La paura dell’Islam.
Conversazioni con Nicolas Truong
di Olivier Roy
Edizione Corriere della Sera, 2016
Salvatore Vento
Parlare di Islam in questi tempi è davvero complicato, non solo perché nel formulare qualsiasi giudizio siamo sempre spinti da reazioni emotive, ma anche perché il mondo dell’Islam è davvero complesso e multiforme. Ben venga perciò un libro di gradevole lettura che raccoglie gli interventi, dal settembre 2001 al gennaio 2015, di un profondo conoscitore della materia: Olivier Roy, politologo ed editorialista del giornale francese “Le Monde”. Prima ancora dell’avanzata dell’Isis, e degli attentati del 2015 in Francia, afferma Stefano Montefiori nella prefazione, Roy è stato interprete di una sorta di terza via, una visione originale del jihadismo contemporaneo, alternativa alle due grandi impostazioni dominanti. Secondo la prima di queste due visioni (che potrebbe essere definita anche multiculturalista e di sinistra) il terrorismo islamico sarebbe la risposta, per quanto sbagliata e perversa, a secoli di misfatti occidentali (colonialismo, interventi militari in Iraq e Siria, lungo conflitto israelo-palestinese, discriminazioni nei confronti degli immigrati in Europa). La seconda visione, che rientra nel campo dei seguaci dell’idea dello “scontro di civiltà”, ritiene che le colpe ricadano integralmente sui musulmani, incapaci di separare la religione dallo Stato, e quindi non integrabili all’interno di un Occidente laico e secolarizzato. Occorrerebbe pertanto una revisione teologica che cancelli dal Corano la chiamata allo jihad. A sostegno di questa tesi vengono citati i cinque milioni di islamici con la cittadinanza francese non ancora sufficientemente integrati e sempre legati alle culture ancestrali dei paesi di provenienza (vedi soprattutto la sottomissione della donna).
Il punto di osservazione privilegiato di Roy è il comportamento di questi musulmani residenti in Francia dove si assiste a un fenomeno di radicalizzazione di due specifiche categorie di giovani: i musulmani di “seconda generazione” e i “francesi convertiti”. Non siamo di fronte all’estremismo islamico, ma a una islamizzazione dell’estremismo. I primi non aderiscono all’Islam dei genitori, non rappresentano una generazione in rivolta contro i valori occidentali, perché sono occidentali, parlano il francese meglio dei genitori e hanno condiviso la cultura giovanile della loro generazione. Essi non hanno quasi mai un passato devozionale e non sono frequentatori delle moschee. La ribellione nasce per l’assenza della trasmissione della cultura religiosa dei genitori, contestano ogni cosa e trovano nell’Islam salafista radicale la risposta al bisogno di punti di riferimento forti, come avviene tra i giovani convertiti. Non serve a nulla offrire loro un Islam moderato perché è il radicalismo in sé ad attrarli. Il jihadismo di questi giovani rappresenta l’esplosione dei conflitti generazionali, usano con facilità il web, dichiarano il loro nuovo credo su Facebook e la felicità per questa nuova onnipotenza raggiunta; la violenza che abbracciano è una violenza moderna, uccidono come i killer delle stragi in America o Breivik in Norvegia. Vivono nella cultura occidentale della comunicazione e della spettacolarizzazione della violenza, praticano l’auto radicalizzazione su Internet. Esprimono un profondo legame tra nichilismo e orgoglio di appartenere a una fede. La loro radicalizzazione avviene attorno a un immaginario fatto di eroi, di violenza e di morte. Sono più nichilisti che utopisti. La cellula cui appartengono si sforza di creare legami affettivi tra i membri, ricrea una famiglia, una fratellanza, recupera, a proprio uso e consumo, un’identità che i loro genitori hanno, ai loro occhi, disonorato. Quanto ai convertiti, essi scelgono l’Islam perché sul mercato dell’estremismo non è rimasto altro a disposizione, per aderire alla sinistra radicale bisogna aver letto dei libri cosa che questi giovani non fanno. Fossimo negli anni Settanta forse aderirebbero alle Brigate Rosse in Italia o alla banda Baader Meinhof in Germania. Unirsi all’Isis significa la certezza del terrore. La decapitazione è un cliché cinematografico, lo scopo è colpire l’immaginario della gente. Sul tema dell’integrazione, la posizione di Roy è altrettanto netta: in tutti gli ambiti della vita francese – dalla polizia alla pubblica amministrazione, dagli ospedali all’insegnamento – abbiamo cittadini francesi di fede musulmana. Il 15% dei soldati sono di confessione musulmana. I musulmani francesi non hanno mai voluto creare delle loro istituzioni di rappresentanza, e ancor meno delle lobby, non esistono delle reti di scuole confessionali, non esiste un voto musulmano, gli aspiranti alla carriera politica si distribuiscono su tutti i partiti, compreso il Front National. Non c’è nessuna “comunità musulmana”, ma c’è una “popolazione musulmana”. L’incremento del fondamentalismo religioso è ovunque l’espressione di una crisi culturale, non di un’affermazione identitaria. Per combattere un piccolo gruppo di terroristi, oggi molto isolati, bisogna puntare sulla maggioranza dei musulmani e sulle grandi tendenze in corso come l’emergere di una classe media musulmana. Il modello francese di integrazione, secondo Roy, funziona molto meglio di quello tedesco, olandese, svedese o britannico, ma è vero che è più conflittuale, la società è molto più mescolata, più mista.
La recensione è apparsa del settimanale culturale Via Po di Conquiste del lavoro, quotidiano della Cisl