Per Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo “La lezione della Brexit” è soprattutto che la crisi economica , l’inadeguatezza delle istituzioni a fronteggiarne gli effetti più negativi e la tendenza dei media a cavalcare le leggende antiestablishment favoriscono il malcontento, che è fatto anche di ignoranza e di pregiudizio (Unità). Marco Revelli legge diversamente “La lezione di Torino” (Manifesto) e critica proprio l’establishment sabaudo. Così anche Rita Di Leo, sempre sul Manifesto: “Nelle democrazie consolidate ‘il popolo’ e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il loro voto per vendicarsi” per non aver avuto politici all’altezza dei loro bisogni sotto scacco (“La vendetta degli sconfitti”). Per Barbara Spinelli, sul Fatto, il risultato del referendum britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati dei burocrati comunitari (“I leader di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni”). Sul Corriere della Sera Sabino Cassese si limita a dire che ora i governi devono smettere di voler tenere al guinzaglio l’Unione europea (“L’esito della Brexit è una lezione per l’Italia”). Per Stefano Folli, su Repubblica, c’è anche un’altra lezione, questa per Renzi: “L’azzardo di Cameron che palazzo Chigi non può permettersi”.
1 Luglio 2016 at 15:23
Passato il referendum inglese con la vittoria dei sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Europa che, per quanto possa non piacere è pur sempre una decisione legittima di un popolo sovrano che va rispettata, restano da gestire tutte le conseguenze positive (poche) e soprattutto negative (molte), di una scelta che ha grande rilievo a livello Europeo ma anche nella dimensione nazionale, se non nel merito sicuramente nel metodo, cioè dello strumento referendario.
Scrive Ezio Mauro su La Repubblica:
“Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell’opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c’è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro.
Sembra il massimo dell’espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l’espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l’istinto, l’emozione e la frustrazione, l’individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un’altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi.”
Mi chiedo quanto questa riflessione, riferita al referendum inglese, non sia valida anche per il nostro Paese chiamato ad esprimersi sulla riforma della Costituzione nei termini di “totalmente a favore o definitivamente contro”. Vero è che il ricorso al referendum per la riforma della Costituzione si rende necessario in quanto questa legge non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti di ciascuna Camera nella seconda votazione, ma proprio perché questo è vero la domanda resta se quella riforma era l’unica possibile sia nel merito che nel metodo, oppure se non “è l’espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa” di cui anche l’Italia soffre.