L’ultima fatica intellettuale di Sandro Antoniazzi, già autorevole esponente nazionale della Cisl, ha prodotto un libro davvero utile non solo per tutti quei delegati sindacali che intendono affrontare il grande tema della mondializzazione del lavoro, ma per chiunque si interroghi sulle trasformazioni della società in cui viviamo (Sandro Antoniazzi, La politica mondiale del lavoro. Affrontare la globalizzazione, Jaca Book, 2021, pag. 128).
I temi affrontati sono sostanzialmente sei: l’organizzazione internazionale del lavoro (ILO); le multinazionali e le catene di valore; i lavoratori migranti; il lavoro informale; il sindacato internazionale; il sindacato europeo (la CES). Su ognuno di questi argomenti l’autore ricostruisce la storia, le contraddizioni, l’attualità e le possibili risposte. Seguiamo il ragionamento di Antoniazzi.
L’internazionalismo, che storicamente si presentava come un obiettivo ideale e politico del movimento dei lavoratori – riassunto nella celebre frase marxiana “lavoratori di tutto il mondo unitevi”- oggi è diventato prassi reale del capitale e della finanza. Il capitale si mondializza mentre i lavoratori riescono ad agire soltanto a livello locale. Nella sola città di Milano si calcola che siano 300.000 i lavoratori che fanno capo a gruppi stranieri. La centralità della fabbrica, che aveva rappresentato l’asse portante della progettualità sindacale e del confronto/scontro con l’impresa, nella fase della globalizzazione si è frantumata spostandosi in una miriade di aziende sparse nel mondo. L’area asiatica è diventata una grande officina dove si producono oggetti che troviamo nelle catene di negozi delle nostre città e dove i lavoratori sono sottopagati e privi di diritti. Il lavoro informale, in gran parte di Asia, Africa e America latina, secondo fonti ufficiali internazionali, viene praticato dalla maggioranza dei lavoratori, mentre nei paesi avanzati dilaga il precariato. Per non parlare del lavoro minorile che coinvolge 250 milioni di bambini e ragazzi, del lavoro forzato di 40 milioni di persone, dei 230 milioni di intoccabili (i Dalit) che appartengono alle ultime caste nei paesi tra India, Pakistan, Balgladesh e Nepal.
Problemi enormi che possono essere affrontati soltanto da istituzioni e associazioni internazionali. Tra queste istituzioni, l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), Agenzia delle Nazioni Unite, costituita all’indomani della prima guerra mondiale, è composta da rappresentanti dei governi, dei datori di lavoro e dei lavoratori di 187 nazioni con il compito di adottare norme internazionali. Il “lavoro dignitoso”, propugnato dall’ILO, diventa un principio unificante di un’idea dello sviluppo economico socialmente sostenibile; esso deve perciò essere correlato all’evoluzione dell’occupazione, della protezione sociale e del dialogo sociale. Per quanto riguarda le multinazionali, che dominano la scena dell’economia mondiale, il 53% di esse ha sede in Europa, ma se analizziamo le prime cento imprese per fatturato, 36 sono americane, 28 cinesi e soltanto 3 italiane. E sappiamo che tra le aziende americane le prime riguardano quelle delle nuove tecnologie informatiche comunicazionali e della rete web: Apple (che ha superato i 200 miliardi, la stessa cifra che andrà all’Italia dal Recovery fund!), Google, Microsoft, Amazon, Facebook. Collegate alle multinazionali sono le catene del valore o catene di approvvigionamento. Le multinazionali decentrano le produzioni nei paesi dove esistono meno vincoli sociali. Secondo gli ultimi dati, le multinazionali sarebbero oltre 300 mila con un’occupazione di 130 milioni di lavoratori.
Poiché la maggior parte di queste imprese ha sede nei paesi europei è possibile cominciare ad affrontare alcuni problemi come, per esempio, l’esorbitante remunerazione degli amministratori delegati, il ruolo dei fondi pensione, il peso dei risparmi dei lavoratori.
Sui migranti le cifre in tutto il mondo sono rilevanti. In Europa gli immigrati residenti superano i 9 milioni in Germania (pari all’11,7% della popolazione), i 6 milioni nel Regno Unito (pari al 9,5%), i 5 milioni in Italia (pari all’8,7%). Anche negli altri paesi più piccoli, in rapporto alla popolazione, abbiamo percentuali superiori a quelle italiane: Austria il 15,7%, Belgio e Irlanda il 12%. Secondo dati dell’ONU, tra il 2014 e il 2018 l’attraversamento del Mediterraneo da parte dei migranti ha provocato oltre 17 mila morti, mentre oltre 8 mila sono morti ai confini del Messico. Il problema è che non esiste, come dovrebbe, una regolamentazione e ciascun paese agisce secondo gli umori e le convenienze politiche del momento. I motivi di questi forti flussi migratori sono molteplici: fuga della povertà, fuga dalle guerre (Iraq, Siria, Afghanistan, Somalia, Eritrea), fuga dai disastri climatici. L’ultimo rapporto dell’UNHCR (Agenzia dell’Onu per i rifugiati), Global Trends, pubblicato nel 2020 in occasione della giornata mondiale del rifugiato, indica che nel 2019 esistevano 79,5 milioni di persone in fuga di cui 45,7 milioni sfollati all’interno dei propri Paesi e il restante 33,8 milioni fuggito oltre confine.
A questo proposito, una situazione ancora poco conosciuta è quella dei venezuelani. Il Venezuela, un grande paese con una superficie tre volte l’Italia, negli ultimi anni ha visto emigrare oltre 5 milioni di persone su 30 milioni di abitanti, a causa della disastrosa situazione politica ed economica: il salario minimo è di 4 dollari al mese, nelle abitazioni manca continuamente luce, gas e acqua. Pur essendo un paese ricco di petrolio, per avere la benzina occorre sottoporsi a code interminabili. Ciò rappresenta il crollo dell’ultimo mito “rivoluzionario” dove l’economia nazionalizzata è in mano a un gruppo di burocrati, autodefinitosi i protagonisti del “socialismo del XXI secolo”, che conserva il potere grazie all’appoggio dei militari.
Alla fine del libro, e alla luce delle esperienze storiche che hanno contrassegnato il Novecento, Antoniazzi, dopo aver affermato che la realtà sta procedendo molto più velocemente del pensiero, si chiede se esiste la possibilità di costruire una società più umana. Le risposte sono, ancora una volta, molteplici.
La tradizione rivendicativa del sindacato – dice Antoniazzi – deve allargarsi a una sfera più vasta e si deve collegare ad altre forze e associazioni per delineare una prospettiva comune: il movimento delle donne, le associazioni ambientaliste, le ong. Occorre incrementare la cooperazione sindacale a livello internazionale per ottenere regole vincolanti orientate alla sostenibilità sociale.
Esistono diverse associazioni internazionali molto attive, tra le quali ricordo soltanto le più conosciute come Wwf, Unicef, Save the children, Medici senza frontiere, la rete del commercio equo e solidale. L’obiettivo deve essere quello di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori dei paesi più poveri, dove le disuguaglianze arrivano ormai a livelli insostenibili.
Occorre formare i quadri sindacali sulle questioni internazionali. Anche i cittadini, in qualità di consumatori consapevoli, hanno il compito di scegliere prodotti certificati che rispettano l’ambiente e i diritti di chi lavora nella catena produttiva e distributiva.
La concezione allargata del lavoro va ormai oltre il lavoro dipendente e include la vasta gamma di quello indipendente, precario e informale. Col disastro provocato dalla pandemia del Coronavirus si è riscoperta l’importanza dei lavori prima sottovalutati: dal lavoro casalingo e di cura, agli addetti dei supermercati, i fattorini (rider) che portano i pasti pronti nelle case, ai tanti lavori manuali collegati alla pulizia degli ambienti. E per la prima volta è considerata lavoro anche l’attività artistica, teatrale, cinematografica e dello spettacolo, che peraltro si è espressa con un apposito manifesto in cui viene denunciata la scomparsa nei loro settori del lavoro stabile.
Ma, in questa ridefinizione del ruolo del sindacato, aggiungo io, bisogna riuscire a coinvolgere anche quei “professional” cosmopoliti delle imprese multinazionali che hanno maturato sensibilità sociali. Se siamo convinti della necessità di un cambiamento culturale adeguato alla modernità, dobbiamo proporre di rimodulare il lavoro in rapporto ai mutevoli bisogni che si presentano nelle diverse fasi della vita.
In conclusione, secondo l’autore, un movimento del lavoro fatto da persone, donne e uomini, lavoratori salariati e indipendenti, lavoratrici e lavoratori del settore informale e della sussistenza, che ritengono il lavoro una dimensione naturale della loro vita umana, costituisce una forza imponente per determinare le sorti del mondo. Una forza che va sostenuta, formata e messa in campo. Il libro di Antoniazzi è utile per questo, per favorire la formazione di una nuova cultura del lavoro e della società.
Salvatore Vento
- L’articolo è uscito sull’inserto “Via Po. Economia” del quotidiano della Cisl Conquiste del lavoro.