I miei ricordi di Salvatore Buzzi sono sfocati. Già allora, quando iniziai a fare il consulente dell’assessorato alle politiche sociali, alla fine del ’93, lui era il presidente della cooperativa sociale 29 giugno. Ex detenuti. Si era all’inizio del primo mandato di Francesco Rutelli a sindaco di Roma. Assessore ai servizi sociali era stato nominato Amedeo Piva. Già allora, questo lo ricordo bene, di Buzzi si diceva che era una figura un po’ particolare. Non credo che sapessi che era stato in galera per omicidio. Il fatto era che aveva un modo poco trasparente di operare. Poi il suo era un ambiente duro, difficile, a volte un po’ losco. Però a me era anche chiaro che lui operava in un settore importante, portando avanti un’attività di forte valore sociale. Offrire un’opportunità di riscatto a chi era stato in carcere, una possibilità di reinserimento e di lavoro, era un’attività sociale preziosa.
Negli otto anni che sono stato al dipartimento delle politiche sociali di via Merulana ho incontrato raramente Salvatore Buzzi. Un po’ perché le attività da seguire erano tante, un po’ perché il settore delle carceri non era considerato certo una priorità, e un po’ anche perché la cooperativa 29 giugno mi sembrava che preferisse agire dietro le quinte. Altri soggetti, almeno allora, avevano più visibilità in quel settore. Per esempio il volontariato vincenziano, o anche, su un altro versante, associazioni come Ora d’aria, nata in un’area che era stata vicina ai brigatisti rossi e che, finita l’epoca della violenza, aveva prodotto alcuni percorsi di intervento sociale dentro e fuori le carceri assai ben fatto.
Mi sono chiesto, in questi giorni, dopo aver lasciato quasi del tutto il lavoro sociale ormai da una dozzina di anni, che cosa possa aver portato gente come Salvatore Buzzi e la sua cooperativa a finire dove è finita. Le risposte possibili sono molte. Ne vorrei indicare una che mi sembra non trascurabile. Negli anni Novanta alcuni interventi sociali erano gestiti a livello centrale, e non municipale. Così era per la questione detenuti, come anche per la questione nomadi. Così pure accede va per i senza fissa dimora. E, in quegli anni, anche per l’immigrazione. Al dipartimento di via Merulana chi si occupava di questi problemi era uno sparuto gruppo di operatori, più di competenza amministrativa che di competenza nell’assistenza sociale. Operatori per lo più scarsamente qualificati, in numero assolutamente esiguo, e che agivano in quasi totale scollamento rispetto a tutti gli altri settori. Poi c’era il livello dirigenziale, che allora era composto da alcune persone di valore (più di quanto non sia avvenuto negli anni seguenti e fino ad oggi), ma spesso anche molto autoreferenziali. Sopra di loro c’era l’assessore e poi il consiglio comunale. Ma il tempo, lo studio, la cura dedicati a questi settori erano briciole. Dapprima anche i soldi erano briciole. Poi i soldi sono andati aumentando, quasi sempre soltanto in base alle emergenze (l’emergenza freddo, l’emergenza nomadi, l’emergenza immigrati, oggi l’emergenza rifugiati…), ma non mi risulta siano aumentati allo stesso modo lo studio, la cura, l’attenzione di dirigenti e operatori comunali. Altrimenti, per fare solo un esempio, non si capirebbe come finanziamenti, anche ingenti, per gestire campi rom, o fare le pulizie nei parchi, o gestire mense, attraverso il lavoro di cooperative sociali che inseriscono soggetti svantaggiati, possano creare “profitti” che alcuni dirigenti corrotti usano per far regali ai politici e ingrassare se stessi. Non si controlla l’uso dei soldi? Non si verifica l’appropriatezza degli interventi? Non si verificano i risultati? Non si discute e non si fa ricerca sulle buone prassi?
Io credo che è nel vuoto di progettazione pubblica, di analisi sociale, di strumenti di controllo e di valutazione, di sedi e momenti di confronto e di coordinamento, che la delega degli interventi al cosiddetto terzo settore, cioè in particolare alle cooperative sociali, si è ridotta nel corso degli anni alla pura e semplice distribuzione di soldi e ha consentito che pratiche sempre più disinvolte, sempre più distorte, potessero prendere piede. Già le lentezze burocratiche, la precarietà dei finanziamenti, l’ottusità di certe regole e procedure determina nel terzo settore atteggiamenti di (comprensibile) ostilità verso l’amministrazione pubblica. Se poi a questo si unisce anche la delega in bianco, il disinteresse, l’assenza di ogni dialogo serio sugli obiettivi e di valutazione dei risultati, ciò vuol dire aprire la strada a possibili deviazioni e al malaffare.
Dare poca importanza alle politiche sociali, soprattutto nei settori della maggiore emarginazione, non formare e destinare dirigenti competenti alla guida di questi servizi, non valorizzare il personale e non dotarlo di strumenti adeguati è una responsabilità, in ultima analisi, della politica. A mio avviso è la responsabilità più grave. Il fatto che nei politici, per lo più, non ci sia questa sensibilità e questa intelligenza del sociale è un segnale evidente della loro inadeguatezza al ruolo che ricoprono. E’ su queste questioni che credo si dovrebbe discutere. Cioè su come migliorare la formazione e la selezione della classe dirigente, politici e funzionari pubblici. Far caciara, invece, sulle foto in cui un politico partecipa a una cena in cui c’è anche un imprenditore discusso è tempo del tutto sprecato.
Giampiero Forcesi