La crisi di governo: piccole notazioni a futura memoria

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Scrivo domenica 1° settembre quando la situazione è ancora sospesa e poco si conosce di sostanziale delle trattative in corso per il governo M5s-Pd. Alcune riflessioni fatte in questa fase convulsa e confusa possono venir buone però per qualsiasi esito si verificherà nei prossimi giorni.

  1. La politica ha le sue leggi, di cui una ferrea riguarda i tempi. Se si presenta una proposta giusta nel momento sbagliato, è alta la possibilità di fallire. Ma questi giorni stanno anche mostrando che i processi vanno preparati e istruiti (magari anche remando controcorrente), se si vuole avere maggiori chance di successo duraturo: mettere alla prova i cinquestelle dopo le elezioni del 2018, evitare di mettere sullo stesso piano il movimento con la Lega nonostante la sciagurata alleanza, lavorare nelle loro contraddizioni facendone emergere gli aspetti correggibili (si pensi alla evoluzione pro-europea, oggi del tutto fondamentale), avrebbe dovuto essere buona regola di una sinistra di governo che si scopre terremotata da un risultato drammatico e non vuole emarginarsi in un angolo della politica. Non averlo fatto è sintomo di gravi limiti politici. Non è facile riprendere ora tutti questi passaggi, sulla spinta di una subitanea conversione di molti pareri decisivi, oltretutto nel breve volgere di un paio di settimane. Lo si vede distintamente, tanto che il rischio di essere di fronte a un’operazione abborracciata e ambigua è altissimo e lo si sconterà sul futuro, comunque si vada a procedere. Speriamo vivamente che non si debba pagarlo troppo presto.
  2. La saccente sicumera di Salvini è stata per ora sconfitta, ma non dimentichiamoci che egli continua a produrre i suoi discorsi propagandistici che rischiano di far presa. A partire ora dalla reiterata protesta sul “furto di democrazia”. Rischia di crederci un elettorato aduso da vent’anni alle logiche maggioritarie, spesso forzate al limite di una specie di rappresentazione dell’elezione diretta degli esecutivi. Vallo a spiegare che la democrazia parlamentare funziona così: se c’è una maggioranza in parlamento, anche diversa dalla precedente, ha diritto a governare. Più efficace sarebbe ricordargli sempre che nemmeno il governo gialloverde fu “votato dagli elettori”: lui ha governato per un anno con il 17% dei voti, dopo un’elezione in cui aveva combattuto i suoi futuri alleati, mentre era alleato con partiti che poi sono rimasti fuori dal governo: bella coerenza democratica! E a buon conto, occorrerà anche ricordarsi che la difesa del ruolo del parlamento è cosa continuativa e indispensabile per la nostra costituzione, non solo bandiera polemica quando serve: quanti corifei della “democrazia governante” dovrebbero farsi almeno un esame di coscienza?
  3. La richiesta di discontinuità rispetto al governo gialloverde avanzata inizialmente da Zingaretti per trattare aveva solide basi. In questo senso, appare poco spiegabile perché il Pd si sia acconciato rapidamente a sostenere una seconda volta Conte alla presidenza, dato che prima del pur efficace discorsetto al Senato del 20 agosto – provocato dalla mossa salviniana, non certo frutto di propria iniziativa, vediamo di non dimenticarcelo – l’avvocato pugliese non è che si fosse distinto per un ruolo politico minimamente autonomo dalla crescente presa egemonica di Salvini sul governo. Il curioso e irrituale endorsement di Trump spero non sia stato considerato cruciale. A maggior ragione occorrerà comunque ora insistere su altri passaggi di discontinuità nelle cariche: i tatticismi e i personalismi di Di Maio appaiono difficilmente sopportabili. Ma soprattutto la questione vera verterà sulle scelte qualificanti del governo gialloverde, che in qualche caso possono e devono essere corrette perché in fondo vanno nella giusta direzione, anche se sono state gestite piuttosto male (reddito di cittadinanza, quota cento), in altri casi sono invece irricevibili (sicurezza, politica sui migranti, politica estera).
  4. L’insistenza diffusa su un governo politico di lunga durata, se non vuole essere un mero auspicio quasi scaramantico, deve insistere sulla qualità politica del progetto comune. I due contraenti avevano nei loro programmi elettorali e nelle loro priorità alcuni elementi comuni, assieme a parecchie differenze. Se non si gioca intelligentemente su questi aspetti per costruire un disegno di mutamento politico vero, il rischio dell’operazione è altissimo: fare un nuovo governicchio che miri solo alla sistemazione dei conti pubblici all’ombra del consenso europeo e atlantico sarebbe non solo troppo poco, ma anche del tutto suicida di fronte all’opinione pubblica, dando praterie alla crescita del consenso per il populismo nazionalista di Salvini. Occorre fornire al paese un asse visibilmente comune su alcuni punti forti: questione ecologica, riduzione delle diseguaglianze, equità fiscale, risorse alla ricerca e alla formazione, creazione aumentata di lavoro, tutela e sviluppo dei beni pubblici, legalità e anticorruzione. La vera domanda è se da una parte e dall’altra (Pd quindi, oltre che M5S) ci sia abbastanza creatività politica e coesione sostanziale per costruire questa ardua operazione.
  5. Il punto delicatissimo sarà proprio anche quello della politica internazionale: o si riesce a far emergere in Europa una coalizione riformatrice chiara e forte, che vada nel senso di correggere profondamente il corso dell’austerità e del traccheggiamento sullo sviluppo, che ha tanto favorito la retorica sovranista, oppure non basterà la pur necessaria correzione di rotta filo-europea (anzi, rischia anch’essa di peggiorare il quadro, rilanciando una polemica contro la “Vecchia Europa” di cui non abbiamo bisogno). La commissione von der Leyen ha già nelle sue basi questa svolta? Si permetta di dubitarlo, ma proprio per questo non basterà un riallineamento della politica estera tradizionale rispetto alle sbandate filorusse e filomagiare. Bisognerà lavorare duro per creare nuove alleanze politiche che segnalino almeno i prodromi di un cambiamento quanto mai indispensabile. Più Europa, ma anche una diversa Europa: questo sarebbe indispensabile.
  6. Nel frattempo, torna in gioco la questione del contributo della cultura cattolico-democratica a questo passaggio storico. Il cardinal Bassetti al Meeting di Rimini ha detto che quella in corso non è una crisi politica ma una crisi di sistema: è una affermazione molto interessante e importante, ma è solo la premessa. Bisogna svilupparla e ragionare a fondo sui 30-40 anni che abbiamo alle spalle, su cosa è successo nel mondo e in Italia, oltre che su cosa i cattolici e la chiesa-istituzione hanno fatto in questi anni. Si tratta di un ripensamento collettivo approfondito, che la cultura cattolico-democratica ha il dovere di sviluppare, magari anche evidenziando le diversità profonde tra credenti rispetto a questi nodi. Solo sulla base di questo percorso si potranno riportare le comunità cristiane che stanno nel nostro paese ad assumere un ruolo critico adulto, e quindi intraprendere una nuova stagione culturale che possa portare anche a ipotetici effetti politici.

Guido Formigoni

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