L’articolo è stato pubblicato su Via Po, il supplemento culturale di “Conquiste del lavoro”, settimanale della Cisl
Gli scritti riuniti nell’ultimo libro di Ernesto Galli Della Loggia vogliono indicare alcuni fili da dipanare per svolgere una storia dell’Italia contemporanea diversa dalle interpretazioni correnti, per cercare nel passato le ragioni del nostro contraddittorio presente. In primo luogo emerge lo studio del Risorgimento (il titolo del volume, Speranze d’Italia, deriva da un’opera di Cesare Balbo del 1844) attraverso una ricognizione di tipo geopolitico, sia in riferimento alla storica “questione meridionale” dei rapporti Nord-Sud, sia all’interno del Nord (tra Torino, Milano e Genova). E’ il problema del rapporto tra un potente centro politico, costituito da Torino, che solo gradualmente passa dalla tradizionale annessionistica sabauda a un disegno nazionale, e Milano, che con Venezia e altre città del settentrione come Bergamo, Brescia, Genova, rappresenta invece il cuore della democrazia mazziniana; una Milano che però, dopo il predominio dei moderati nella gestione delle Cinque Giornate del 1848, si trova emarginata dal processo unitario, col risultato che il Nord del Risorgimento sarà egemonizzato da Torino, come il Sud lo sarà solo da Palermo. E’ mancata una capitale attrattiva dell’intero processo, come per la Francia è stata Parigi o Vienna per l’impero austro ungarico. Al Risorgimento italiano è mancata la città a tutto vantaggio dello Stato, quello Stato che era solamente il Piemonte, quel Regno di Sardegna che solo poteva sconfiggere l’Austria. Il Risorgimento, attraverso l’esempio cavouriano dell’onnipotenza della politica (fatta di alleanze, strategie e tattiche), deve essere considerato la vera cellula germinale del nostro percorso storico. E’ mancata la partecipazione dell’Italia delle cento città, fallirono tutti i disegni nazional-indipendentistici di segno policentrico, e in particolare quello neoguelfo e quello federalistico. E’ mancato il ruolo di un partito espressione di un consistente polo politico conservatore. Questo primato della politica nella vita pubblica porterà a un vasto orientamento statalista.
L’Italia del Novecento è stata senz’altro un’Italia dei partiti, che hanno interpretato polemicamente l’epopea risorgimentale, come si verificò con estrema evidenza tra il 1943 e il 1945 quando emblemi e figure risorgimentali si ritrovarono ad essere comuni, con significati ovviamente diversi, alle due parti in lotta. Nel terzo capitolo, probabilmente scritto nell’epoca trionfante dell’Ulivo di Romano Prodi, si fanno affermazioni e previsioni – il nuovo blocco politico del centro sinistra si avvia a dominare la scena per il prossimo futuro prevedibile – che, come i risultati delle elezioni politiche del 4 marzo insegnano, risulteranno completamente errate. Io penso che quando si raccolgono propri scritti occorrerebbe indicare la data, che è sempre fondamentale in qualsiasi discorso storico, altrimenti anche i punti di analisi interessanti sembrano il frutto di un dibattito polemico.
Nel capitolo “Don Sturzo dimenticato” vengono valorizzate le idee liberali del prete siciliano che, insieme a Gaetano Salvemini e Giuseppe Maranini, nel secondo dopoguerra possono essere considerati i membri di un vero e proprio terzo partito ideale, collocato oltre la divisione destra/sinistra, non ipnotizzato né dall’anticomunismo né dall’antifascismo quanto invece impegnato a capire per quali vie e in quali forme i vizi antichi del sistema politico e della società italiana si stessero perpetuando. E’ il piccolo partito che fin dagli anni Cinquanta si schiera in battaglia contro la ripresa e la riattualizzazione del vecchio statualismo organicista di marca fascista-corporativa entro le coordinate della nuova spesa pubblica e delle partecipazioni statali, destinate, insieme al parlamentarismo senza alternanza, ad aprire la strada alla partitocrazia, al consociativismo, alla corruzione politico-affaristica. Non è un caso che proprio “Il Mondo”, sin dal suo primo numero, volesse sottolineare il rilievo e la nobiltà dell’azione di don Luigi Sturzo.
Il fallimento storico della sinistra viene fatto risalire alla proposta di compromesso storico di Enrico Berlinguer: con esso il Pci, piuttosto che intervenire con audacia sulle cause reali che erano all’origine della sua impossibilità di accedere al governo del Paese – cioè il suo legame con la Rivoluzione d’Ottobre e lo stato sovietico – cercava di aggirare il problema candidandosi a una collaborazione esplicita con la Democrazia cristiana. Ma la Dc appariva, ed era, il caposaldo dello schieramento conservatore italiano. Nello stesso tempo a livello sociale stava avvenendo una mutazione antropologica della tradizionale mentalità operaia di etica del lavoro che mal poteva digerire la nuova politica del Pci. Nonostante il successo elettorale del 20 giugno 1976 – quando il Pci superò il 34% e insieme con altri partiti (Psi, Psdi, Pri) raggiungeva la maggioranza assoluta a fronte del 38,7% della Dc – l’intera guida della cosa pubblica restò affidata agli stessi uomini e la Dc continuò a dirigere tutto. In questo capitolo avrebbe potuto trovare spazio una riflessione sul ruolo del movimento sindacale che in quegli anni diede un significativo e indiscutibile contributo alla modernizzazione della società italiana (riforma sanitaria, abolizione dei manicomi, legge di parità uomini donne nei luoghi di lavoro, 150 ore, democrazia nelle relazioni industriali). Lama, Carniti e Benvenuto non sono personaggi degni d’attenzione nella riflessione storiografica di Galli Della Loggia, anche se l’autore condivide l’idea che non si può concepire la storia politica senza l’apporto di una storia sociale che investa il vissuto popolare.
Trentotto pagine sono dedicati all’interessante dialogo con Pietro Scoppola avvenuto nella rivista “Liberal” fondata nel 1995 da Ferdinando Adornato insieme con lo stesso Della Loggia. Il dissenso, tra i due, deriva dal modo in cui si percepiscono i problemi del nostro tempo e si coniugano con le interpretazioni del passato. Tre sono i temi principali del confronto. Il primo si riferisce alla ricerca della nazione: se l’antifascismo ha segnato il nuovo inizio della patria, perché allora il 25 aprile non è mai stato festa di tutti? Secondo, il cattolicesimo bipolare, una dottrina e molti partiti: quanto può durare? Infine: la Costituzione ci può unire? Essa è il nostro nuovo inizio, i suoi valori sono universali, ma è nata dalla divisione, non ci ha dato nazione e Stato. Secondo Scoppola, solo i valori della Costituzione tradotti nel sentimento vissuto di una cittadinanza democratica, in un “patriottismo della Costituzione”, che non esclude, anzi presuppone, il senso di specifiche appartenenze territoriali, religiose o culturali, può fondare l’identità collettiva. L’autore chiede però di capire per quale ragione non abbiamo oggi forti valori condivisi, per quale ragione la Repubblica democratica non è riuscita a darci tutto ciò. Una possibile risposta sta nella scelta dell’armistizio dell’8 settembre che ha rappresentato un colpo terribile inferto vuoi all’idea di patria-nazione, vuoi all’idea di Stato in Italia. Il momento fondativo della Repubblica furono gli anni 1943-48 sui quali bisogna riflettere cogliendo tutti gli aspetti e non solo quelli positivi, che certamente sono da valorizzare. In ogni caso, conclude Galli Della Loggia, ai fini di far nascere un livello accettabile di convivenza civile, di cultura civica e di valori condivisi, occorre che la società italiana ripensi liberamente, senza pregiudizi, il proprio passato.
Salvatore Vento
(Ernesto Galli Della Loggia, Speranze d’Italia. Illusioni e realtà nella storia dell’Italia unita, il Mulino, 2018, pp. 325)