A seguito dei numerosi interventi (anche sul nostro sito: vedi l’articolo di Paola Gaiotti, “Monaco, no!” e i commenti all’articolo stesso) suscitati da una proposta da lui avanzata sul Manifesto (che l’ha ripubblicata ieri: “Una separazione nel reciproco interesse“) l’autore, deputato del Pd, all’indomani dell’uscita dal Pd di un altro gruppetto di parlamentari e della nascita di Sinistra Italiana, torna sul tema e spiega il suo punto di vista.
Ha fatto un po’ discutere una mia proposta-provocazione: quella di una sorta di separazione consensuale del PD. Provo a illustrarla in sintesi. Essa prende le mosse da due considerazioni.
La prima. Complice la dissoluzione del centrodestra, il PD renziano va assumendo sempre più i connotati di un grande partito moderato di centro, un profilo decisamente diverso dal PD ideato nel solco dell’Ulivo prodiano, cioè un partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra nel quadro di un maturo bipolarismo competitivo tra due alternative di governo.
Non è una cosa brutta, semplicemente si tratta di una cosa diversa. Si deve prenderne atto.
La seconda considerazione. La minoranza PD ha preso a distinguersi, anche in parlamento, un po’ su tutte le questioni che contano. Senza che se ne traggano le conseguenze. Un comportamento alla lunga insostenibile e indifendibile, in un partito degno di questo nome, nel quale dovrebbe vigere un vincolo politico prima che disciplinare.
Io sarei meno polemico, meno scomposto, ma più risoluto.
Di qui la mia riflessione, qualcosa di meno di una proposta, qualcosa di più di una mera provocazione: si prenda serenamente atto di differenze non suscettibili di composizione dentro un medesimo partito, ma forse sì in un’alleanza su un programma di governo negoziato. Ci si separi in buona amicizia, senza reciproci anatemi e, se ve ne saranno le condizioni, domani auspicabilmente ci si potrà alleare tra un centro renziano e una sinistra di governo. Come nel centrosinistra storico, imperniato sull’asse Dc-Psi. Certo, si dovrebbe poi correggere l’Italicum, reintroducendo il premio alla coalizione. Del resto, così era nella sua prima versione passata alla Camera. La versione successiva fu concepita subito dopo il 41% al PD delle elezioni europee, facendo imprudentemente conto sulla stabilizzazione di quel consenso, dunque sul presupposto della quasi autosufficienza del PD. Oggi il ballottaggio tra le due prime liste contemplato dall’Italicum sarebbe insidiosissimo: tutte le rilevazioni ci dicono che un terzo degli italiani apprezzano Renzi e due terzi no. Con la personalizzazione della contesa politica, le elezioni somiglierebbero a un referendum pro o contro Renzi. È perfettamente possibile che i voti di Grillo e di Salvini si sommino pur di battere Renzi. È quel che si è visto nelle elezioni comunali a Parma e a Livorno.
A una operazione politica maiuscola del tipo di quella sopra adombrata sarei interessato, non a fuoriuscite dal PD su base individuale o di piccolo gruppo di parlamentari, di cui pure conosco e condivido il disagio per la deriva centrista del partito. È una risposta minuscola, forse liberatoria per i singoli, ma politicamente ininfluente, che già rivela i suoi limiti. I primi passi del nuovo soggetto denominato Sinistra italiana cui sono approdati alcuni parlamentari PD non fanno che confermare le mie riserve.
Non mi piace la piega che va prendendo il rapporto tra PD e Sinistra italiana: non il buonismo ma la politica dovrebbe suggerire di non scavare solchi incolmabili, di non rapportarsi come i principali nemici. Tutt’altra cosa sarebbe la “separazione consensuale” tra centro renziano e sinistra riformatrice per poi, auspicabilmente, dare vita a un’alleanza di centro-sinistra con il trattino. Che distingue, ma anche unisce. Perché le cose stanno andando diversamente? Quando differenze interne incomponibili non sono prima riconosciute come tali e poi governate politicamente esse degenerano sino all’autolesionismo del centrosinistra. Le responsabilità? Di tutti e tre gli attori: della baldanzosa presunzione di autosufficienza e della leadership divisiva di Renzi, che scioccamente minimizza la defezione di parlamentari autorevoli mentre celebra il reclutamento nel PD e nella maggioranza di governo di ceto politico in cerca di sistemazione; delle divisioni interne e dell’irresolutezza dei “vorrei ma non posso” di una minoranza PD politicamente ininfluente; di chi non ha avuto pazienza di attendere a una operazione politica maiuscola e ha lasciato il PD con fuoriuscite su base individuale che, a dispetto delle intenzioni di fare una cosa nuova, sono percepite come un’annessione a Sel. Quando prevalgono la rimozione dei problemi e i risentimenti si appanna la lucidità e ci si fa del male.
Franco Monaco
12 Novembre 2015 at 13:18
Caro Monaco, il problema è che il punto di partenza della tua riflessione (“Complice la dissoluzione del centrodestra, il PD renziano va assumendo sempre più i connotati di un grande partito moderato di centro, un profilo decisamente diverso dal PD ideato nel solco dell’Ulivo prodiano, cioè un partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra nel quadro di un maturo bipolarismo competitivo tra due alternative di governo”) è – a mio parere – troppo severo e “tranchant”. Può darsi che tu abbia ragione e sia io a non vedere bene la realtà, ma non mi pare che tutte le scelte del Governo (approvate – non dimentichiamolo – dal Parlamento, in cui i Parlamentari PD, eletti sotto la candidatura Bersani, hanno un peso indispensabile) siano totalmente distanti o addirittura opposte (come talvolta sento dire) da una moderna visione di centrosinistra. Poi nel merito di alcune di queste, nel metodo e anche nello stile c’è sicuramente da discutere, A me pare che in ogni grande partito riformista occidentale ci siano sensibilità programmatiche che di volta in volta vengono accentuate anche a seconda della situazione reale in cui si agisce. Il Labour che osannava Blair ora “piega a sinistra”, tanto per dirne una, (poi vedremo come andrà a finire), a New York vinse un sindaco considerato “di sinistra” ma Hillary Rodham Clinton non è esattamente della stessa pasta… Qualcuno oggi si ricorda di Zapatero, che sembrava l’astro nascente e l’esempio fulgido da seguire…? Sono esempi lanciati un po’ così, giusto per capirsi. Ritenere che il PD stia vivendo una trasformazione irreversibile verso un neocentrismo moderato è legittimo ma forse ci vorrebbero più elementi per dimostrarlo… Una seconda osservazione: ho visto, ahimè, diverse volte nascere partiti “a tavolino” , con esiti quasi sempre fallimentari nel medio, se non nel breve, periodo. Un partito che voglia essere davvero tale nasce non solo perchè c’è un gruppo dirigente che si vuole “staccare” (magari con buoni motivi) da un partito ma se ha un elettorato e “militanti” sul territorio pronti a sostenerlo (almeno potenzialmente). Sono contento per Fassina che il teatro del lancio di Sinistra Italiana fosse strapieno. Augurandogli di fare buona strada, ricordo che in passato qualcuno per simili “lanci” aveva riempito non un teatro, ma interi Palasport, ma è durato ben poco… Sinceramente, non mi sembra che nell’attuale quadro politico vi siano molti spazi per un altro partito di sinistra che – tra l’altro – se nascesse sarebbe già il quarto oltre a SEL, SI e Possibile di Civati (sempre che sia un partito), salvo che non si riunifichino tutti in modo serio e definitivo (la storia ci consente di dubitarne, ma spero – sinceramente – di sbagliarmi).
Una terza osservazione. Posso capire che alcuni amici cattolici democratici si trovino a disagio in questo momento della vita del PD, perchè su tante cose ho una simile sensibilità. Ma faccio fatica a pensare che si possano trovare meglio in una sinistra-sinistra guidata dagli attuali leaders di quell’area. Qui si apre ovviamente tutto un altro campo di riflessione, ma credo valga la pena di porre questo “punto di domanda”. Concludo ribadendo stima, amicizia e grande rispetto per il tuo lavoro e le tue riflessioni!
12 Novembre 2015 at 13:39
Analisi lucidissima e indicazioni altrettanto chiare e condivisibili.
Giovanni Puggioni
13 Novembre 2015 at 01:07
A franchezza altrettanta franchezza.
Si continua a riproporre una confusione tra Ulivo e Unione.
L’Ulivo, a differenza dell’Unione, era nato con una chiara delimitazione verso la sinistra minoritaria esattamente come tutte le forze europee di centrosinistra (non ne faceva parte Rifondazione) ed anche per questo almeno potenzialmente in grado di sfondare nell’elettorato di centro,
L’Unione era nata come indistinta coalizione e infatti non fu capace di governare.
L’attuale Pd è in continuità con l’Ulivo e non con l’Unione: il che è un bene, non un limite.
Il premio di lista nasce anch’esso non dalle europee, ma dalla consapevolezza che a Costituzione invariata con le coalizioni non si governa e si facilita il ruolo dei partiti antisistema nel raccogliere la protesta contro esecutivi impotenti.
Le coalizioni a livello locale possono anche funzionare perché:
1-il premio può arrivare al 60% (e quindi chi non ha il 10% no ha potere di crisi), ma a livello nazionale non si può arrivare sino lì per non dare ai vincitori gli organi di garanzia;
2-il vertice dell’esecutivo ha il potere di scioglimento dell’assemblea elettiva;
3-l’assemblea elettiva non può dar vita ad altri governi, se sfiducia vanno tutti a casa.
In assenza di questi vincoli le coalizioni non possono funzionare. L’abbiamo già visto, a destra come a sinistra.
Non sono quini ragioni partigiane e di breve periodo, ma sistemiche e di lungo periodo. Si possono certo non condividere, ma non si possono facilmente sminuire.
Quanto alla sinistra-sinistra posso al limite capire l’attrazione che può suscitare nell’album di famiglia di chi viene dalla sinistra di opposizione e che viene tubato dalla discontinuità presente (come il latino per i tradizionalisti), mi resta difficile capire una tale vocazione minoritaria in chi non ha mai avuto quella collocazione. Allego pertanto qui sotto le osservazioni di Vittorino Ferla dal sito di Libertà Eguale.
SI, tutto ciò che la sinistra non deve essere
di Vittorio Ferla | Pubblicato il 12 novembre 2015
SI, tutto ciò che la sinistra non deve essere
Nasce SI. E nasce male. Ma dobbiamo ringraziare questo tentativo perché ci spiega molte cose. Ecco, pertanto, alcuni buoni motivi che fanno della Cosa Rossa l’ennesimo progetto fallimentare della sinistra italiana.
La mancanza di una leadership
In qualsiasi democrazia moderna che si rispetti, il leader è quella figura capace di incarnare il progetto di governo della maggioranza che vince le elezioni, di assumere la responsabilità individuale della realizzazione di questo progetto, di rendicontare ai cittadini elettori il rapporto tra quel che si è detto e quanto si è fatto. Sinistra Italiana non può offrire nell’arena della politica una figura simile (con tutto il rispetto per i Fassina, i Vendola e i D’Attorre). Sia per motivi culturali e storici, come l’eterno ritorno del frazionismo. Sia per motivi ideologici, come la sconclusionata idea che qualsiasi tipo di leadership sia intrinsecamente antidemocratica.
Forme organizzative senza fantasia
La nuova (sigh!) formazione di sinistra non nasce – come retorica pretenderebbe – ‘sulla strada’ o ‘fra la gente’. Nasce da un’accozzaglia di capi e capetti in cerca d’autore, in un borghesissimo teatro del centro e per fondare un gruppo parlamentare ‘nuovo’, numericamente corrispondente ad un modesto rimpolpo di SEL, il partito dei vendoliani. Di romantiche mobilitazioni dal basso nemmeno a parlarne. Tecnicamente, una operazione ‘di palazzo’, dove il contributo del tanto vezzeggiato popolo della sinistra è pari a zero. Una sceneggiata vissuta già mille volte, dai tempi (un po’ più nobili) della dalemiana Cosa2 a quelli (decisamente farseschi) di Azione civile di Ingroia e via elencando.
Comunicazione banale e retrograda
Tristi foto con un mucchietto di leader finto-giovani, cravatte rosse su camicie (comunque) bianche, appelli alla mobilitazione, richiami alle ferite e alle offese subite, attacchi alle promesse di felicità nel nome di plumbei richiami alla giustizia, trite retoriche antiduciste e antiliberiste, comizietti abborracciati tra turisti perplessi nelle viuzze del centro storico della Capitale. I comunicatori di Sinistra Italiana non si sono sforzati davvero, avrebbero potuto concepire qualcosa di meglio in termini di strumenti e di slogan. Ma la verità è che – se anche lo avessero fatto – non avrebbero potuto spremere troppo di più da un limone ormai avvizzito. Come di norma accade, il deficit di comunicazione dipende da un deficit di contenuti.
Il ‘blocco sociale’ che non c’è
Ad una sinistra minoritaria e settaria non può certamente chiedersi un programma di governo allo stesso tempo concreto e ‘universale’. Né, dunque, si può pretendere che abbia la capacità di rivolgersi a settori diversi della popolazione per comporne gli interessi. Ma almeno un ‘blocco sociale’ di riferimento – come si chiamava una volta – almeno quello sì. Probabilmente, almeno nella mente di Fassina, che sembra essere l’ideologo del gruppo, questo blocco parrebbe coincidere con il mondo del lavoro salariato. Un mondo che tuttavia ha ridotto sensibilmente il suo perimetro di rilevanza nelle società moderne a vantaggio di nuove forme di lavoro, soprattutto di tipo autonomo. Il mondo del lavoro si è trasformato radicalmente ovunque e chiede nuove modalità di tutela. Lo stesso mondo del lavoro tradizionale appare assai frastagliato. Insomma, Sinistra Italiana vuole rappresentare un mondo che non c’è più, mentre il mondo reale nemmeno si accorge della sua presenza. Davvero un bel pasticcio.
L’ideologia anti
Ovviamente, tutto quanto si è detto deriva da un motivo ben più profondo: l’assenza di contenuti innovativi. Imprigionato negli schemi del passato, il mondo della sinistra ‘rosso antica’ vive alimentando l’utopia del crollo del capitalismo (che non crolla mai), vede fascisti, democristiani, populisti e berlusconiani in ogni angolo, racconta ancora che bisogna punire i ricchi per dare i poveri. Una volta era il SIM, il sistema imperialista delle multinazionali, poi l’Impero, la finanza cattiva e, oggi, il neoliberismo. Una coazione a ripetere che produce umorismi involontari e ironie da social network (chi non conosce la divertente pagina Facebook “Tutta colpa del neoliberismo” che saccheggia quotidianamente dalla vulgata ‘rosso antica’?). Esperti nella costruzione del mostro-nemico, ecco il bersaglio preferito di questa minestra ideologica: l’uomo nero delle destra, il leader cattivo, l’orco della democrazia. E va bene Benito Mussolini; e va bene Silvio Berlusconi; adesso perfino il boyscout fiorentino.
Alleanze maldestre
Fassina annuncia un possibile voto per i Cinque stelle nell’eventuale ballottaggio a Roma: è la cartina di tornasole della confusione totale che regna nei residui della sinistra rosso antica. Nei documenti che Fassina faceva circolare fino a pochi mesi fa, il M5S era considerato alla stessa stregua dei partiti populisti che emergono in tutta Europa. E la sinistra era invitata a ‘non lisciare il pelo al populismo’. Oggi quell’intimazione è venuta meno. Il populista per eccellenza resta Matteuccio, mentre con i grillini si ritenta l’operazione classica – già fallita con Bersani – del ‘frontismo’ più ingenuo: mettere insieme le forze dell’Alternativa democratica contro il Partito della Nazione. Soggetto e sceneggiatura andate in onda mille volte e sempre perdenti. Come un vecchio vampiro, la Cosa Rossa vorrebbe succhiare il sangue giovane della new age grillina. Operazione abbastanza improbabile: non si capisce infatti che il M5S è una forza post-ideologica che ha ben poco da spartire con la sinistra storica, che molti ex quadri della sinistra militano nei Cinque stelle da tempo, che moltissimi elettori votano per Grillo da un pezzo: perché dovrebbe fare il passo del gambero per resuscitare un concorrente moribondo?
In fondo, dobbiamo essere grati alla neonata Cosa Rossa: l’esperimento ‘perfetto’ che ci permette di capire tutto ciò che la sinistra non deve più essere né fare se vuole avere un futuro in questa storia.
Scritto da Vittorio Ferla
Vittorio Ferla
Giornalista, blogger per Linkiesta, componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva. Si occupa di trasparenza e comunicazione presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore di Labsus.org e di 06lasvoltabuona.it. E’ stato vicepresidente nazionale della Fuci e ha collaborato con Europa e Critica Liberale.
13 Novembre 2015 at 08:09
Dato per certo che non vivo, in quanto non sono iscritto al PD, la sindrome dell’amante tradito, ragione per la quale l’amata è colpevole dei peggiori misfatti, e che anche Franco Monaco non la viva, ritengo siano condivisibili e abbiano fondamento le valutazioni critiche sul PD da lui esposte in diverse occasioni a sostegno della tesi di una “separazione consensuale” per costruire una sinistra riformatrice per dare vita a un’alleanza di centro-sinistra con il PD di centro di Renzi.
Tralasciando ogni altra riflessione sulle cause, storiche e politiche, che hanno portato a “questo” PD e alle sue attuali politiche, mi permetto tre considerazioni:
1) l’idea di uscire dal PD su base individuale non mi pare abbia qualche possibilità di incidenza sulle politiche del PD e neppure sulla creazione di una opposizione/alternativa a Renzi, servirebbe solo a mettere l’anima in pace a chi assume una simile decisione,
2) mi interessa certo ragionare sul ruolo della attuale minoranza del PD, ma ancor prima mi interessa capire se c’è una componente cattolica nel PD, in cosa questa si riconosce e si distingue, di quali valori, obiettivi e proposte è portatrice. Tutto ciò serve a dare identità e ruolo alla componente cattolica del PD che, essendo uno dei due soci fondatori del PD, non può accettare la marginalità e l’irrilevanza in cui è relegata.
3) risulta evidente che se i contenuti del “pensierino” e delle valutazioni critiche sul PD espresse da Franco diventano patrimonio anche solo di parte componente cattolica e della minoranza del PD, ben altri risultati si otterrebbero sul piano delle scelte politiche e di governo e ben altro significato assumerebbe l’ipotesi di uscita dal PD.
Provenendo da una lunga esperienza sindacale rispetto all’attuale situazione politica mi rammarica solo un fatto: che CGIL, CISL e UIL fanno molto più di quanto non dovrebbero fare per differenziarsi e molto meno di quanto sarebbe necessario fare per stare assieme e costruire il sindacato “unitario”. Proviamo ad immaginare cosa potrebbe accadere se gli 11 milioni di iscritti a CGIL, CISL e UIL fossero rappresentati da un sindacato unitario. Nessuno ardirebbe dire “se ne faranno una ragione”, oppure assumere decisioni politiche e di governo che riguardano pensionati e lavoratori senza il confronto con il sindacato. Sarebbe questo anche un grande e positivo contributo per il quadro politico del nostro Paese. Per il bene del Paese e del sindacato non perdo la speranza che questo possa avvenire in tempi molto brevi.
14 Novembre 2015 at 12:35
Subito dopo il primo e buon commento di Paola Gaiotti sto seguendo, come posso e nei suoi aggiornamenti , la “proposta-provocazione” di Franco Monaco. Forse sbagliando , ho addirittura scommesso che non intendeva separarsi. Ma ho compreso e giustificato le sue motivazioni. Devo ora ammettere che continuo a sposare la sua analisi, ma non le nuove conclusioni sulla “separazione consensuale”.Tuttavia non ne faccio né una questione quantofrenica e di numeri, dell’Italicum senza coalizioni al ballottaggio, o della sciocchezza della mancanza di un leader . Ben sapendo che in politica contano anche i numeri, contano le regole e conta una squadra di uomini saggi e competenti. Ma consapevole che noi nelle nostra democrazia ci scontriamo col principio di maggioranza. Per alcuni una dittatura. Un principio che serve però a governare, una volta ben rinforzato da solidi contropoteri di bilanciamento su cui stiamo invece sorvolando. E, certamente, una volta esperite tutte le mediazioni possibili con le minoranze interne alla maggioranza. Mi sbaglierò, ma sono sempre stato dell’avviso che quasi sempre le avanguardie profetiche, non sono mai state numerose .Qual è allora il problema ? Franco Monaco esprime un disagio. Mi scuso con gli esegeti e gli storici del paragone, ma questo disagio nel (fu) mondo cattolico democratico non è nuovo. Mi somiglia al disagio del primo Dossetti dentro la “sua” Dc. Il famoso discorso di Venezia dell’aprile ’49 , nel corso del 3° Congresso Nazionale, lo testimonia. Ma Dossetti in quegli anni, pur ferocemente critico sui ceti a cui si rivolgeva la Dc, non pensò mai di separarsi. Tutt’altro. Decise di rimanere nel partito dando battaglia. E chiedendo ad alta voce che fosse “: compresa l’ansia di coloro che desiderano essere il pungolo per quello che ancora c’è da fare…“. Il pungolo ? Si il pungolo ! E la mia risposta a Franco Monaco potrebbe finire qui.
Proseguo solo per qualche curiosità. Che Dossetti guardasse in quegli anni soprattutto alla questione sociale per rubare consensi al Pci, che avesse come chiodo fisso il lavoro e gli operai, non dovrebbe scandalizzare molto gli antidossettiani astorici. In quel tempo la disoccupazione in Italia era al 57% e sommando gli analfabeti totali, con i senza titolo di studio e con coloro in possesso di sola licenza elementare, si toccava il 93% ! Non mi perdo però l’occasione di ricordare che proprio a Venezia, Dossetti si lasciò andare ad una sorta di elogio del decisionismo governativo, criticando la lentezza del potere esecutivo e auspicando addirittura il monocameralismo. Niente male se si pensa al fascismo appena alle spalle. Leggo che il gruppo del “pungolo” presentò alla fine un documento-mozione firmato da Dossetti, Lazzati e Fanfani da cui poi nacque, se vogliamo, la sinistra Dc. Quella dei cattolici democratici e quella autenticamente laica e in rispettosa autonomia dalla Chiesa. Anche la Lega democratica di Scoppola maturò inizialmente idee separatiste. Poi una volta superato il referendum sul divorzio, con estremo realismo ci ripensò e rimase dentro la Dc da pungolo, appunto , e da “…esterna”. Sconfitta o alla lunga e sino all’Ulivo vincitrice , non lo so dire. Registro invece che Savino Pezzotta rispondendo a Franco Monaco ha auspicato un “riferimento metodologico “ alla Lega Democratica per non fare morire del tutto il cattolicesimo democratico. Una Lega Democratica 2.0 ? Non mi sembra una proposta irrilevante. Forse su questo sito C3dem dovremmo iniziare a parlarne, scontando l’irrilevanza politica dei numeri, ma non quella culturale. E scontando l’autoreferenzialità dei cattolici democratici e delle loro associazioni che hanno sempre pensato alla propria parrocchia al posto di fare gruppo e seminare quel poco (o tanto) di umanesimo integrale rimasto ancora nelle nostre comuni radici. Un conforto inaspettato ci arriva da un marxista della prima ora, da un duro e puro operaista come Mario Tronti. Nel suo ultimo libro “Dello spirito libero. Frammenti di vita e pensiero” , ci avverte che nella società in cui viviamo sono assenti “le grandi domande di senso” e che è proprio la politica ad aver bisogno di “ più spiritualità” , e che deve rivolgere il suo sguardo verso la religione . In particolare verso la religione cristiana, perché: ”…la vera libertà umana …è la libertà del cristiano” . Parole di un autentico laico. Ma per rimanere all’interno del Pd come pungolo politico e culturale, oppure per separarsi consensualmente? Da buona meridionale mia madre ripeteva sempre che un piccolo cucchiaino di zucchero – non tanto… basta poco… rimarcava – messo dentro una tazza di caffè , rende più dolce il caffè e lo fa gustare meglio.
Ps. Ho scritto ieri questo commento, poco prima della partita Belgio Italia. L’intenzione era quella di rivederlo stamattina e postarlo. Sono poi arrivate le notizie da Parigi che mi hanno tenuto sveglio parecchio tempo facendomi addormentare da parigino. Di fronte a questa tragedia avevo pensato di soprassedere, essendo ora altri i problemi in agenda politica. Lo invio lo stesso. E mentre il mio pensiero va a tutta Parigi e a tutta la Francia, lo accompagno dalla constatazione che dopo la notte del 13 novembre parigino, anche per l’Italia nulla sarà come prima. Ma proprio per questo occorrerebbe un sussulto più unitario di prima. (n.l.)