I Viandanti, la rete di gruppi e riviste di matrice cattolica nata per testimoniare e diffondere nella chiesa una presenza viva dei laici non solo nella vita sociale e politica ma anche nella vita della chiesa stessa, ha tenuto il mese scorso a Bologna il suo terzo convegno nazionale. Ha scelto un tema arduo, quello dei rapporti tra dottrina e pastorale, tra continuità e cambiamento. Al titolo dato al convegno era consegnata, un po’ provocatoriamente, l’istanza di fondo della rete: “Lo Spirito e noi”. Franco Ferrari, il paziente tessitore della rete, ha spiegato all’inizio del convegno che “i viandanti” si rendevano conto di suscitare qualche diffidenza – come fa un gruppo di laici, per lo più non preparati teologicamente, ad affrontare un tema così complesso e alto? -; ma è pur vero, ha detto, che a tutti i battezzati è dato di poter essere interpreti della parola di Dio. E di farlo nel contesto della storia che si vive. Oggi nella chiesa, con il papato di Francesco, è particolarmente accesa la dialettica tra continuità e cambiamento, e i laici raccolti nella rete dei Viandanti sentono l’esigenza di vivere in prima persona questa dialettica, e di farlo con un atteggiamento critico ma costruttivo, e con libertà di parola.
Il convegno si è mosso sulla base di quattro relazioni: una di taglio biblico affidata a don Flavio Dalla Vecchia, per chiedersi chi è tenuto a interpretare il vangelo di Gesù nell’oggi del nostro cammino; una di taglio storico, affidata a Daniele Menozzi, per verificare come continuità e aggiornamento della dottrina si siano confrontati nella storia della chiesa; una di taglio teologico, affidata a don Giovanni Ferretti, sui criteri del discernimento e della testimonianza evangelica nel tempo in cui la chiesa non è più al centro della società; e infine una di natura ecclesiologica, affidata a don Severino Dianich, su come ripensare oggi il rapporto tra ministero gerarchico e comunità.
Ciascuno dei quattro ha portato elementi per aprirsi ad una migliore comprensione sia del nodo continuità/cambiamento sia di come tutti, nella chiesa, sacerdoti e laici vi si debbano misurare.
Il biblista Flavio Dalla Vecchia ha preso spunto dalle parole un po’ misteriose di Gesù, nel vangelo di Matteo, capitolo 51, versetti 51-52, a conclusione della serie di parabole sul regno dei cieli: “Avete capito tutte queste cose? Essi risposero: ‘Sì’. Allora disse loro: ‘Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie'”. Dalla Vecchia si è interrogato sull’identità di questo scriba, sostenendo che non si tratti di un uomo del tempio, cioè di un esponente propriamente religioso, istituzionale, ma piuttosto di una persona con un’attitudine profetica, impegnata a far interagire la parola di Dio con il tempo presente. Nel corso della storia della chiesa, però, l’interpretazione della Bibbia è sempre stata opera dei funzionari del sacro. Ne è mancata, da allora fino ad oggi, una lettura che potremmo dire laica. In questo campo, ha osservato Dalla Vecchia, il magistero è “spropositato”, cioè sovrabbondante, e lo è, per di più, senza tener conto dei contesti differenti che le comunità ecclesiali vivono, e dunque senza calarvisi dentro. Il sistema della comunicazione della fede può dunque definirsi, in un certo senso, “imperialistico”. L’interpretazione della Scrittura, viceversa, dice Dalla Vecchia, non spetta solo all’autorità di magistero o a quella dei competenti. Del resto, la Bibbia è una narrazione e non una teorizzazione, e gli stessi evangelisti hanno dato, della parola di Gesù, una loro interpretazione particolare, distinta una dall’altra, mossi dall’intento di renderla più credibile nei loro diversi contesti. E Pietro e Paolo non la pensavano allo stesso modo su più di un punto… Gesù stesso, si potrebbe dire, è il modello dello scriba che, nel rifarsi alle cose antiche, alle leggi del Vecchio Testamento, dice: “Avete inteso che fu detto … ma io vi dico…”. Gesù, del Vecchio Testamento, osserva Dalla Vecchia, intercetta la prospettiva umanistica, e non le altre che pure vi sono presenti. Insomma, bisogna rendere la Parola credibile oggi, nei diversi contesti in cui si vive: la Parola, che sempre progredisce… Ed è compito di tutti i battezzati. E’ un’incarnazione creativa quella richiesta per l’annuncio del Vangelo.
Lo storico Daniele Menozzi ha mostrato come sia insostenibile la tesi di chi si oppone al cambiamento nella dottrina, come oggi gli avversari di papa Francesco, in nome di una sua presunta immutabilità. Si tratta di un mito che poggia in sostanza sul rifiuto della storia. In realtà, ha spiegato Menozzi, il magistero ha sempre modificato la dottrina, nel corso della storia. Menozzi ha fatto l’esempio della questione della libertà religiosa. Soprattutto a partire dalla riforma protestante, si sono avute numerose modifiche nell’approccio dottrinale della chiesa al tema della libertà religiosa: dalla condanna della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino nel 1791 al Sillabo di Pio IX del 1864, al possibilismo di Leone XIII, al Concordato con lo Stato italiano sottoscritto da Pio XI nel 1929, fino al riconoscimento della libertà della retta coscienza nella Pacem in terris, e poi alla Dignitatis Humanae nel corso del Vaticano II e a Paolo VI, con il riconoscimento della libertà religiosa come uno dei diritti naturali, e poi a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che operano un passo indietro con l’affermazione della libertà di coscienza come libertà “nella” verità e non “dalla” verità e con l’insistenza sulla legge naturale. Con Francesco si cambia ancora, dice Menozzi: lui riconosce la legge naturale, ma la pone in secondo piano rispetto al Vangelo; in questo modo la risposta all’uomo contemporaneo è data a partire dalla misericordia, dal cercare di risanare le ferite che lo fanno soffrire. Non viene cancellata la dottrina, ma l’accento è spostato sul Vangelo e sulla storia, secondo la proposta conciliare dei segni dei tempi. E la denuncia di eresia che oggi viene rivolta a Francesco da alcuni settori del cattolicesimo tradizionalista, con la minaccia di scisma, sembra – secondo Menozzi – finalizzata a condizionare e limitare lo sviluppo dell’apertura di papa Francesco a quell’indirizzo conciliare che potrebbe portare a una chiesa che, calata nella storia, dalla storia impara a leggere la buona novella di misericordia da comunicare agli uomini contemporanei.
Il teologo Giovanni Ferretti, a proposito di continuità e cambiamento nella dottrina e nella prassi, ha richiamato il racconto della prima crisi della chiesa, così come la si legge nel capitolo sesto degli Atti. La crisi nasce perché il gruppo originario si allarga e vi affiora una pluralità di culture. L’occasione della crisi è il malcontento di quelli di lingua greca nei confronti di quelli di lingua ebraica a proposito della questione dei poveri e del servizio delle mense, e, in seguito, anche a proposito della questione della gestione del potere all’interno della comunità; per cui si individua un nuovo ministero, il diaconato. E’ un esempio paradigmatico – dice Ferretti – di come i mutamenti socio-culturali esigano dalla comunità cristiana di ripensarsi e ristrutturarsi continuamente nella dottrina e nella prassi, per fedeltà al Vangelo. che ci richiede di essere attenti ai bisogni storici, concreti, della comunità in cui si vive e in cui si deve annunciare la parola, dandone testimonianza con l’impegno solidale.
Ferretti ha indicato poi le sfide prioritarie che oggi la chiesa ha di fronte. Innanzitutto la sfida della povertà (e dell’ecologia), che Francesco ha posto in primo piano all’attenzione della chiesa, in un certo senso sostituendola alla sfida dell’illuminismo, che fin qui ha dominato (la sfida, cioè, posta dalla trasformazione antropologica di questi decenni, con la profonda mutazione del quadro dei valori e la scissione tra valori diffusi nella cultura dominante e valori cattolici). In secondo luogo, la sfida del pluralismo culturale e religioso del mondo globalizzato, con l’esigenza di riconoscere a ogni persona la sua dignità umana reagendo ai nazionalismi oggi montanti che tendono a compattare le comunità nella logica del “noi-loro” e che usano l’identità cristiana come un mero marcatore culturale in funzione di una politica xenofoba; viceversa, si deve distinguere tra l’identità cristiana come dato culturale escludente e l’identità cristiana come dato evangelico includente. E poi la sfida della questione del potere: potere che la chiesa nella società secolarizzata ha perso, potendo, però, così, essere più libera di denunciare profeticamente i poteri quando essi diventano egemoni, e potere dentro la chiesa stessa, dove per molti aspetti gli squilibri debbono essere risanati (tra clero e laici, uomini e donne, e così via).
Ferretti, infine, ha offerto una bella riflessione sul tema del discernimento dei segni dei tempi. Ha chiarito che si tratta di una categoria teologica: quel che si chiede alle comunità cristiane, cioè, è di avere uno sguardo di fede, contemplativo e profetico, sui mutamenti in corso, e non solo e tanto sociologico e filosofico. Segno dei tempi è, in realtà, Cristo stesso, la sua vita. Segni dei tempi lo sono quegli eventi storici che anticipano il regno di Dio o che concorrono alla sua comprensione. Segno dei tempi dovrebbe esserlo la chiesa; ma lo è anche tutto ciò che nella storia stimola la chiesa a compiere la sua missione Come discernerli, questi segni? Il criterio è la figura stessa di Gesù, il suo stile, la sua umanità. Il Vangelo e il cuore umano – osserva Ferretti – dicono la stessa cosa. Si tratta dunque di fare una lettura incrociata di cuore umano e Vangelo. Che non sono contrapposti, ma si richiamano l’un l’altro. Il Vangelo non si contrappone dall’esterno all’umano, né l’umano si contrappone al Vangelo. Gli aspetti caratteristici dello stile di Gesù sono rintracciabili nella misericordia, che è il criterio fondamentale per interpretare sia la parola di Dio nel Vangelo sia lo stesso mondo moderno nei suoi aspetti di segni dei tempi. E la misericordia è la principale chiave per entrare in modo evangelicamente corretto nel circolo ermeneutico di vangelo e cuore umano. Misericordia che non è un vago sentimento emotivo ma un sentimento che scaturisce e s’intreccia con il riconoscimento della dignità assoluta di ogni persona e che ci impegna a un dovere incondizionato nei confronti della sua salvezza.
Perché il criterio della misericordia possa effettivamente funzionare nel discernimento della volontà di Dio – dice Ferretti – sono necessari alcuni ripensamenti teologici, che sono in corso, anche grazie a papa Francesco, ma che vanno portati avanti nelle loro conseguenze. Uno è il superamento del modello fondamentalistico e sacrale della Scrittura e dei dogmi della chiesa, passando al modello teologico ermeneutico, che mette in grado di distinguere la verità contenuta che nei dogmi dai condizionamenti storici e dalle formulazioni letterali che vi si trovano, al fine di darne una formulazione nuova (ed evitare il rischio, come ha detto Francesco nell’Evangelii gaudium, di comunicare all’uomo un “falso Dio”). Un secondo ripensamento necessario è quello della concezione sacrale di Dio, concezione di cui ci sono tracce anche nel Nuovo Testamento e che ha pervaso tutta la storia del cristianesimo; si deve operare una purificazione della concezione di Dio che consenta di uscire dalla ambiguità di vedere in lui due facce, quella benevola e quella minacciosa, quella dei premi e quella del castighi, e si deve dare il lieto annuncio che una sola è la faccia di Dio, quella dell’amore incondizionato, della misericordia, e che dunque nessuna connessione vi è tra Dio e la violenza, come non vi è tra Dio e quella mentalità sacrificale che finisce per assegnare alla sofferenza umana anche un valore positivo. Infine, va compiuto il ripensamento del rapporto tra rivelazione biblica e morale, alla luce della nuova coscienza ermeneutica che di rende avvertiti che le norme etiche concrete presenti nella Bibbia sono debitrici della cultura del tempo, e cercando di discernere il senso positivo della rivendicazione moderna dell’autonomia razionale della morale; del resto, i grandi principi etici biblici e in particolare quelli del Vangelo, se bene intesi, corrispondono ai bisogni più profondi dell’uomo, ha detto Ferretti.
E’ spettato, infine, a don Severino Dianich (con il quale è però mancato il previsto confronto con la pastora valdese Letizia Tomassone che non è potuta intervenire) di soffermarsi sulla questione del ministero ordinato e sull’evoluzione della dottrina in proposito. Dianich ne ha fatto brevemente la storia, a partire dalla rottura inizialmente operata da Gesù rispetto al sacerdozio antico e alla sua ritualità e arrivando poi a mostrare la progressiva sacerdotalizzazione del ministero che si è venuta operando nella dottrina cattolica, forse – ha detto don Severino – a causa del fatto che il mondo antico non è mai riuscito a pensarsi laico tanto che, dopo l’entrata in crisi del sacerdozio pagano, si è creato un vuoto che ha spinto il cristianesimo a sostituirsi al sacerdozio pagano. Così la ritualità si è fatta sempre più ricca e imponente, e la figura del prete e del vescovo sono divenute figure sacre. La conseguenza più grave è stata la corruzione del clero. Se fino all’VIII secolo ci si rifiutava di ordinare sacerdote o vescovo uno che non facesse il pastore in una data chiesa, dopo di allora le cose cambiarono e si aprirono le porte all’accaparramento delle cariche nella chiesa, slegando la funzione rituale dalla predicazione e dall’attività pastorale. Di lì la Riforma protestante e la sottolineatura del sacerdozio di tutti i fedeli. Il Concilio di Trento e la riforma cattolica modificarono positivamente la prassi ma non mutarono la dottrina, e non mostrarono interesse verso il tema del sacerdozio dei laici, che è stato invece ripreso dal Vaticano II.
Oggi, per Dianich, il problema maggiore, per la chiesa, è la chiusura progressiva che si è andata determinando del pastore all’interno della comunità, quando invece l’esigenza è sempre di più quella di guardare fuori, di portare il Vangelo nel mondo, perché il mondo ha cessato di essere cristiano. E il dinamismo nuovo, necessario per “estrovertere” la chiesa, e farla uscire all’esterno, implica di coinvolgere i laici, di fare affidamento sul loro sacerdozio battesimale. Quanto alla questione delle donne, della loro possibile ordinazione sacerdotale, Dianich ha detto che, nonostante il blocco dottrinale posto da Giovanni Paolo II, il cammino in quel senso è irreversibile. Non si tratta, ha detto però, di un diritto, quanto piuttosto di un bisogno crescente.
Il punto di maggiore interesse nella relazione di Dianich è stato il suo riferimento alla necessità che la chiesa, oggi che i fedeli sono così tanto diminuiti di numero in Europa, vada verso un ridimensionamento anche del suo apparato, della sua forma esteriore, per poter poi, alla fine, ritrovare davvero il lievito fresco del Vangelo. Ha ricordato che già settanta anni fa Romano Guardini parlava di “solitudine della fede”, e però diceva che, accanto ai rischi di tale condizione, vi era anche una grande chance. Si tratta di saperla cogliere. Di rinnovare in radice la presenza della chiesa, guidati da un’unica norma: cercare di essere fedeli alla volontà del Signore.
Franco Ferrari, in conclusione al dibattito che ha fatto seguito alle relazioni, ha proposto di provare ad allargare la rete dei Viandanti e di cercare contatti con altri gruppi e realtà, con lo scopo di arrivare, in due o tre anni, a dr vita ad una sorta di “stati generali” del laicato italiano. Un’idea che credo coltivi da tempo. Dianich, in una breve replica, è sembrato frenare…; ha detto che bisogna chiedersi chi possa davvero rappresentare il laicato italiano. Laicato, ha detto, sono anche le anziane devote signore che pregano santa Rita, i ragazzi che strimpellano la chitarra nelle messe domenicali, o le tante badanti filippine cattoliche… Tutte persone che certo non sarebbero in grado di partecipare a un dibattito come questo. Don Giovanni Cereti, dal canto suo, era intervenuto in precedenza per chiedere che i Viandanti si impegnino a contribuire perché si arrivi a un Sinodo per l’Italia. Di Sinodo, però, non se n’è parlato (s’è detto solo che se ne parla troppo e un po’ a vanvera). Eppure, è proprio alla pratica viva e autentica della sinodalità che bisogna tendere. A promuoverla nella chiesa, comunità per comunità, parrocchia per parrocchia, territorio per territorio, con tenacia e umiltà, ascoltando tutti, dovrebbero impegnarsi i laici più avvertiti.
Giampiero Forcesi
Per saperne di più:
- il sito de Viandanti
- la registrazione audio del convegno
- un articolo di Paolo Bertezzolo su Adista
- e uno di Ugo Basso su Nota-m