“Questa è la giornata dell’America, della democrazia, della storia, della speranza. La democrazia ha prevalso”. Joe Biden, il 20 gennaio, ha giurato da presidente degli Stati Uniti sulla Bibbia di famiglia, in una Capitol Hill blindata ma solenne, con poche centinaia di presenti, distanziati e composti. Una cerimonia che è stata lo specchio di quell’America democratica, multietnica, unita e alleata dell’Europa, che il neo presidente ha detto di voler ricostruire. Un’America dal volto femminile, come quello di Kamala Harris, prima vicepresidente donna della storia statunitense, e delle altre sette donne, tutte di etnie diverse, che si sono avvicendate sul palco. Poi la vicinanza della politica nazionale ed internazionale, con la sfilata delle coppie presidenziali sotto le grandi bandiere srotolate lungo le pareti del Campidoglio, dai coniugi Clinton, al repubblicano George W. Bush, fino agli amici, Barack e Michelle Obama.
Manca Donald Trump a Capitol Hill, volato in Florida poche ore prima della cerimonia, e mai nominato da Biden nel suo discorso d’insediamento. Assenza che incombe come un’ombra, a raffreddare gli entusiasmi per quegli appelli all’unità lanciati più volte dal democratico. “In qualche modo torneremo”, ha detto Trump alla stampa dando l’addio alla Casa Bianca, ancora non rassegnato alla sconfitta. I messaggi ambigui dell’ex presidente si legano l’uno all’altro come una corda rossa, che in quattro anni ha spaccato a metà gli Stati Uniti, e che passa, ancora una volta, per Capitol Hill. Solo due settimane prima del giuramento di Biden, negli stessi corridoi ripuliti e decorati, l’assalto dei manifestanti pro Trump al Congresso, con le minacce ai rappresentati del parlamento e la sospensione dei lavori per la ratifica della vittoria del candidato democratico. In una manciata di minuti, nel sacrario della democrazia americana, nel giorno dell’Epifania, si è consumato il colpo al cuore degli Stati Uniti, il turning point della storia americana.
Ora c’è un nuovo governo, che ha accettato la sfida di rappresentare anche i più scettici. Biden, pronto a mettere in primo piano la lotta alla pandemia, nel giorno uno del suo mandato presidenziale ha introdotto l’obbligo di distanziamento sociale e di mascherina nelle aree di giurisdizione federale. In primo piano sull’agenda del democratico anche la questione ambientale, e sono già stati firmati provvedimenti in cui Washington chiede ufficialmente di rientrare negli accordi globali sul clima di Parigi e nell’Organizzazione mondiale della Sanità. La strada per rimettere insieme i pezzi di una nazione illusa per anni, e non solo negli ultimi quattro dell’era Trump, dal mito dell’”America great again”, però, ha salite vertiginose.
Dall’Oregon al Maine, non sarà facile per la squadra di Biden combattere i tarli del suprematismo bianco, del razzismo e della lotta silenziosa ma violenta all’immigrazione. Non basterà fermare la costruzione del muro al confine con il Messico, come già voluto dalla nuova amministrazione (attenzione: fermare i lavori, non vuol dire necessariamente rimuovere le barriere). Per strappare via gli Usa dall’isolamento in cui è stata costretta, Biden cercherà di ridare stabilità alla democrazia in un contesto di amicizia internazionale. Con l’Unione europea le mani sono già strette, nella comune volontà di tornare alleati e rafforzare il patto transatlantico. Dall’altra parte, però, c’è un ex presidente, Donald Trump, che non ha mai condannato le immagini dell’assedio al Campidoglio da parte dei suoi sostenitori. Anzi, ha strizzato loro l’occhio con la richiesta di fermare le violenze, dopo averli incitati a non accettare i risultati dell’elezione. Nel mezzo sopravvive una nazione ferita, tra sospiri di sollievo e speranze di rinascita, sussulti rivoluzionari e trumpismo latente.
L’errore più grande che potrebbe commettere il nuovo presidente, dunque, è quello di progettare sulle macerie, senza prima voltarsi a fare i conti con quello che resta indietro. L’America del 2021 è davvero quella che immaginiamo noi? Come possiamo, da europei, prevedere cosa accadrà nel futuro degli Usa, e quindi nel nostro, se è vero che, come scrive Francesco Costa nel suo primo libro Questa è l’America (Mondadori) , «esistono pochi posti nel mondo (come gli Usa) in cui il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio»? Costa è un giovane cronista e dal 2015 cura un progetto sugli Stati Uniti, e la politica americana, che si chiama da “Da Costa a Costa”, con una newsletter settimanale e un podcast. Lo scorso 19 gennaio, appena prima dell’Inauguration Day, è stato pubblicato il suo secondo saggio proprio sulla presidenza Biden, Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire (Mondadori). Il bello di ciò che scrive, e racconta, Costa, è che riesce a spiegare in profondità e a bloccare sul nascere le frasi fatte e le conclusioni affrettate di un europeo che guarda i fatti d’America. Perché il pericolo del trumpismo e della crisi sociale è reale ma, come ricorda il giornalista nel suo ultimo podcast, «le sue origini vanno cercate però molto indietro nel tempo, tanto da farci chiedere se ci troviamo di fronte all’inizio o alla fine di qualcosa, e se non mettano in discussione i principi su cui due secoli e mezzo fa furono fondati gli Stati Uniti».
Che tempi attendono l’America di Joe Biden?
Anche prima della pandemia gli Usa stavano passando uno dei momenti più complicati della loro storia, a causa di una serie di problemi divenuti, anno dopo anno, sempre più gravi, anche per l’incapacità di Washington di intervenire. Dall’immigrazione alle disuguaglianze economiche, alle poche opportunità che esistono in moltissime parti d’America, al razzismo sistemico, alla crisi climatica, al ruolo dell’automazione nella deindustrializzazione e nella perdita dei posti di lavoro. A questo aggiungiamo la pandemia, che continua ad essere in una fase molto grave anche negli Stati Uniti e il fatto che un pezzo molto minoritario, ma non irrilevante, della popolazione non ha più fiducia nella democrazia americana, perché Trump li ha convinti, nonostante non ci sia alcuna prova, che queste elezioni siano state truccate. Se mettiamo insieme tutto questo, beh sì, Biden si troverà di fronte ad una sfida difficilissima, colossale, davanti alla quale a chiunque tremerebbero le gambe.
Capitol Hill potrebbe essere il simbolo concreto della fine di un pezzo di storia e dell’inizio di una epoca nuova. Quale lezione dovrebbero imparare le democrazie europee dai fatti dello scorso 6 gennaio?
Secondo me ci sono due lezioni che le democrazie europee possono, e dovrebbero, trarre dai fatti del 6 gennaio, la prima è che le elezioni hanno delle conseguenze, e quindi dobbiamo pensare e valutare molto bene noi elettori prima di scegliere a quali persone dare l’enorme responsabilità di governare il Paese. E quando per rabbia, ignoranza, o superficialità ci capita di scegliere persone che non hanno grandi esperienze precedenti, o che si sono fatte strada semplicemente attraverso una retorica aggressiva e rabbiosa, non puoi che aspettarti che governino di conseguenza. La seconda lezione è che le parole sono armi molto potenti, e producono effetti concrete. Donald Trump ha parlato per due mesi della necessità di combattere per riprendersi il Paese e tanti dei suoi sostenitori lo hanno preso in parola.
Il 13 gennaio è stata avviata la seconda procedura di impeachment per Donald Trump. Un presidente per due volte sotto accusa: è stata un’azione solo simbolica o davvero necessaria?
In duecentoquaranta anni di storia americana non era mai successo che il trasferimento dei poteri non avvenisse in modo pacifico, così come non era mai capitato che un presidente degli Stati Uniti, o un candidato sconfitto, non accettasse la sconfitta, e decidesse di restare al potere a qualsiasi costo, destabilizzando la democrazia. Non era mai successo che un gruppo di americani attaccasse il Congresso. Tutto questo resterà nei libri di storia per secoli e il Parlamento americano non poteva non punirlo: era necessario aggiungere a questi libri di storia anche qualche riga su come reagì il Congresso. In passato sono stati messi sotto impeachment presidenti per cose infinitamente meno gravi, come aver mentito su una relazione extraconiugale. Il Congresso è stato costretto a reagire, non poteva fare diversamente. Certo il tempo è poco prima che Trump se ne vada, ma questo è uno di quei casi in cui non si può creare un precedente per cui un assalto armato a Capitol Hill, e la destabilizzazione della democrazia americano, non producono alcuna conseguenza.
a cura di Agnese Palmucci