne subito chiara con l’invasione militare della Corea del Sud, il 25 giugno 1950, da parte della Corea del Nord (sostenuta dalla Russia sovietica oltre che dalla Cina comunista). Quell’invasione ruppe definitivamente la fragile alleanza tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale, diffondendo la consapevolezza che un dramma simile si sarebbe potuto verificare anche nell’Europa continentale. Dopo tutto, il ferreo controllo sovietico dei Paesi dell’Europa dell’Est, seguito alla Conferenza di Postdam dell’estate 1945, confermava la minaccia rappresentata dal regime staliniano, minaccia che aveva spinto il governo De Gasperi ad essere tra i co-firmatari del Patto atlantico che dette vita alla NATO nel 1949. Tale minaccia esterna imponeva con urgenza il problema del riarmo della Germania dell’Ovest, senza la quale sarebbe stato difficile garantire la sicurezza europea. A sua volta, il riarmo della Germania dell’Ovest sollevava il problema della minaccia interna alla pace europea, una minaccia alimentata dai nazionalismi sopravvissuti ai drammi delle due guerre mondiali e dell’Olocausto. Dirà De Gasperi (Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951), “Il bisogno di sicurezza ha creato il Patto Atlantico, cioè un’organizzazione che tende a ristabilire l’equilibrio delle forze. E’ questa la prima linea di difesa contro il pericolo esterno (…) Ma la condizione essenziale per una resistenza esterna efficace è in Europa la difesa interna contro una funesta eredità di guerre civili – tali bisogna considerare le guerre europee dal punto di vista della storia universale”.

Contrariamente agli statisti che, dopo la Prima guerra mondiale, cercarono di costruire un nuovo ordine europeo basato sulla cooperazione tra stati (seppure nell’ambito della nuova Società delle Nazioni, istituita il 10 gennaio 1920), i leader dell’Europa democratica emersa dopo la Seconda guerra mondiale sapevano che la buona volontà dei governi nazionali non basta se non viene istituzionalizzata all’interno di un sistema sovranazionale. Questa consapevolezza è all’origine della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, considerata l’atto di nascita dell’Europa integrata. Da quella Dichiarazione emergono due progetti sovranazionali distinti (ma collegati). Il progetto della Comunità del Carbone e dell’Acciaio o CECA (con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951) e il progetto della Comunità europea della difesa o CED (con il Trattato di Parigi del 27 maggio 1952). A sua volta, quest’ultima derivò dal Piano per una difesa europea presentato dal presidente del Consiglio francese René Pleven all’Assemblea nazionale francese il 24 ottobre 1950, divenuto quindi la base della Conferenza diplomatica per la CED, convocata dal governo francese il 26 febbraio 1951, che elaborò un Rapporto inviato il 27 luglio 1951 ai sei governi che avevano aderito alla CECA (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo).

Per De Gasperi, le nuove istituzioni (della CED in specifico) non dovevano essere percepite come accorgimenti meramente tecnocratici. “Se noi costruiamo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, noi rischieremo che questa attività europea appaia al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale” (De Gasperi, Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951). Ecco perché, per De Gasperi, la costruzione della CED doveva essere accompagnata dall’idea di una patria europea, inclusiva delle patrie nazionali ma nello stesso tempo più grande della loro somma. “Se noi chiamiamo le forze armate dei diversi Paesi a fondersi insieme in un organismo permanente e costituzionale e, se occorre, a difendere una Patria più vasta, bisogna che questa Patria sia visibile, solida e viva; anche se non tutta la costruzione è perfetta occorre che sin da ora se ne vedano le mura maestre e che una volontà politica comune sia sempre vigilante perché riassuma gli ideali più puri delle nazioni associate e li faccia brillare alla luce di un focolare comune” (De Gasperi, Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951). La CED, più che la CECA, è al centro della strategia europeista di De Gasperi. “Questo è il problema principale: impedire, attraverso la costituzione di una federazione o confederazione europea, che si determinino nuovamente, ad esempio, motivi di attrito e di revanche tra la Francia e la Germania, sarebbe già un grande risultato. Ma il nostro trattato si propone una méta più alta; esso sarà un trattato di pace perché poggia su uno strumento di pace, perché è garantito dal fatto che i Paesi membri hanno un esercito in comune”. Per De Gasperi, la costruzione della CED costituisce la missione principale della sua generazione politica. Così continua, “Non si tratta soltanto di impedire la guerra fra noi, ma anche di formare una comunità di difesa che abbia a suo programma non di attaccare, non di conquistare, ma solo di scoraggiare qualsiasi attacco dall’esterno in odio a questa formazione dell’Europa unita” (De Gasperi, Conferenza dei 6 ministri degli esteri, Parigi, 31 dicembre 1951). Un’Europa unita che, come abbiamo visto, continua ad essere odiata anche oggi dai tiranni e dai loro amici di casa nostra.

 

De Gasperi e Spinelli

Nel promuovere il progetto della CED, De Gasperi dovette affrontare diversi e numerosi nemici, innanzitutto fuori dal governo, nell’opposizione comunista-socialista per la quale la difesa europea era uno strumento al servizio degli americani e la federazione europea una manifestazione del nostro servilismo verso questi ultimi. Si chiederà De Gasperi, nel dibattito con gli esponenti di quella opposizione: allora “anche Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo erano filo-americani perché volevano la federazione europea?” L’opposizione comunista-socialista alla difesa europea era in realtà finalizzata a mantenere l’Europa occidentale in una condizione di debolezza; così come l’accusa del suo carattere militarista in nome di ideali pacifisti era strumentale a garantire rapporti di forza favorevoli alla Russia sovietica. Come si vede, niente di nuovo sotto il sole, se si considerano le critiche ricevute dal governo Draghi per aver aiutato militarmente l’Ucraina. Ma De Gasperi dovette fronteggiare anche un’opposizione interna al suo partito, la Democrazia Cristiana, in particolare da parte della sinistra dossettiana ispirata da una visione pessimistica della democrazia. Intellettualmente, De Gasperi e Dossetti erano assai diversi. Se De Gasperi era stato un lettore di Le democrazie moderne di James Bryce (1921), Giuseppe Dossetti preferiva l’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga (1919), l’uno era interessato a capire come le democrazie concretamente funzionano, l’altro a come le epoche storiche (con i loro assetti economici e politici) si concludono. In un’epoca di scarsa conoscenza delle democrazie liberali, mentre Dossetti proponeva una lettura terzomondista dell’America, De Gasperi fa invece costante riferimento alla democrazia americana come ad un modello. Nel suo discorso a Bruxelles del 20 novembre 1948, noto come “Le basi morali della democrazia”, la indica come un esempio per “limitare il potere” attraverso “le sue molteplici istituzioni di controllo e la complicata macchina politica”. Anche se poi aggiunge che “nessuna precauzione di ordine costituzionale potrebbe impedire l’avvento della tirannia se una attiva coscienza democratica non è operante nel popolo”.

Sulla CED, invece, De Gasperi ebbe l’aiuto fattivo di Altiero Spinelli, autore insieme a Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene del 1941 (di forte impronta socialista) ed esponente del federalismo italiano di sinistra, oltre che il sostegno dell’azionismo italiano rappresentata da Ferruccio Parri. Quest’ultimo scriverà nel 1952: “O accettiamo, con il coraggio e la decisione necessari, l’idea di una comunità europea sopranazionale, organica e funzionale, ed accettiamo quindi di realizzarne le conseguenze logiche, la prima delle quali è l’unità della politica estera e l’unitarietà dello sforzo difensivo, oppure questa politica è solo una lustra, provvisoria e reticente mascheratura di contrasti di fondo e di diversi fini (…)”. Sarà soprattutto nel Promemoria sul Rapporto del 27 luglio 1951, che Spinelli scriverà per De Gasperi nel settembre successivo, che l’idea dell’Europa federale troverà una sua più articolata definizione. In quel Promemoria, Spinelli osserva criticamente: “Gli autori del Rapporto pensano che sia possibile creare un esercito unico europeo senza creare uno Stato europeo (…) Si pone di conseguenza immediatamente il problema: a chi appartiene l’esercito europeo?”. Seguendo il modello della CECA, il Rapporto affidava infatti ad un Commissario/Commissariato della difesa un compito esecutivo, corrispondente a quello di un Ministero della difesa, senza rendersi conto che quest’ultimo “non è che un pezzo dello Stato, e che per poter funzionare deve essere connesso strettamente con tutti gli altri pezzi”. Annota Spinelli, “la Conferenza propone di creare un organo esecutivo privo di sovranità ed obbligato a ricevere ordine dal di fuori. Ma una Comunità non può fare a meno di un organo sovrano”. Per Spinelli, una Comunità della difesa “trasforma completamente tutto il sistema della sovranità”, un problema che non può essere risolto dal Consiglio dei ministri della Comunità (cioè dalla Conferenza di stati sovrani). Invece, in una Comunità federale “è naturale che accanto all’Assemblea popolare vi sia un’Assemblea o un Consiglio di Stati (…) Ma il Consiglio di Stati è una camera del Parlamento, e non già una Conferenza diplomatica, come è previsto nel Rapporto”. Per poi concludere, “ogni volta che si è voluto raggiungere l’unità di azione di Stati, senza menomare le loro sovranità, il regolare risultato è stato sempre la paralisi della Comunità che si voleva fondare”. Spinelli quindi conclude, “se si tocca la sovranità nazionale nel campo militare, occorre toccare la sovranità nazionale anche nel campo fiscale”. Dunque, la Comunità della difesa richiede la contestuale creazione di istituzioni democratiche (legislative, esecutive e giudiziarie) per gestire la sovranità ad essa trasferita. La Conferenza “dovrebbe redigere né più né meno che un testo di costituzione federale europea”.

Questo fu proprio l’obiettivo che De Gasperi si propose di perseguire nelle complesse negoziazioni con gli altri governi (in particolare con quello francese), consapevole anche delle resistenze interne agli apparati del suo stesso governo (in particolare tra i diplomatici e i militari). Dopo tutto, come disse all’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, il 10 dicembre 1951, “questa è l’occasione che passa e non tornerà più. Bisogna afferrarla ed inserirla nella logica della storia”. L’esito di quell’azione fu il Trattato per la Comunità europea della difesa, costituito di 132 articoli e 12 protocolli, firmato a Parigi il 27 maggio 1952. Un Trattato che iniziava (Art. 1) collocando la CED all’interno del Patto Atlantico e precisando subito che essa ha “un carattere sovranazionale, consistendo di istituzioni comuni, di Forze armate comuni e di un budget comune”. Soprattutto il Trattato prevedeva (Art. 38) la creazione di “un’Assemblea della Comunità di difesa europea eletta su basi democratiche (che avrebbe dovuto) tenere in mente che l’organizzazione definitiva che prenderà il posto dell’attuale transitoria organizzazione dovrà essere concepita come uno degli elementi di una futura struttura federale o confederale, basata sul principio della separazione dei poteri, così da includere, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale”. Questo Articolo, di importanza storica, celebra il successo della collaborazione tra De Gasperi e Spinelli.

Le resistenze al Trattato si fecero però sentire. Al punto che, di fronte ai ritardi nell’avviare i lavori della Assemblea della CED, De Gasperi propose che fosse l’Assemblea della CECA, di già funzionante, a definire il progetto federale cui ricondurre entrambe le organizzazioni. Ma la finestra dell’opportunità si stava chiudendo, soprattutto in Francia, dove le conseguenze della de-colonizzazione avevano polarizzato il sistema dei partiti, ma anche in Italia, dove l’approvazione parlamentare del Trattato fu tenuta in sospeso per negoziare concessioni territoriali sulla frontiera orientale. Nonostante le formidabili pressioni americane affinché si arrivasse quanto prima ad una autonoma capacità di difesa europea, la logica della politica interna ai singoli Paesi conducevano in direzione opposta. Il 30 agosto 1954, l’Assemblea nazionale francese, con un escamotage tecnico, decise di non-votare il Trattato costitutivo della CED, sotto la spinta dell’opposizione sia della sinistra comunista che della destra gaullista. Un esito che De Gasperi aveva fortemente temuto nei suoi ultimi giorni di vita. Scrisse Spinelli nell’ottobre 1954: “De Gasperi può essere morto di crepacuore alla prospettiva dell’imminente fine del tentativo di unificazione europea”, quindi aggiungendo: “L’epoca dei governi europeisti è finita il 30 agosto”.

 

Dopo il 30 agosto 1954

Prima l’economia

Nonostante la delusione comprensibile di Spinelli, in quel 30 agosto 1954 si concluse il ciclo federalista dell’integrazione, non già quest’ultima in quanto tale. La sicurezza europea fu appaltata all’America rafforzando la guida militare e politica di quest’ultima all’interno della NATO (la NATO doveva servire a “to keep the Russians out, the Germans down and the Americans in”; gli “americani dentro” perché essi non volevano rimanere in Europa, come sostenuto più volte dai presidenti Truman e Eisenhower). Il modello che aveva in mente De Gasperi (cioè una NATO basata su tre pilastri: americano, britannico ed europeo) fu sostituito da una NATO basata quasi esclusivamente sulle tecnologie, i finanziamenti e le capacità militari americane. Non tutti a Washington D.C. furono felici di questa soluzione, ma non ve ne era un’altra disponibile. Il 9 maggio 1955, quattro giorni dopo la fine dell’occupazione militare da parte delle Forze Alleate, la Germania occidentale venne accolta all’interno della NATO, avviando una graduale politica di riarmo sotto la supervisione americana. De-responsabilizzati sul piano della propria sicurezza militare, gli europei finirono per abbandonare la prospettiva federale. Non oberati dalle spese militari (trasferite ai contribuenti americani), gli stati dell’Europa occidentale poterono utilizzare le risorse nazionali per rafforzare le basi economiche del loro sviluppo, già ricostruite attraverso gli aiuti (sempre americani) ricevuti tra il 1948-1952 nel contesto dello European Recovery Program (più noto come Piano Marshal). Da allora, l’Europa occidentale è stata la beneficiaria di un gigantesco ‘azzardo morale’, in virtù del quale si è garantita protezione senza pagarla. In cambio, gli americani poterono condizionare la nostra politica interna.

I Trattati di Roma del 1957 celebrarono la nuova divisione del lavoro. Gli americani pensavano alla sicurezza comune, noi ad un mercato comune, divenuto quindi unico nel 1987. Seppure nati da accordi intergovernativi, i Trattati in questione celebrarono la visione funzionalista dell’integrazione europea, sostenuta da Jean Monnet in alternativa alla visione federalista di Altiero Spinelli. Si decise di partire dal basso (dalla soluzione di specifici problemi comuni nel contesto del funzionamento del mercato), non più dall’alto (dalla creazione di comuni istituzioni nel contesto di un accordo costituzionale). Per fare ciò, venne definito un sistema istituzionale triangolare in cui la Commissione europea detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa, il Consiglio dei ministri nazionali e quindi il Parlamento europeo (eletto direttamente a partire dal 1979) approvano o rifiutano le sue proposte (direttive o regolamenti), sotto la vigilanza della Corte di giustizia europea (CGE). Si trattava di un sistema sovranazionale, in quanto un ruolo cruciale veniva esercitato da istituzioni (la Commissione europea, la CGE e quindi il Parlamento europeo) non dipendenti dai governi nazionali. Il mercato unico è stato un grande successo, consentendo ai Paesi dell’Europa occidentale di crescere impetuosamente (nel caso dell’Italia di diventare una potenza industriale in meno di una generazione). Ancora oggi, costituisce la condizione del nostro benessere economico (e della nostra stabilità politica).

 

L’economia non basta più

Le cose però cambiarono con la fine della Guerra Fredda (1989-1991). Se nei tre decenni precedenti, la politica di sicurezza (militare ed estera) era rientrata nei ministeri nazionali, dopo il 1991 la divisione del lavoro stabilita a Roma nel 1957 dovette essere rivista. Il Trattato di Maastricht del 1991 istituì un Pilastro intergovernativo per la Politica estera e di sicurezza (PESC), al cui interno fu inserito (a partire dal 1999) la Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), mentre rimase sovranazionale il Pilastro del mercato unico (chiamato Comunità economica). Pilastri quindi ricomposti all’interno dell’Unione europea (Ue), così chiamata ufficialmente per la prima volta. Obbligata a fare i conti con il nuovo scenario europeo e internazionale, l’Ue accettò il compito ricorrendo però alla logica intergovernativa.

Certamente non sono mancati i tentativi di mitigare la logica intergovernativa inaugurata a Maastricht. Con il Trattato di Amsterdam del 1997, ad esempio, venne formalizzato l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, cui il Trattato di Lisbona del 2009 assegnerà il doppio compito di presiedere per cinque anni il Consiglio dei ministri nazionali per gli affari esteri e contemporaneamente di esercitare il ruolo di vicepresidente della Commissione europea. L’obiettivo era quello di collegare la logica intergovernativa del Consiglio dei ministri con quella sovranazionale della Commissione europea, ma non si può dire che abbia funzionato in quanto la prima si è regolarmente imposta sulla seconda. Il Trattato di Lisbona del 2009 abolì la divisione in Pilastri, ma non la logica intergovernativa della politica estera e di sicurezza. Anzi, la rafforzò ulteriormente riconoscendo, per la prima volta formalmente, il Consiglio europeo dei capi di stato e di governo, cui affidare il compito di stabilire le grandi scelte dell’Ue. Così, a partire dal Trattato di Lisbona, nel contesto delle crisi multiple del decennio successivo e sotto la pressione proveniente dai Paesi del nord e dell’est entrati tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, l’Ue ha registrato lo sviluppo spettacolare della logica intergovernativa, al punto da offuscare quella sovranazionale operante nelle materie regolative del mercato unico.

La logica intergovernativa ha caratteristiche molto precise. Si basa sul coordinamento volontario tra i membri dei governi nazionali (nei Consigli dei ministri degli affari esteri e della difesa) i quali monopolizzano il processo decisionale, relegando la Commissione europea a svolgere funzioni tecniche, con il Parlamento europeo e la CGE collocati ai margini di quel processo. La PESC e la PSDC consistono di atti politici piuttosto che legislativi (come sono invece le direttive e i regolamenti), atti poi implementati dalle rispettive amministrazioni nazionali. All’interno dei Consigli (in particolare del Consiglio europeo), il processo decisionale si basa sul consenso o unanimità, così riconoscendo un potere di veto ad ogni ministro o capo di governo rispetto alla decisione da prendere: un potere di veto regolarmente esercitato o minacciato da governi nazionali, come quello ungherese di Viktor Orban o polacco di Mateusz Morawiecki. E’ stato inevitabile che l’Ue diventasse una potenza normativa, o che esercitasse esclusivamente la sua influenza economica, vista la natura intergovernativa del suo processo decisionale nella politica di sicurezza (e l’impossibilità di usare le risorse dell’hard power rimaste sotto il controllo dei governi nazionali). Certamente, di fronte a situazioni drammatiche, come l’aggressione russa dell’Ucraina, il Consiglio europeo è riuscito a prendere decisioni cruciali, immediate e consensuali. Tuttavia, un processo decisionale non può aver bisogno della eccezionalità e drammaticità di una crisi per divenire efficace.

Anche le proposte recenti di un’Unione della difesa, come quella del presidente francese Emmanuel Macron, non fuoriescono dall’orizzonte intergovernativo. Per il presidente francese, si tratta di rafforzare il coordinamento militare tra alcuni Paesi, con la Francia però destinata ad esercitare un ruolo di leadership al suo interno. L’impegno assunto dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, all’indomani dell’aggressione russa, di investire cento miliardi di euro nella difesa nazionale, così come la maggiore spesa nazionale per la difesa promessa da diversi governi nazionali, non aumentano le capacità militari europee, mentre aumentano le duplicazioni, le diseconomie, le disfunzionalità tra i vari apparti militari nazionali. Così, gli impegni a maggiori investimenti nelle tecnologie militari non sono ricondotti ad un progetto europeo ma si basano su consorzi bi- o tri-nazionali, difficilmente competitivi con l’industria militare americana. Il vincolo intergovernativo comprime le capacità militari e industriali dell’Ue, un esito preoccupante se si considerano i cambiamenti in corso nella politica americana. La presidenza di Trump (2017-2020) aveva ricordato agli europei che l’America non è più disposta a pagare per la loro sicurezza, la presidenza Biden (pur ricostruendo un rapporto più collaborativo con noi) ha subito chiarito che le sue priorità sono in Asia e non in Europa. Come risolvere il problema della sicurezza europea?

 

De Gasperi settant’anni dopo

La guerra russa all’Ucraina ha sollevato il tappeto sotto il quale era stata nascosta la questione della sicurezza dal 1954, il cui esito è stato una Europa integrata sul piano economico ma non su quello politico e militare. Un esito che De Gasperi e Spinelli cercarono tenacemente di scongiurare. Ritornare a loro, seppure criticamente, aiuta ad affrontare il problema della sicurezza europea settant’anni dopo. Infatti, De Gasperi ci ricorda che la guerra è una minaccia permanente per l’Europa (confinando con un aggressivo regime autoritario dotato di armi nucleari), Spinelli che tale minaccia non può essere affrontata con il coordinamento intergovernativo. Naturalmente, non si tratta di finire nel vicolo cieco di una nuova guerra fredda. Il rapporto con la Russia (o con la Cina) non dovrà sostanziarsi in un confronto esclusivamente militare, ma dovrà preservare o promuovere tutte le occasioni per scambi economici e culturali con loro. Tuttavia, l’Europa integrata non deve essere più ricattabile, sul piano delle risorse energetiche o degli scambi industriali, dai regimi autoritari. L’interdipendenza dovrà approfondirsi al suo interno, ma alleggerirsi al suo esterno (con i regimi autoritari). La globalizzazione dovrà divenire selettiva.

Se la guerra è una minaccia permanente, e se l’America sta rivolgendo sempre di più la sua attenzione in Asia, allora è necessario che l’Europa integrata si assuma il problema di garantire la propria sicurezza. Senza una efficace capacità di auto-difesa, l’Europa integrata non potrà difendere le sue libertà, la sua democrazia, il suo welfare. Capacità di auto-difesa che potrà essere garantita solamente da un’organizzazione sovranazionale. Tuttavia, contrariamente al progetto del 1952, la difesa europea non dovrà basarsi sulla fusione delle difese nazionali, bensì dovrà caratterizzarsi come un nucleo di capacità e risorse che si aggiunge a queste ultime, con lo scopo garantire la difesa collettiva. Gli stati possono conservare le loro difese nazionali per fronteggiare sfide locali, anche se esse dovranno essere razionalizzate così da non ostacolare la difesa comune. La difesa europea dovrà agire in coordinamento con la NATO, come sostenuto con insistenza da De Gasperi. Essa dovrà riflettere la visione strategica dell’Europa integrata, cui dovrà corrispondere una politica industriale europea per tecnologie di rilevanza militare. L’autonomia strategica dell’Europa integrata richiederà la costruzione di un’autorità di politica estera, così come la difesa comune richiederà l’esistenza di un’autorità di politica militare. Nello stesso tempo, non si potrà parlare di una politica estera e di difesa europee senza la creazione di un budget europeo con cui sostenerle, alimentato da risorse fiscali autonome e non da trasferimenti finanziari nazionali. L’autonomia strategica implicherà anche la necessità di parlare con una voce singola all’interno delle organizzazioni internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Come sottolineato da Spinelli e condiviso da De Gasperi, le nuove autorità di politica estera e di difesa dovranno essere parte di un’unione politica più ampia che garantisca la loro legittimità democratica, oltre che il loro rendiconto politico. Oggi sappiamo ciò che non era evidente nel 1952, ovvero che un’unione politica non abbisogna di divenire uno stato per poter esercitare i suoi compiti autoritativi. Essa dovrebbe acquisire le caratteristiche di un’unione federale, non già di uno stato federale (come auspicava Spinelli nel 1952). Infatti, uno stato federale che organizza la vita di centinaia di milioni di abitanti condurrebbe ad una accumulazione di potere tale da minacciare le libertà individuali. Per questo motivo, un’unione federale assegna al centro federale competenze esclusive solamente sulle materie che riguardano la sicurezza collettiva, riconoscendo agli stati federati competenze su “tutto il resto”. Naturalmente, tale distribuzione sarà oggetto di continua negoziazione tra i livelli di governo, richiedendo la disponibilità di questi ultimi al costante compromesso. Sia i governi federati che le autorità federali dovranno essere legittimati elettoralmente, oltre che supervisionati dalle rispettive corti costituzionali.

Come De Gasperi aveva chiaro, l’unione tra stati non implica la soppressione del sentimento nazionale. “Badate bene che quando diciamo che non siamo nazionalisti (…) non diciamo qualche cosa che limiti le nostre forze reali, che diminuisca, comprima e deprima il nostro sentimento nazionale” (Senato della Repubblica, 15 novembre 1950). Nel nostro caso, l’unione federale richiede identità multiple, non già la sostituzione di un’identità nazionale con un’identità europea. Seppure siano l’esito di un’invenzione, gli stati europei hanno profonde radici nei simboli e nelle relazioni dei loro cittadini. Non si tratta di cancellare una storia, ma di aggiungerne un’altra, creando una cittadinanza europea di nazionalità distinte. Il nazionalismo è incompatibile con l’unione federale, ma non lo sono le identità nazionali intese come sistemi aperti di esperienze e memorie. L’identità europea, invece, dovrà basarsi necessariamente sulla condivisione di valori politici, gli unici che possono unire vicende culturali o religiose diverse. Ciò che dovrà tenere insieme l’unione federale è la condivisione dei principi liberali dello stato di diritto e delle libertà individuali e i principi della divisione dei poteri che garantiscono la democrazia politica.

Sappiamo che diversi governi nazionali dell’Europa integrata (nell’Europa dell’est) non condividono quei principi. Sappiamo anche che altri governi nazionali (dell’Europa del nord) hanno aderito all’Europa integrata per ragioni esclusivamente economiche, ed altri governi nazionali (nei Balcani occidentali) vi aderirebbero per ragioni opportunistiche. L’unione federale non emergerà da uno sviluppo biologico, né potrà dipendere dalle idiosincrasie dell’uno o dell’altro governo nazionale. Come sostenne De Gasperi nel 1952 (Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, 15 settembre), un’unione tra stati richiede un preliminare atto “di volontà politica (…) per realizzarsi”, un atto attraverso il quale gli stati coinvolti riconoscono che vi sono sfide che non possono affrontare da soli. E’ poco plausibile raccogliere tali differenti visioni dell’Europa all’interno di un unico progetto istituzionale. Occorrerebbe, piuttosto, organizzare contenitori diversi per visioni diverse. Non mancano le proposte. E’ possibile ipotizzare l’esistenza di: una comunità degli stati europei, una confederazione allargata a buona parte agli stati del continente che, basata su un Consiglio dei capi di governo, affronta temi come l’energia, i trasporti, la ricerca; una comunità economica, coincidente con gli stati che oggi condividono il mercato comune e ne rispettano il sistema sovranazionale triangolare; una unione federale, una federazione europea costituita dai “Paesi del 1952” più quelli che ne condividono l’ispirazione federale (come la Spagna), cui devolvere il governo delle politiche di sicurezza (da quella militare a quella monetaria). Il futuro dell’Europa dovrà essere plurale.

In conclusione, l’europeismo di De Gasperi parla al futuro dell’integrazione, non solo al suo passato. Esso dovrebbe caratterizzare l’orizzonte della politica italiana, indipendentemente dai governi in carica, in quanto ci ricorda che fuori dall’Europa non c’è un futuro per l’Italia.

 

Sergio Fabbrini

Sergio Fabbrini è Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, Professore di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Intesa Sanpaolo Chair on European Governance presso la LUISS Guido Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government dal 2010 al 2018. È stato ideatore e poi Direttore della School of International Studies dell’Università degli Studi di Trento dal 2006 al 2009. È stato Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School nel 2019-2020. E’ Recurrent Visiting Professor di Comparative and International Politics presso la University of California di Berkeley (USA). Tra gli altri, è stato Jemolo Fellow presso il Nuffield College di Oxford e Jean Monnet Chair Professor presso il Robert Schuman Center for Advanced Studies, European University Institute, Fiesole, Firenze. Ha insegnato in diverse università degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone, dell’America Latina e dell’Europa. È stato Direttore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” dal 2004 al 2009, il primo direttore dopo Giovanni Sartori che l’aveva fondata nel 1971. Ha vinto diversi premi scientifici internazionali e nazionali. Ha pubblicato venti volumi, è co-autore di altri due volumi ed ha curato altri venti volumi, oltre a più di trecento saggi scientifici in sette lingue. È editorialista del quotidiano Il Sole 24 Ore. Per i suoi editoriali, ha ricevuto il Premio 2017 Altiero Spinelli che gli è stato consegnato a Ventotene.

 

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