Il salario minimo: un equivoco rappresentativo

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di Luca E.Caputo *

Premessa, doverosa:

il tema non è certo nuovo, è semmai la politica che se ne è interessata in ritardo; un grave ritardo, che non sembra imputabile, come in altri casi, agli equilibri parlamentari.
Già, gli equilibri parlamentari.. chiamiamoli in maniera meno equivoca: l’inoperatività della democrazia incarnata da un Parlamento bloccato su posizioni e contrapposizioni. Era uno dei motivi fondamentali che induceva Dossetti a sospettare del parlamentarismo, o per lo meno della sua versione italiana sancita dalla Costituente.

Ma torniamo alla premessa: il tema è così poco nuovo che diversi anni fa, non ricordo nemmeno se era il 2016 o il 2017, posi la questione della determinazione per legge del salario minimo ad un giovane ed avviato sindacalista di una grande sigla confederale: la risposta che mi diede fu che, tutto sommato, la quantificazione era affidata ai contratti collettivi nazionali.

Mi lasciò in uno stato d’animo tra l’interdetto e l’insoddisfatto: “Davvero, non ha capito quello che volevo dire?”.

Vengo allora a quello che volevo dire, parlando direttamente del tema così come è posto oggi:

sul campo ci sono diverse ipotesi, dato che il tema si presta a presentarsi come una di quelle battaglie politiche epocali e quindi nessuno, in buona o malafede, se ne può sottrarre.

Dall’opposizione di centrosinistra si avanzano proposte consistenti nella quantificazione, letteralmente, di un salario minimo imposto per legge; si dirà che in molti Stati membri dell’UE esiste il salario minimo orario, e si risponderà che noi siamo in uno specifico di essi, e che, in assenza di una quantificazione anti-dumping ed armonizzatrice a livello europeo, il salario minimo deciso con legge nazionale non può non tenere conto dei fattori economici e sociali contingenti: è un discorso che per noi può suonare come un compromesso al ribasso, o come una concessione alle imprese cattive, ma che in effetti può essere inteso anche all’inverso, in senso positivo.

Dal governo di centrodestra invece si vede in maniera negativa una simile quantificazione e si preferisce affidare la questione, tutta intera, alla contrattazione: questo ci sembra coerente con la storia di un centrodestra italiano sempre povero di attenzione rispetto al trattamento dei lavoratori.

Sfortunatamente, ci sembra coerente anche la proposta delle opposizioni: guardando proprio agli equilibri parlamentari, non sorprende che ci si sia soffermati su una richiesta che appare più sindacale che politica; nel momento in cui si dà alla retribuzione minima del lavoro il compito di accorciare la distanza tra le necessità di vita e le condizioni materiali delle persone, si sta facendo una confusione di funzioni: si attribuisce cioè alla retribuzione lavorativa minima (il punto, è utile ribadirlo è proprio questo) una funzione di welfare che non dovrebbe, a regola, avere: tanto più quanto la si pensi su scala nazionale, in un contesto economico aperto, e senza discrimine alcuno rispetto a fattori concreti quali la zona di vita, il comparto, lo specifico dell’impresa…

Ha senso? In effetti si, ma è un senso di cui mi riservo di approfondire in un lavoro a parte. Dal punto di vista di chi scrive, invece, la retribuzione minima deve a rapportarsi con la componente “necessità di vita” , tenendo come forti entrambi i termini (necessità e vita) lasciando parzialmente da parte il valore del lavoro (che qui invece mi pare sia dimenticato) ed evitando invece di caricarsi della funzione di welfare.

Il senso di quella mia domanda, in effetti, era esattamente questo: “quali strumenti si possono mettere in atto per fare in modo che al lavoro, e al tempo del lavoro, sia riconosciuto il giusto valore?”. Una domanda nella quale l’idea istituente era quella di un giusto rapporto tra lavoro e capitale, tra lavoratori e società, tra società ed economia.

 

A parità di tutto il resto, un’ ora di lavoro per un abitante di una città come Milano o Roma, ha lo stesso valore (tradotto: può costare all’ impresa) di un’ora di lavoro in una zona interna magari depressa?

Evidentemente no.
Lo dico pur non avendo mai stimato le gabbie salariali, che mi sono sempre sembrate uno strumento tipico della destra liberista (e leghista) e contrario alla coesione sociale nazionale: i sogni novecenteschi di un Paese in grado di realizzare una soddisfacente armonizzazione tra i livelli di reddito pro capite e di valore prodotto tra le diverse zone d’Italia, è messo a dura prova dalle dinamiche nuove portate dalla innovazione tecnologica e dalla finanziarizzazione dell’economia in un sistema totalmente aperto su scala globale. Le differenze che ne scaturiscono sono insormontabili anche per l’Europa, figurarsi per un Paese come l’Italia che proprio sul valore prodotto denuncia da sempre difficoltà gravi, in relazione: al trovarsi in un mercato comune europeo; alla percentuale di ricchezza nazionale generata attraverso lavoro e produzione; al tenore di vita atteso dalla popolazione.

 

Il nucleo del mio ragionamento sulla retribuzione minima cade dunque, innanzitutto, sul fattore tempo: quanto vale (= quanto deve essere pagata dall’imprenditore o dal committente in genere) un’ ora del tempo di una persona su cui ogni ora che passa grava un costo fisso minimo, ad esempio, di 0,80 euro dovuto alla semplice circostanza dell’esistere, nella città del luogo di lavoro?

Può essere uguale a quello di chi, a parità di ogni altro fattore, sopporta un costo orario di 0,30?

Ci pare di no, ci pare che debba costare di più.

 

L’ altro fattore di cui bisognerebbe tenere conto, ai fini della quantificazione di una giusta retribuzione minima, è poi strettamente connesso allo svolgimento di un’ attività lavorativa: se il primo fattore (tempo e microfattori materiali) ci tengono in rapporto con la questione della sopravvivenza, questo secondo fattore ci porta alla questione del vivere: “il mio lavoro, per organizzazione e livelli di usura fisica e delle opportunità, mi consente di vivere? O mi sta ancorando alla condizione di non vivere e di non crescere?” E’ la domanda che mi pare normale farsi, quando si viene interrogati su quanto costa al lavoratore, il lavoro.

Questo, in relazione senz’altro al contesto di vita, non può non avere un peso quanto al concetto del voler condurre il lato della domanda di lavoro a riconoscere per legge un giusto compenso minimo per ogni ora di lavoro ricevuto. E’ in questo secondo fattore della retribuzione minima, ad esempio, che si può affrontare il discorso legato alle cosiddette finte partita IVA: “sono effettivamente io il proprietario del frutto del mio lavoro, con annessi i tempi, i rischi e le altre possibilità, oppure il mio lavoro è sostanzialmente subordinato talchè a me non rimane null’altro che il denaro ricevuto?”.

Naturalmente ci sono altri fattori da considerare, quanto al più ampio discorso del salario (non, quindi, del s. minimo): il comparto nel quale si opera, lo specifico aziendale, il valore aggiunto prodotto dall’impresa e dal lavoratore.

Sono tutti fattori nei quali è sensato (anzi, doveroso) attivare la contrattazione, anche cercando extra-componenti della retribuzione minime a livello nazionale (qui forse le grandi sigle sindacali potrebbero dare un contributo qualitativo d’altri tempi…), purchè, quanto più come siamo noi, in assenza di una visione strategica a livello nazionale, siano ancorati al dato reale; e andando semmai ad interessare questa parte del trattamento dell’insieme retribuzione-previdenza-welfare-formazione, traducibili in un pacchetto di misure a carattere misto e variabile.

A parere di chi scrive non si può, invece, attribuire, nè surrettiziamente nè esplicitamente, al salario minimo la funzione del welfare, scaricando così in maniera implicita tutti i maggiori costi sulle imprese, perchè significherebbe instradare il futuro del lavoro e della produzione in Italia verso una fine prematura e verso uno squilibrio letale tra lavori poveri e lavori ricchissimi.
Tutti siamo consapevoli dei grandi mutamenti che interessano la dimensione del lavoro, sul cui futuro incombe l’arrivo delle IA; ma in attesa che il futuro si verifichi, un futuro di cui nessuno può realmente immaginare i tratti nel lungo periodo, il rapporto tra lavoro ed economia va tenuto e difeso: disegnare in maniera giusta ed equa sia il salario minimo che l’insieme del  compenso ricevuto per l’attività lavorativa, sia essa dipendente, parasubordinata o autonoma, è un modo per farlo senza alzare bandiera bianca al buio.

Una via di uscita possibile mi sembra, proprio rispetto all’individuazione di un salario minimo, l’ancoraggio per legge alla soglia di povertà sul cui concetto si è costruito il REI:
se la mia soglia di povertà è di 200 a settimana, è ovvio che il salario minimo orario netto non può essere inferiore a un quarantesimo, cioè 5 (altrimenti si arriva al paradosso del “dumping positivo” del Reddito di Cittadinanza sulla retribuzione), aumentato poi di una componente legata al sacrificio di tempo e opportunità che la condizione lavorativa genera.

Tutto questo, in ogni caso (ed è la vera questione su cui il centrosinistra dovrebbe intervenire, a mio modesto parere) dovrebbe avvenire a fronte di un lavoro di alto profilo da parte di Agenzie pubbliche, nazionali e locali, aventi il compito di accertare le violazioni, e di definire con qualità le soglie di povertà a livello locale: una cosa che andrebbe fatta in ogni caso, e che sarebbe essenziale al funzionamento di una società fondata realmente sul lavoro.

Contrattare invece una misura standard, lasciando poi all’implicito di comportamenti e illeciti di varia natura la funzione della compensazione con l’economia reale, tanto più visto il contesto che taluni pretendono di denunciare, mi sembra una impostazione dal respiro straordinariamente corto, dallo sguardo nitidamente miope, dalle tendenze curiosamente conservatrici.

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