La dannazione dei riformisti

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Costituzionalmente in tensione tra la radicalità di una impostazione tanto sofferta quanto ponderata, e la responsabilità del compromesso fattibile e utile, non è davvero comoda la posizione dei riformisti in Italia.

Ancor meno comoda quella dei riformisti tuttora (per ora?) strenuamente militanti nel Partito Democratico. Nato per realizzare la sintesi (e la pratica) delle culture riformiste italiane in un contesto ultramaggioritario, e bipolare fino all’esasperazione, con Romano Prodi al governo, la Russia che chiedeva di entrare nella NATO e l’economia in lieve espansione; e finito poi progressivamente in una specie di Jugoslavia proporzionalista, frutto anche di una crisi economica mondiale a più ondate e il concretizzarsi della globalizzazione in un nuovo precarissimo assetto: in Italia, con il pesante aggravarsi delle distanze economiche, sociali e territoriali, e l’esplosione della povertà; nel mondo, con Siria e Libia distrutte, la Russia che riporta la guerra in Europa e Dio solo sa cos’altro ci toccherà vedere, in Africa, nel Mediterraneo, o nei mari dell’Estremo Oriente.

Insomma, mancò la fortuna e non il coraggio.

Non mancò nemmeno la visione.
Da cattolico democratico, ex DC e Popolare nell’Ulivo, ho percorso convintamente e fedelmente tutta la transizione, e nel 2007 ero certo che il PD fosse, anche considerata una certa americanizzazione della società italiana, l’approdo finale e giusto, per quanto mi riguardava: bisognava solo farlo andare nel migliore dei modi.
Mi ci rivedo, il giorno dopo, a parlare in un affollato discorso pubblico: la famiglia orgogliosa, la madre felice, il vento che mi agita il cappotto bello e un sigaro di soddisfazione pronto, quasi avessimo vinto la Coppa della vita.

Le cose sarebbero poi andate molto diversamente:
Giovanni Bianchi già allora aveva visto il possibile difetto fatale, nella tendenza ad incistarsi le correnti anziché mescolarsi, anche se mi sembrava temesse le stantìe contrapposizioni ideologiche in misura maggiore rispetto alle cordate di gestione di voti e potere.
Vedeva, il Giovanni maestro, anche il potenziale virtuoso: e cioè che il tempo, le nuove fasi e il lavoro comune avrebbero mescolato le ragioni e le visioni, dando pian piano vita a nuovi gruppi, nuovi orientamenti: al meticciato, come lo chiamava lui; lo vedeva possibile grazie anche all’ingresso delle nuove leve, via via che si fossero dimostrate capaci (alle cooptazioni dei vecchi sui giovani per conservare-trasformando, invece, è sempre stato dichiaratamente contrario).
Questo è certamente accaduto.

Quello che probabilmente non immaginava, ma aveva visto prima degli altri quasi subito, era che la sintesi tra la culture riformiste potesse realizzarsi nella maniera più semplice possibile: cioè nel nulla del pensare politicamente; un nulla direttamente proporzionale rispetto all’intensità dell’ossequio a padri e madri fondatori, e ad altri simboli.

La nientesi, potremmo dire, di un partito concentratosi sull’aspetto gestionale della democrazia pur essendo nel nome, nei fatti, nella missione naturale e nella proposta a cittadini ed elettori, IL soggetto chiamato a realizzare la democrazia compiuta.

E qui il ruolo fondamentale dei riformisti, chiamati a dare vita, anche tramite le correnti (che in quanto tali sono buone se sono in movimento e portano aria pulita, non l’inverso), al Partito principe della democrazia italiana.

Obiettivamente, qualcosa di importante si è tentato: penso che bisogna ringraziare tutti coloro i quali, dentro e fuori il partito, si sono impegnati sul versante delle riforme per adattare l’Italia al secolo della globalizzazione.
Purtroppo, nelle tante difficoltà materiali nelle quali il PD ha dovuto operare dal 2008 in poi, si sono inserite le guerre intestine che lo hanno portato ad un ricambio continuo (e sempre più conflittuale) di segretari e ad una conseguente prevalenza del principio di autoconservazione.
Una miopia letale, che molti partiti possono tollerare in una certa misura, ma che è inammissibile per un partito con queste caratteristiche.

Superfluo, in questa sede, approfondire quello che non è andato; tra le altre cose, l’azzeramento della rilevanza dei Circoli con la mortificazione degli iscritti (grottesca, se si pensa che tutti oggi abbiamo un telefono in mano e una bolla di messaggi…); la tendenza, pervicace e sovente disonesta, a scegliere candidati esterni penalizzando i militanti, magari perchè di una fazione diversa: quali riflessi intrinseci questa dinamica abbia sulla formazione di una nuova classe dirigente, è facile immaginarlo; l’abbandono del Mezzogiorno (conseguente, credo, alla impossibilità di interpretarlo basandosi solo sulla matrice del conflitto tra capitale e lavoro, monopolista della politica già dal ’48 in poi).
L’incapacità di comprendere il Mezzogiorno, poi le aree interne, così come la cronica inadeguatezza rispetto alle istanze dei ceti e dei distretti produttivi del Nord, ha connotato sempre più il PD come partito delle città, esattamente come accade ai Dem negli Stati Uniti.

Delle città senza però, curiosamente, mai diventare nemmeno un partito degli amministratori: che al sottoscritto non piace in linea di principio, vedendoci un potenziale difetto di politicità, ma ritengo sturzianamente (e italicamente, come nella Firenze di La Pira) che l’esperienza amministrativa sia un momento fondamentale della capacità politica.
Peraltro, le Regioni sono enti politico-amministrativi, quindi non ho capito perchè Elly Schlein abbia imputato un intrinseco difetto di politicità al proprio Presidente…

Per certi aspetti, tornando al partito delle città, parliamo di una dinamica diffusa anche nel resto dell’Europa Occidentale; l’Italia, però, è attraversata da linee di frattura specifiche, per cui i paragoni autoassolutori risultano da un lato errati e dall’altro inopportuni: per quel che il PD sarebbe dovuto essere, l’incapacità di parlare ad un popolo in maniera trasversale a queste linee di frattura rappresenta di per sé un fallimento.

Era senz’altro questo il compito dei riformisti: la progettata sintesi, puntualmente ricordata nelle analisi, non avrebbe dovuto essere solo un incontro di culture, ma in effetti anche un incontro tra esse e il Paese.
In tutta coscienza, si può dire che i tentativi siano stati fatti e si deve pensare siano stati fatti secondo le possibilità.

Le Primarie appena celebrate hanno prodotto una situazione politicamente sbilanciata e numericamente di stallo: Bonaccini vincente netto nei Circoli, Schlein segretaria, ma di poco (Cesare e il suo veni, vidi, vici impallidiscono di fronte a cotanta repentina vittoria).
Entrambi, con molte componenti tra i sostenitori: una situazione potenzialmente esplosiva che, ci pare, si stia tentando di comporre, in nome del’ Unità.
A danno, evidentemente, del ruolo e dell’agire dei riformisti.

I quali sono ad un ennesimo bivio: se restare in nome dell’Unità e nella laboriosa attesa di un diverso avvenire, o uscire da un soggetto che ha mutato pelle, parzialmente anche natura, e in cui la prevaricazione comunicativa del personaggio Elly e della macchina che la sostiene li farà passare tutti, inevitabilmente, per Schleiniani agli occhi dei cittadini; impossibilitati politicamente a perseguire la vocazione maggioritaria che -proprio- non possono non vedere come fondamentale nella propria impostazione e nella propria missione, ma ancorati dal senso del dovere a restare al proprio posto nel partito che hanno fondato e provato ad animare.

Contentarsi insomma di una ridotta di pensiero, o passare all’azione?

Turare le falle nella cavalcata neoprogressista della segretaria (cioè, portare acqua, e a chi?), oppure evidenziarne in vario modo le buche, lavorando al domani?

Il dubbio, mi sembra, è quanto mai contingente; e rode, nella consapevolezza che gli dei, al momento, sono loro contrari.

Capisco le ragioni parauliviste che possono spingere tanti amici a sforzarsi di vedere Elly Schlein diversamente riformista e/o capace di tenere insieme i “diversi riformismi”: e lo leggo come un modo gentile di dire un paternale “quei sottili indisciplinati che ti troverai davanti, bella mia”.
La banale verità, però, è che la rivoluzione e le riforme sono due cose parecchio diverse: e che Occupy non si concorda con il rappresentare, né nel secolo scorso, né in questo. E questo, forse, i dirigenti del partito se lo sono dimenticato. Magari in futuro si potrà fare a meno non solo degli iscritti, ma anche proprio dei partiti, in una dimensione più… meno densa, più eterea.

Tutto sommato, l’esistenza di una cesura simile rappresenta in se il principio: se della sua soluzione, della sua fine, o di una nuova “nientesi”, *però ancora non lo sappiamo.

Luca E. Caputo

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