Il termine popolo, tanto caro a papa Francesco, è ancora valido?

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Nonostante che il Papa parli ripetutamente di popolo, da ultimo nella sua recente enciclica, questo termine continua ad essere del tutto trascurato; non riesce ad entrare nel nostro linguaggio politico.

Ma, anche se sembra scomparso, questo popolo deve pur esserci da qualche parte, se si fa così tanto parlare di populismo e se, immancabilmente, in tutte le elezioni ci si lamenta che la sinistra guadagni voti fra i ceti medi riflessivi e li perda fra gli strati “popolari”.

Il problema popolo nasconde una questione, anzi forse la questione più seria della politica attuale: come rivolgersi a una moltitudine di individui isolati, data la sparizione dei partiti di massa e la debolezza esangue dei cosiddetti corpi intermedi.

Ci si deve rivolgere a una generica opinione pubblica – sempre influenzata da eventi transitori, dai messaggi dei mass media, dallo influencer di turno, da promesse demagogiche – oppure è possibile rivolgersi a entità collettive realmente significative? E il popolo non è una categoria utile a questo riguardo?

Non è facile definire il popolo ed è lo stesso Papa a mettere le mani avanti: sarebbe frustrante ricercare una definizione “scientifica”, razionale.

Il Papa suggerisce che si tratta di una espressione mitica, che non significa vaga e astratta, ma che esprime piuttosto un contenuto potenziale, un orizzonte ideale, una tensione.

Il grande vantaggio di questo orientamento è che consente di includere nell’idea di popolo sia una dimensione universale (è rivolta a tutti, nessuno escluso), sia un accento particolare per la sua parte più bisognosa (gli strati “popolari”).

Il popolo, o meglio i popoli, rivestono poi il carattere di soggetti attivi: lo affermava già Paolo VI nella “Populorum progressio”. Lo ribadisce oggi con forze l’enciclica “Fratelli tutti”, la quale si lamenta che si attuino politiche per i poveri, ma mai coi e dai poveri e con progetti che uniscano i popoli.

Quando si parla di pace si pensa ad accordi tra stati e governi e non si pensa ai popoli: ma come è possibile, ad esempio, pensare a un accordo tra Israele e Palestina, se i due popoli continuano a odiarsi?

Naturalmente la partecipazione del popolo non è scontata, va promossa e si devono creare le condizioni che la favoriscono: non si può pensare di cambiare la società senza cambiare le persone e viceversa.

Venendo al mondo cattolico, non va dimenticato che quando Leone XII ha promulgato la “Rerum Novarum” ha sì compiuto un atto storico, dando inizio al movimento sociale cattolico, ma non certo senza una grande sofferenza: con quell’atto riconosceva di non rivolgersi più all’intero popolo, ma solo a una parte, al popolo cattolico, una parte tra le altre.

Si trattava di una decisone inevitabile, per la formazione sempre più minacciosa di forze avverse, ma i papi hanno ben presente il problema e da allora continuano a proporre un discorso universale, che arrivi a tutti, che comprenda ogni popolo.

Naturalmente il popolo di Dio è inserito nel popolo umano e fra loro vi è uno scambio reciproco fruttuoso; il popolo cristiano porta (o dovrebbe portare) uno spirito che illumina la vita umana, il popolo offe la ricchezza della vita quotidiana e sociale con tutti i loro problemi, la vita reale che deve trovare un senso anche spirituale.

Questo scambio, questo legame, oggi soffre molto.

Le masse sono orfane di un grande orizzonte di speranza come era quello rappresentato dal sogno comunista di una società nuova e così oggi sono sfiduciate, spesso indifferenti.

Il popolo cristiano è molto tiepido, imborghesito da condizioni di benessere e di consumismo, immerso in una società ormai dominata da forze tecnologiche, comunicative, economiche enormi, che lo sovrastano.

Per rendere possibile un dialogo è necessario un popolo cristiano che possa veramente essere un’anima della società attuale e per questo bisogna fare certamente di più.

Occorrono dei cristiani interi, integrali, che siano cristiani tanto nella comunità, come nella società umana, la quale è ormai tutta laicizzata: dunque si deve testimoniare la fede e nello stesso tempo essere pienamente inseriti e impegnati nella società.

Tanto più si è impegnati, tanto più la fede deve essere profonda.

E la chiesa coraggiosamente, senza tema, deve procedere a diventare sempre di più, secondo l’indicazione della “Lumen Gentium”, popolo di Dio, una comunità che non sia tutta affidata al prete, ma una comunità che nel suo insieme testimonia la propria fede per rendere possibile la salvezza dell’intero popolo.

 

Sandro Antoniazzi

luglio 2021

 

One Comment

  1. Credo che la grande sfida a cui ci chiama Papa Francesco sia quella di assumere una visione profondamente “glocal”: nel senso di tenere assieme il radicamento in un popolo, con le sue caratteristiche (il pluralismo di lingue,storie, tradizioni nel mondo è una ricchezza, non un problema; è preziosa “biodiversità”!), l’appartenenza ad unico popolo, l’umanità, nel quale tutti siamo fratelli e sorelle e quella al popolo cristiano, che dovrebbe essere testimonianza e prefigurazione (segno e strumento, dice il Concilio) , dell’unità, nella pace, del genere umano, a cui protendiamo. Ma per essere “segno e strumento” anche il popolo cristiano deve riconoscersi come comunità in cammino unita nella diversità, accomunata dalla stessa fede ma ricca di contributi plurali, che certo comportano la fatica del dialogo ma che rendono viva e vitale una comunità e la aprono al futuro. Come in natura, l’omogeneizzazione soffoca la capacità di rinnovare una presenza e di aggiornare la mediazione culturale nel mondo che cambia. Non solo, essa rende difficile lasciarsi illuminare e se necessario trasformare dai semi del Verbo che pure maturano nell’umanità e nella storia, consapevolmente o meno. Dunque, per i cristiani la sfida è di riconoscersi uni-plurali nel popolo di Dio e pluri-popolari, cioè innestati contemporaneamente nel popolo con cui si vive la vita civile, nel popolo dei battezzati e nel popolo umano tutto, che – non sia mai dimenticato – è oggetto tutto assieme e senza distinzioni dell’azione salvifica di Dio attraverso le braccia spalancate di Cristo sulla croce.

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