Severo richiamo di Piero Stefani, noto biblista, su Adista Segni Nuovi, ai cattolici conciliari i quali non si mostrano preoccupati della forte esposizione mediatica di cui è protagonista papa Francesco e che, per Stefani, non è affatto un buon segno, non va in direzione di far fronte alle vere sfide del cristianesimo, una delle quali è proprio la riduzione del peso della figura del papa (“I cattolici conciliari e papa Bergoglio”).
9 Febbraio 2015 at 18:59
L’amico Piero Stefani solleva un problema serio e reale, e si può essere d’accordo con lui su molto (ad esempio sulla sindrome da complotto che sembra affliggere una parte dei cattolici conciliari).
Tuttavia credo che alla sua tesi – che ritengo ispirata da autentico amore per la Chiesa – si possano muovere alcune obiezioni:
a) a due riprese Stefani rileva un contrasto tra “papa” e “Gesù Cristo” (“un evento che, de facto, vede al centro il papa e non la celebrazione del mistero di Gesù Cristo”… “comunicare la centralità del Vangelo, ma l’attenzione ricade più su di lui che su Gesù Cristo”). A me sembra un giudizio forse ai limiti del temerario: chi è in grado di distinguere – nelle coscienze dei fedeli ma anche “de facto” – i due atteggiamenti? chi può impugnare il coltello che separa l’uno dall’altro? E su quali basi? La storia della Chiesa – e anche quella personale di ciascuno di noi – è piena di figure “forti” per la loro personalità o per il ruolo ricoperto, dalle quali è passato, per chi era in grado di ascoltare, un annuncio autentico di Gesù. Che dire di Paolo di Tarso, di Ambrogio o Agostino? Che dire – venendo a noi – di papa Giovanni o del cardinal Martini? E’ possibile separare con un taglio netto, in loro e nella fede di chi li ascolta, l’annuncio evangelico da essi sinceramente vissuto e le circostanze storiche ed ecclesiali in cui si sono trovati a viverlo nella propria persona? A me pare di no.
b) Stefani rileva che “il pontificato di papa Francesco è mediatico come nessun altro in precedenza”, anche nel confronto con la figura di Giovanni Paolo II. Ma, come rileva del resto l’autore stesso, questo è dovuto all’evoluzione intrinseca dei mezzi di comunicazione. In altre parole, questo fenomeno fa parte di ciò che il nostro tempo “è”, non ha perciò senso (come a tratti Stefani dà, mi pare, l’impressione di pensare) ipotizzarne un altro, diverso e migliore. E’ qui, non altrove, che la Parola oggi va annunciata. I sette milioni di Manila non devono sconcertare: tra loro e le piccole folle a cui parlava il Gesù storico non c’è in definitiva alcuna differenza essenziale: sono, gli uni e le altre, “pecore senza pastore”. E noi con loro.
c) Mi pare che Stefani, nel suo giudizio sulla forte esposizione mediatica cui è esposto papa Francesco, enfatizzi troppo il “medium”. Con buona pace di MacLuhan, i contenuti sono tutt’altro che irrilevanti. Tra i predicatori di crociata e il papa Benedetto dell’“inutile strage” c’è magari somiglianza di impatto storico, ma differenza di contenuti. E tra la “politica” sudamericana di Giovanni Paolo II e quella di Francesco c’è paragonabilità di impatto mediatico, non certo di contenuti.
Capisco la preoccupazione di fondo di Stefani relativa all’auspicabile “ridimensionamento della centralità del papa”, ma forse le circostanze e l’arco temporale di questo (auspicabile) ridimensionamento non ci debbono angustiare più di tanto.
Dario Maggi
10 Febbraio 2015 at 18:13
Condivido il commento di Dario Maggi.
Il “culto della personalità” , diffuso nel mondo cattolico per il Papa può essere correttamente oggetto della preoccupazione di Stefani, ma qui abbiamo un papa che con lo stile di semplicità e accoglienza conquista per fortuna anche persone che, senza questa sua testimonianza non si sarebbero posti interrogativi di fede. Inoltre la centralità della sua figura non appare in contrasto con la coscienza della comunione ecclesiale; il papa riconosce i limiti del proprio compito, quando indica nelle conferenze episcopali il luogo più adatto per risolvere i problemi posti dalle varie situazioni e sottolinea il ruolo delle Chiese locali.
Ciò non è avvenuto neanche con Paolo VI che probabilmente aveva una visione della Chiesa culturalmente e teologicamente più alta, ma continuava a possedere una concezione del papa più tradizionale: la stessa apertura ecumenica, per la quale ha fatto passi decisivi, cozzava forse in Lui con una drammatica preoccupazione di restare fedele al compito assegnato al papa dalla tradizione degli ultimi secoli.