“La Chiesa Cattolica oggi, ieri, domani”, il pensiero del card. Kasper

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“Con i dialoghi rivolti all’interno e all’esterno, il Concilio Vaticano II ha avviato sviluppi che non possiamo programmare. Il Concilio ci ha indicato la direzione verso una nuova epoca. Esso ci ha dato una luce per il cammino che non è un proiettore capace d’illuminare un’intera pista che porta al futuro; ci ha messo in mano una lanterna che, come ogni lanterna, fa luce solo nella misura in cui avanziamo. Fornisce luce per ogni singolo passo, cui deve e può seguire il passo successivo. Perciò un programma dettagliato per il futuro non è possibile. Il futuro è nelle mani di Dio.”.

Sono le parole con cui il cardinale Walter Kasper ha concluso la relazione che ha tenuto – con questo titolo –  il 28 marzo presso l’Università pontificia salesiana. Riportiamo qui la parte finale del suo intervento su come vivere il rinnovamento nella Chiesa alla luce del Concilio Vaticano II.

 

Riscoprire la Chiesa

(…) Dobbiamo interrogarci sulle radici della Chiesa e domandare: Chiesa, chi sei? cosa dici di te stessa? Oggi il grande rischio è l’appiattimento della comprensione della Chiesa. Tale pericolo non viene solo dall’esterno, ma spesso dalla Chiesa stessa. È il rischio dell’auto-secolarizzazione della Chiesa, che si impegna in molte cose, certo importanti, con grande zelo, ma dimentica talvolta la sua missione fondamentale. Ciò che ci occorre è una svolta teocentrica. Una visione teologica della Chiesa.

Il primo capitolo della Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II s’inizia, a ragione, con un capitolo sul mistero della Chiesa. Essa, dunque, non è in primo luogo un ente sociale. Certo, deve impegnarsi per la “caritas”, per la giustizia sociale, per lo sviluppo e la pace nel mondo, e lo fa anche. Ma le sue radici si spingono più in profondità. Essa è, in ultima analisi, fondata nel disegno eterno di salvezza, preso da Dio prima di tutti i tempi, di riportare a casa l’umanità intera e tutta la realtà per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Ricapitolare e ridurre a Cristo, unico capo, tutte le cose (Ef 1,10). Con la Chiesa, Dio ha posto un inizio. Essa è, per così dire, l’avanguardia del regno di Dio.

Le quattro grandi Costituzioni del Concilio Vaticano II indicano questa natura, ognuna in modo differente. La Costituzione sulla Chiesa: la Chiesa è popolo di Dio e il corpo di Cristo; essa farà risplendere la luce di Cristo nel mondo, per mezzo della propria parola e dei sacramenti e della propria intera vita. La Costituzione sulla Rivelazione aggiunge: perciò la Chiesa deve ascoltare la Parola di Dio; essa è dunque, essenzialmente, Chiesa che ascolta: quindi, però, deve anche testimoniare la Parola con energia e coraggio. Deve dare orientamento e essere una lampada che dà luce nell’oscuro. La Costituzione sulla Liturgia afferma che, nella liturgia, in particolare nella celebrazione eucaristica, il regno venturo di Dio si fa presente, già adesso, sotto segni sacramentali, come forza e cibo nel cammino della vita e della Storia. La Chiesa è “Ecclesia de Eucharistia“ (Giovanni Paolo II., 2003): Chiesa che vive dell’Eucarestia. Infine, la Costituzione pastorale afferma che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo. La Chiesa, dunque, dev’essere solidale con le sventure e le gioie degli uomini. Dev’essere Chiesa nel mondo e per il mondo.

Posso qui solo accennare a tutto quel che è estesamente trattato nel libro. Mi preme giungere all’essenziale e riscoprire il mistero profondo della Chiesa: e così anche mostrare la bellezza della Chiesa come la Sposa di Cristo nonostante le sue macchie e rughe (cfr. Ef 5,27). La Chiesa, dicevano i Padri della Chiesa citando il Cantico dei Cantici, è nera ma bella.  Però le sole riforme esteriori non aiutano ad andare avanti. È come con una casa che va riparata: non basta stuccare le crepe e rinnovare la tinteggiatura; occorre prima rendere sicure le fondamenta. Così è anche per la Chiesa: le mere riparazioni cosmetiche non risolvono. Ci occorre un rinnovamento che provenga dalla fede e che sia un rinnovamento spirituale. Allora, perché la Chiesa è una realtà incarnata,  cioè una realtà complessa  con una dimensione divina e una dimensione umana (LG 8), un tale rinnovamento può e deve condurre anche a riforme concrete. Le due cose si integrano. Desidero trattare, da questo punto in poi, almeno una questione di riforma concreta.

Rinnovamento della forma di communio della Chiesa

Nelle questioni di riforma istituzionale, l’approccio va fatto dal lato della comprensione della Chiesa in quanto communio. Questo è la “Leitidee”, l’idea principale e direttrice della Chiesa nel Concilio Vaticano II. Ma che cosa s’intende con communio? Communio non vuol dire, semplicemente, comunione, che si fonda su derivazione e provenienza comune, o che viene in essere per simpatia ed interessi comuni e tramite unione e fusione fra di noi. Communio indica, nel senso del Nuovo Testamento, in origine partecipazione (participatio); più esattamente, partecipazione alla realtà salvifica di Gesù Cristo, alla vita e allo Spirito di Gesù Cristo; in ultima analisi, partecipazione alla communio trinitaria, dunque alla vita trinitaria di Dio.

In tale accezione, la Chiesa viene intesa dal Concilio nel senso dei Padri della Chiesa  come immagine, per così dire, icona della Trinità. Così come noi adoriamo un solo Dio in tre Persone, così anche la Chiesa, in quanto communio, è una sola unità nella varietà (LG 4; UR 3). La communio è fondata mediante il Battesimo e l’Eucarestia. Mediante l’unico Battesimo, partecipiamo del corpo di Cristo (Gal 3, 28; I Cor 12, 13). Dell’Eucarestia, Paolo dice: “Poiché c’è un solo pane, noi siamo un corpo solo” (I Cor 10, 16 e s.). Communio è, quindi, un concetto teologico e non sociologico. 

Se intendiamo la Chiesa, in senso scritturale, patristico e conciliare, come la communio fondata per mezzo del Battesimo e dell’Eucarestia, allora ogni rinnovamento deve principiare col Battesimo e coll’Eucarestia. Rinnovamento del Battesimo significa, prima di tutto, rinnovamento della catechesi per i sacramenti della iniziazione, il Battesimo (insieme con la Cresima) e la eucaristia. Essa era il secreto del successo della Chiesa antica e lo è anche oggi nella chiesa nella missione; ma anche da noi, poiché molti cristiani sono battezzati senza sapere che cosa significhi essere cristiani; c’è, attualmente, un diffuso analfabetismo cristiano, che porta ad un cristianesimo attestato solo sulla carta, da un certificato di Battesimo. Molti si definiscono cristiani, ma vivono come tutti i moderni gentili. Il rinnovamento della catechesi per i sacramenti d’iniziazione per i bambini e per i giovani ma anche per gli adulti è come l’alfa e l’omega del rinnovamento ecclesiale e di prima importanza per l’anno della fede che ci aspetta. Devo dire, che qui a Roma ho conosciuto alcune parrocchie che su questo aspetto danno un notevole esempio e lo fanno con grande successo.     

Si aggiunge a ciò che la communio richiede uno stile comunicativo nella Chiesa, cioè uno stile dialogico e fraterno, che si distingua tanto da quello vetusto, feudale, quanto da quello nuovo, apparentemente moderno, burocratico. Una tale forma di communio della Chiesa non comporta la democratizzazione della Chiesa. La democrazia ha il suo luogo legittimo nell’ambito politico. La Chiesa non è un qualche popolo: essa è il popolo di Dio; è una realtà di genere proprio. Si tratta dunque della realizzazione della realtà di popolo di Dio, dove tutti sono figli e figlie di Dio, fratelli e sorelle nella stessa famiglia di Dio. Nella rivelazione Dio parla agli uomini come ad amici  e si intrattiene con essi (DV 2). Da lì, anche la vita della Chiesa dovrebbe essere caratterizzata da uno stile comunicativo, partecipativo e dialogico di fraternità, amicizia e fiducia e da una cultura del dialogo disposta all’ascolto e all’apprendimento.

“Dialogo” è una parola chiave dell’ultimo Concilio, nei cui documenti si ritrova una trentina di volte, in contesti diversi. Paolo VI ha scritto in proposito una sua enciclica, l’“Ecclesiam suam“ (1964), e Giovanni Paolo II vi ha aggiunto profonde riflessioni antropologiche: dialogo non solo condivisione di idee ma di doni.  (Ut unum sint, 1995, n. 28). Perciò ci si deve meravigliare che, di recente, alcuni abbiano sollevato sospetti sulla pura parola “dialogo”, bandendola dall’uso linguistico ecclesiale, quasi volendola fare oggetto di un anatema.

Si deve, semplicemente, sapere che cosa s’intende con dialogo. Dialogo non vuol dire colloquio informale, né tavola rotonda, né disputa accademica, né manifestazione informativa, né negoziato politico e neanche procedimento quasi parlamentare. Nel dialogo non si condivide qualcosa con l’altro, ma si condivide con lui se stessi, anzi, si condivide se stessi. Il dialogo, inteso teologicamente, significa darsi reciproca testimonianza ognuno della propria fede e, in tal modo, partecipare della ricchezza dell’altro, lasciarsene arricchire, ma poi comprendere anche meglio e più profondamente la propria fede. Perciò, nel dialogo, non ci s’incontra a livello del minimo denominatore comune. Il dialogo non ha niente a che fare né col relativismo né col sincretismo. Al contrario: attraverso il dialogo, veniamo introdotti più a fondo nella verità e, mediante ciò, veniamo arricchiti, soprattutto nel dialogo ecumenico, nella nostra comprensione della verità.

Se, in tal senso, vogliamo tradurre in pratica la realtà di communio della Chiesa nella realtà concreta, allora di ciò fa parte la comunicazione, e questo vuol dire dare nuova vita e rafforzare le istituzioni sinodali nella Chiesa, tanto a livello locale quanto universale. Tale rinnovamento non è un qualcosa da fare ex novo. La Chiesa ha, a partire dal concilio degli Apostoli, una ricca tradizione sinodale, la cui riscoperta potrebbe  dare alla Chiesa un volto giovane, fresco e una forma rinnovata.

La cosa ideale mi sembra essere descritta nella regola di S. Benedetto. Per S. Benedetto, l’abate ha un posto importante nella comunità monastica; egli, per così dire, rappresenta Gesù Cristo. Ma, in caso di decisioni importanti, dice Benedetto, deve sentire il consiglio dei confratelli, e deve ascoltare anche il più giovane, perché lo Spirito Santo può parlare anche per mezzo di lui. Dopo essersi consultato, continua Benedetto, l’abate deve riflettere su tutto, pregare per questo e poi deve decidere, cioè lui non è esecutore di qualche voto democratico, decide liberamente, ma decide sulla basi di una consultazione. Autorità e fraternità, dunque, si integrano e condizionano a vicenda. Nella Chiesa, dev’esserci auctoritas nell’accezione originaria della parola, da augere, crescere. Autorità che non opprime la vita, ma che fonda vita, moltiplica vita, fa crescere vita e promuove vita.

Un tale insieme comunicativo di ministero e comunità o meglio Chiesa dovrebbe esistere a tutti i livelli della vita ecclesiale, parrocchiale, diocesana, universale. A livello della Chiesa universale, la Chiesa ha bisogno, per amore dell’unità nella varietà, in un mondo sempre più globalizzato, ma interiormente lacerato, di un centro forte. Abbiamo bisogno di Pietro, che, con la sua professione di fede in Cristo, è la roccia su cui è fondata la Chiesa (Mt 16, 18) e che deve rafforzare i suoi fratelli (Luc 22,32). Proprio in tempi difficili come i nostri, vale la pena di raccogliersi intorno a Pietro. Parimenti, la Chiesa necessita di rafforzare la struttura collegiale/sinodale. Le due cose non sono in contraddizione. L’integrazione, voluta dal Concilio Vaticano II, dei due punti di vista, potrebbe invece contribuire a rafforzare l’unità interna e a superare un certo sentimento antiromano, che purtroppo è ancora presente. 

Al dialogo rivolto all’interno corrisponde il dialogo rivolto all’esterno: il dialogo con il popolo di Dio dell’Antica Alleanza; il dialogo ecumenico e il dialogo con le altre religioni; il dialogo con la cultura di oggi e con tutti gli esseri umani di buona volontà. Con questi dialoghi, il Concilio ha indicato la via nel futuro: da una Chiesa che intende se stessa come rocca e fortezza chiusa ad una Chiesa comunicativa e aperta al dialogo. Dialogo non significa rinunciare alla propria identità; significa, invece, crescere nella propria identità. Perché, per l’identità cristiana, nella sequela di Gesù, è essenziale l’essere per gli altri e con gli altri. Ciò esclude tanto l’adattamento quanto una mentalità ansiosa, che si isola a coltivare il proprio territorio circoscritto.

Di ciò fa parte, nella nostra situazione, in particolare il dialogo ecumenico. È compito dato da Gesù ed è impulso ed opera dello Spirito Santo. La decisione in proposito, quindi, è irreversibile e irrevocabile; è un cantiere importante della Chiesa del futuro. Abbiamo ottenuto molto e possiamo già raccogliere dei frutti. Ma ci sono ancora questioni serie davanti a noi. Non siamo ancora giunti alla meta. Non è solo la questione del ministero, ma la questione del ministero in rapporto a quella della Chiesa. Poiché noi, cosa che nessun esperto contesterà, con i Protestanti abbiamo una diversa concezione della Chiesa, abbiamo anche una diversa concezione dell’unità della Chiesa. Qui tocchiamo le difficoltà fondamentali del dialogo ecumenico attuale. Nonostante tali difficoltà, dobbiamo fare anche insieme quel che possiamo insieme già oggi, nella verità e nell’amore.

Ovviamente, anche il dialogo interreligioso è un comandamento di quest’epoca. È l’alternativa alla violenza e allo scontro di culture, etnie e religioni. Mediante tale dialogo nella verità e nell’amore, la Chiesa, come escatologico popolo di Dio, può essere, in mezzo ai conflitti del nostro mondo, esempio e strumento della pace (shalom) escatologica.

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  1. Sono completamente d’accordo.

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