Teologia da un lato, dall’altro esperienze di vita comunitaria e di fede vissuta come ricerca più che non come “possesso”, impegno militante nell’agone politico costituiscono i poli di riferimento del ’68 dei cattolici. Non è stata una parentesi senza conseguenze: da quella stagione di tensioni l’intero cattolicesimo italiano uscì trasformato in modo irreversibile. Ed è anche grazie al ’68 che possiamo continuare a sperare che il futuro non sia morto, ma stia solo riposando in una nuova, lunga incubazione.
Per gradita concessione dell’autore pubblichiamo un articolo che è stato scritto per l’ultimo numero della rivista “Orientamenti pastorali”.
Cinquant’anni ci separano dal ’68: un’eternità, considerando la brevità dei nostri giorni e l’imperante presentizzazione del tempo. L’occasione è comunque propizia per opportuni ripensamenti e doverosi bilanci. In effetti assistiamo a una profluvie di iniziative: convegni, trasmissioni televisive, pubblicazioni in sede storiografica e memorialistica, inchieste e ricostruzioni giornalistiche. Persino Papa Francesco non si è sottratto a un richiamo evocativo che suona come un giudizio critico assai penetrante. L’8 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico, il Pontefice, con riferimento ai diritti umani a settant’anni dalla Dichiarazione dell’Onu, ha inteso sottolineare come “occorre […] constatare che […] soprattutto in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di ‘nuovi diritti’ non di rado in contrapposizione tra loro”. Una lettura che meriterebbe adeguati approfondimenti, ma che suggerisce l’idea tanto di una ambiguità di fondo del ’68 quanto della complessità di un fenomeno suscettibile di contrastanti interpretazioni. A partire dalla sua esplosione fino al suo prolungamento: dal ’68 evento – in realtà il ’67 del Vietnam, il ’68 degli studenti, con le sue fasi di incubazione, esordio, apogeo, agonia, il ’69 degli operai – al ’68 processo, che si estende agli anni ’70, i cupi e bui anni di piombo dominati dall’assolutizzazione dell’ideologia, dalla frammentazione delle sigle dovuta alla proliferazione delle formazioni partitiche extraparlamentari, dal rumore lugubre delle armi.
Per non dire del decennio successivo: la modernità che il ’68 ha contribuito a promuovere – non soltanto, dunque, l’ultima rivoluzione romantica, ma la prima della contemporaneità – si traduce in spensieratezza, anomia, competizione utilitaristica, irresponsabilità, allorquando il successo diventa misura del valore e l’assalto al cielo si trasforma in esasperato agonismo per primeggiare, mentre la presa d’atto che le utopie non si sono avverate si traduce frequentemente in una pratica complice, in una concezione arresa dell’esistenza.
Ebbene si può parlare di un “’68 cattolico”, come pure qualcuno ha teorizzato a partire dalla constatazione, in verità assai discutibile e comunque esagerata, che il ’68 nasce cattolico, che cattolici sono i primi leaders del “movimento” e cattolica una tra le prime università occupate, nel tardo autunno del 1967 a Milano? L’interrogativo andrebbe piuttosto riformulato nei termini di quale ruolo, quale declinazione, quale apporto da parte degli studenti cattolici –il ’68 prende le mosse nelle università e poi rapidamente si propaga negli istituti della scuola secondaria superiore– al “movimento”, alla contestazione, alle agitazioni di un anno che uno dei suoi principali protagonisti, Mario Capanna, non esita a definire “formidabile”. Studenti certamente, ma pure teologi, intellettuali, docenti, giornalisti, sacerdoti, settori della comunità ecclesiale, esponenti dell’associazionismo, del “sociale bianco”, del sindacalismo.
Il ’68 attraversa il mondo cattolico, portando a maturazione processi la cui incubazione ha inizio con la “rivoluzione conciliare” di Giovanni XXIII e che nella Populorum progressio di Paolo VI trovano conferme e ulteriore slancio; alimenta nuove esperienze destinate a segnare la vita stessa della Chiesa, gli orientamenti del magistero, il vissuto del “popolo di Dio”; determina la trasmigrazione nel “movimento” di nutrite schiere di aderenti all’Azione cattolica, alla Fuci, alla stessa Gioventù studentesca fondata da don Luigi Giussani; produce laceranti contrasti e divisioni tra gerarchia e comunità di base. Spesso comuni, condivisi con gli studenti che provengono da esperienze di matrice laica o che hanno militato nelle formazioni politiche e nell’associazionismo goliardico della sinistra, nonché con quanti, nativi, per la prima volta si affacciano sulla scena della protesta e della lotta, sono i temi che vengono agitati e caratterizzano l’esperienza sessantottina dei giovani cattolici: l’antiautoritarismo innanzitutto, il rifiuto della delega in nome di una democrazia assembleare, diretta, partecipata; la critica all’università come luogo di trasmissione di un sapere depositato, atto alla riproduzione selettiva di gerarchie consolidate e alla divisione in classi della società; la denuncia dell’uso indolore e sofisticato della manipolazione intellettuale; la coltivazione – la “fantasia al potere” – delle utopie più ardite, di ripulsa della razionalità tecnologica, dell’alienazione consumistica; il rigetto esistenziale, che rimanda ad un conflitto intergenerazionale, del modello basato sulle tre M, “mestiere, moglie, macchina” cui si accompagna una trasformazione dei costumi e degli stili di vita che attengono alla sfera delle relazioni interpersonali e del rapporto tra i sessi. Soprattutto la reductio ad unum che tutto accomuna e ricomprende: la lotta al capitalismo, alla sua matura affermazione, alle sue pratiche di assoggettamento, ai suoi meccanismi di legittimazione, alle sue forme di istituzionalizzazione delle “libertà e della democrazia borghesi”, un “capitalismo di rapina”, che crea le proprie fortune facendo leva sulla divisione del lavoro, nonché sui meccanismi di scambio ineguale e di sfruttamento del Nord a discapito del Sud del mondo.
Naturalmente, alla luce di una disamina condotta con lente più ravvicinata, andrebbero rivisitate le molteplici storie locali del ’68 – peraltro un fenomeno a dimensione internazionale – al fine di evidenziarne caratteri, tipicità, impostazioni politico-ideologiche: quella torinese e trentina del “potere studentesco”, quella di matrice spontaneista, movimentista dalla Cattolica milanese, quella operaista-sindacalista elaborata attraverso le Tesi della Sapienza dell’università di Pisa, quella d’impronta marcatamente marxista-leninista della Statale di Milano, quella radicalmente classista di alcuni atenei del Centro e del Mezzogiorno (Roma, Napoli, Palermo, Cagliari). La parola d’ordine unificante è contestazione globale, senza passaggi graduali e intermedi, senza l’inseguimento di conquiste parziali. Miti dissacranti e nuove mitologie. All’orizzonte una nuova totalizzazione.
Certamente molteplici sono gli attraversamenti di campo culturale, gli incroci delle letture cui i sessantottini si abbeverano, nonché le varie forme di acculturazione. Tuttavia se i teorici dell’operaismo nostrano eterodosso, la sociologia francofortese, il pensiero negativo, Adorno e Marcuse, la vulgata marxista classica e il neomarxismo, Reich e l’universo della psicanalisi, Mills e la critica della burocratizzazione, Fanon e Mao, poi, negli sviluppi successivi più radicali e estremi, Lenin e persino Stalin costituiscono, per ampi settori del mondo giovanile studentesco, il riferimento al quale nutrirsi, per i giovani cattolici le fonti di ispirazione sono prevalentemente altre e riconducibili a diversi versanti.
In parallelo alla crisi del progetto di “nuova cristianità”, di riconquista cristiana della società e dello Stato, le acquisizioni conciliari non costituiscono solo un fattore di indubbio rinnovamento religioso, ma, attraverso il dialogo con il mondo contemporaneo, con la modernità, dialogo già avviato con la Pacem in terris, aprono inedite prospettive di presenza e d’impegno al laicato cattolico, innestando su di una spiritualità più consapevole e matura esigenze di cambiamento e di trasformazione dei rapporti sociali e della vita pubblica. Riviste come “Il gallo” con le sue aperture al confronto con la cultura marxista e l’invocazione dell’esigenza di una “rivoluzione morale”, come “Testimonianze” e “Questitalia” dirette rispettivamente da padre Ernesto Balducci e da Vladimiro Dorigo, con la loro puntigliosa “distinzione dei piani”, con la ferma opposizione a una meccanica trasposizione dei principi di fede sul piano politico, nonché col richiamo alla necessità di una laica mediazione storico culturale, sino al rigetto di ogni forma di integrismo e alla rivendicazione dell’autonomia politica dei cattolici, in polemica con il “dogma” della loro unità in un unico partito – la Democrazia cristiana –, rappresentano realtà significative all’interno del magma culturale cattolico del ‘68. Le suggestione evangeliche, pacifiste, pauperiste – la “Chiesa dei poveri” – la critica alla identificazione tra Chiesa e civiltà occidentale, la chiamata in causa della struttura gerarchica, l’insistita sottolineatura della vocazione profetica della Chiesa, della sua dimensione pellegrinante, un saldo ancoraggio alla concretezza storica dei più urgenti problemi di un Paese alle prese con una modernizzazione contraddittoria e irrisolta e, ancora, la volontà di riappropriazione della parola come viatico all’ascolto della Parola, la spinta utopica, ispirata ad una escatologia incoativa, quanto alla realizzazione del Regno e, per un altro verso, il permanere di una tensione antistatuale come eredità di lunga ascendenza, tipica di certo cattolicesimo antiliberale, sono tutte espressioni che, al di là di dati biografico-sociologici, di formazione o di provenienza, rendono il segno della presenza cattolica al “movimento” del ’68. Certamente don Primo Mazzolari e la rivista “Adesso” con l’aspirazione ad una “rivoluzione cristiana”, con l’affermazione del diritto all’obiezione di coscienza, con la rivendicazione egualitaria e antiborghese e don Lorenzo Milani, occupano un posto di rilievo nella contestazione studentesca, e non solo di matrice cattolica, come documenta una pubblicazione del gruppo “Il Potere operaio” di Pisa, pubblicazione per i tipi di Feltrinelli, l’editore per antonomasia della sinistra radicale, in cui testualmente si sostiene che “l’unico punto fermo positivo [è] rimasto, per quanto riguarda la scuola, la decisione di partire da Lettera a una professoressa, la cui impostazione [dà] sufficienti garanzie di conoscenza”. Documentata denuncia del carattere classista della scuola che fa “parti uguali fra disuguali”, rifiuto della selezione, padronanza della parola e della scrittura sottratte al “privilegio borghese” delle classi più abbienti, consapevolezza che “il problema degli altri è uguale al mio”. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”: sono cavalli di battaglia e parole d’ordine di don Milani e dei suoi ragazzi che come scrive un protagonista di allora, esponente di “Lotta Continua”, a lungo parlamentare e oggi autore di una rivisitazione d’insieme del ’68 – Marco Boato – fanno unitamente all’ I care scritto su una parete della scuola di Barbiana, una miscela esplosiva “dall’impatto maggiore” sul ’68 “che non i testi di Marx o di Marcuse”. Una presenza nel “movimento” prima, poi nei gruppi extraparlamentari, un afflusso nelle file del Pci che talora precedono e più spesso accompagnano la contestazione ecclesiale da parte di quello che è stato definito “dissenso cattolico”, animato da gruppi spontanei e da comunità di base. Teologia da un lato, dall’altro esperienze di vita comunitaria e di fede vissuta come ricerca più che non come “possesso”, impegno militante nell’agone politico infine, costituiscono i poli di riferimento. Essi alimentano elaborazione e pratiche dei sessantottini cattolici e dei loro epigoni presenti e operanti nelle diverse realtà dell’universo associazionistico e dello stesso mondo ecclesiale. Oltre i miti di Camilo Torres, il prete guerillero boliviano, o di Ernesto Che Guevara, è soprattutto la teologia latinoamericana a suscitare interesse e appassionamento –da Rubem Alves a Frei Betto, a Leonardo Boff, da Gustavo Gutierrez a Ivan Illich, al vescovo Helder Camara-, ma molteplici sono gli autori che esercitano un’indubbia influenza sui protagonisti del ’68: accanto agli italiani Mario Cuminetti, Giulio Girardi, Vittorino Joannes, Italo Mancini, Arturo Paoli, Adriana Zarri, a personalità “irregolari” come Camillo De Piaz e David Maria Turoldo- su di loro la bellissima testimonianza di Remo Cacitti a proposito del ’68 in università Cattolica a Milano- si annoverano teologi come Fernando Belo, Dietrich Bonhoeffer, Jean Cardonnel, Harwey Cox, Josè Maria Gonzalez Ruiz, Hans Küng, Baptist Metz, Jurgen Moltmann, lo stesso Joseph Ratzinger, nonché un personaggio per più versi anomalo come il filosofo francese Roger Garaudy. E molti altri si potrebbero richiamare. Teologia del mondo, della speranza, della liberazione, della secolarizzazione, teologia radicale, ecclesiologia postconciliare, i filoni di supporto teorico-culturale dei gruppi della diaspora e del progressismo di una sinistra cattolica che presenta tratti inediti rispetto a quella pur presente nel secondo dopoguerra, e che si avvia a una percorso lungo il quale dovrà misurarsi, tra molteplici incertezze e difficoltà, con processi accentuati di secolarizzazione, nonché con trasformazioni culturali, politiche e sociali desinate a mutare profondamente il volto del Paese.
Tensioni da tempo diffuse nel cattolicesimo italiano a lungo compresse, dopo una fase di fermentazione, ora sotterranea ora palese, trovano nel ’68 le condizioni per venire alla luce, talora in modo esplosivo. E’ il caso della predicazione del “controquaresimale” sul sagrato della cattedrale di Trento, poi dell’occupazione del duomo di Parma. Proliferano comunità che si aggregano a livello territoriale sulla base di esplicite motivazioni di impegno da vivere tanto a livello di fede che della vita sociale. Dall’Isolotto a Firenze, da Sant’Egidio e dal monastero benedettino di San Paolo fuori le mura a Roma, dalla comunità di Bose, nata in precedenza, ma radicatasi nel ’68, a quella di via Vandalino a Torino, a quella del quartiere di Oregina a Genova, dell’Incoronata a Milano, di San Nazaro a Brescia, di Conversano in Puglia, di Lavello in Basilicata, di Gioiosa Jonica in Calabria, per citare le più note. Meditazione in presa diretta delle fonti testamentarie, compreso l’Antico Testamento – per certi versi una innovazione nell’ambito della cultura religiosa italiana –, esaltazione del mito delle origini cristiane come modello cui tornare per recuperare l’innocenza perduta e l’autenticità della vita cristiana retta sulla koinonìa, inedite sperimentazioni liturgiche, tensioni con l’autorità ecclesiastica, fino alla polemica spesso frontale e dura con la gerarchia cui si imputa di aver tradito lettera e spirito del Concilio, dialogo interreligioso ed ecumenico, presenza attiva nelle situazioni più varie della marginalità e del disagio sociale degli “ultimi”, sostegno alla presenza missionaria, solidarietà – una sorta di globalizzazione religiosa – con le lotte di liberazione del Terzo mondo.
Una solidarietà declinata ora in nome di un pacifismo militante, ora di un internazionalismo antimperialista che non esclude la legittimazione del ricorso alla “violenza rivoluzionaria” sulla base di motivazioni anche teologiche che talora prendono le mosse da alcuni passaggi della Populorum progressio: queste, in sintesi, le tematiche di fondo che connotano vissuto e esperienze, pur con diverse, persino forti, differenziazioni tra le stesse comunità, lungo sviluppi di progressiva radicalizzazione. Sino a una condizione di estraneità rispetto alla “nazione cattolica” e di minoritarismo quanto alla collocazione politica. La critica alla Democrazia cristiana, sia in quanto espressione della “forzata unità politica” dei cattolici, sia come perno del “sistema di potere”, la polemica nei confronti del collateralismo praticato dall’associazionismo, tanto sindacale quanto di rappresentanza di interesse, la contaminazione tra pulsioni di riforma religiosa e aspirazioni palingenetiche di segno anticapitalistico, sono all’origine di una pluralità si scelte e di dislocazioni politiche. Da uno stretto contatto con il movimento operaio di ispirazione socialcomunista, alla presenza all’interno del variegato universo della sinistra extraparlamentare. Non senza il tentativo di dar vita a forme autonome di presenza. E così tra il 1969 e il 1970 le Acli optano per una “scelta di classe” e poi per una “scelta socialista”, i metalmeccanici della Cisl si rendono protagonisti della Flm (Federazione dei lavoratori metalmeccanici) unitaria; il Movimento politico dei lavoratori (Mpl) capeggiato da Livio Labor, si presenta alle elezioni del 1972 –subendo per altro una sonora sconfitta–; nel settembre del 1973 si tiene a Bologna il primo congresso nazionale del movimento “Cristiani per il socialismo” originario del Cile di Allende e di cui il salesiano Giulio Girardi è il principale ideologo. Nel complesso tentativi i cui esiti sono o di breve durata o destinati a traversate senza sbocco o alquanto travagliate.
Il ’68, anche quello dei giovani, o meno giovani, cattolici vale per i temi che ha sollevato, i problemi che ha aperto, le attese e le speranze che ha suscitato in “terre nuove” e “cieli nuovi”, più che non per le risposte che ha dato o per le illusioni che ha promosso. Per le contraddizioni che ha messo a nudo e determinato, al di là del fatto che le ha rappresentate con i rituali propri del discorso ideologico, di quella ideologia che ha corroso la generosità di una generazione e che, forse, meno ha condizionato quanti, proprio in virtù della loro ispirazione cristiana, della loro fede, hanno mantenuto vigile e non sopita la coscienza di un limite, di un principio di relativizzazione di ogni forma di assoluto. Peraltro contribuendo a mantenere viva, in un epoca di incipiente mondanizzazione secolarizzante, la domanda religiosa sul senso e sulla presenza del “totalmente Altro”, sullo “scandalo” dell’Incarnazione, della Croce e della Resurrezione. Al di là delle vie di fuga, dell’aspirazione utopica di dare vita dal basso ad un’“altra Chiesa” scevra dalle ipoteche dell’ “era costantiniana” per citare uno dei mantra del gauchisme chrétien. Almeno un esempio: sono numerosissimi i giovani cattolici che, a poca distanza temporale dal congresso fucino celebrato a Verona nel 1969, marciano per le vie della città scaligera in una manifestazione indetta per denunciare all’opinione pubblica la drammatica situazione del Terzo mondo, lanciando lo slogan “la Chiesa sarà il nostro Vietnam”. Gli stessi tragitti umani, culturali, politici dei militanti, i loro percorsi di vita che hanno imboccato le direzioni più disparate – chi oggi integrato e chi sempre alla ricerca di alternative, chi animato da una disposizione riformista e chi sempre all’opposizione e “contro”, chi incapace di accettarsi e chi in esilio da sé stesso –, non consentono, come si è detto, una interpretazione univoca.
Resta tuttavia indubitabile il fatto che, come è stato giustamente osservato, pure il ’68 dei cattolici non ha costituito “una parentesi senza conseguenze”: da quella stagione di tensioni “l’intero cattolicesimo italiano –anche nelle sue componenti più refrattarie al cambiamento- uscì trasformato, e trasformato in modo irreversibile”. In definitiva nulla è più come prima. Anche grazie al ’68 possiamo continuare a sperare che il futuro non sia morto, ma stia solo riposando in una nuova, lunga incubazione. Appunto, come allora cantava Francesco Guccini: “ma penso/ che questa mia generazione è preparata/ a un mondo nuovo e a una speranza appena nata/ ad un futuro che ha già in mano/ a una rivolta senza armi/ perché noi tutti sappiamo/ che se dio muore è per tre giorni e poi risorge/ in ciò che noi crediamo, dio è risorto/ in ciò che noi vogliamo, dio è risorto/ nel mondo che faremo, dio è risorto”.
Paolo Corsini
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