La Repubblica e le sue istituzioni: note sul referendum e il suo valore politico

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di Riccardo Saccenti, Comitato scientifico dell’associazione Argomenti2000

Il primo atteso passo del percorso di revisione dell’architettura istituzionale della Repubblica, o piuttosto un rischioso cedimento ad una logica populista, che mette a rischio la tenuta democratica dell’Italia?

Sono questi i due estremi di una discussione relativa al referendum costituzionale del 20-21 settembre che non solo investe piani diversi, da quello strettamente costituzionale a quello politico, ma divide in modo trasversale i partiti, realtà sociali e culturali. Dal punto di vista dell’opinione pubblica emerge, almeno fino ad ora, una chiara propensione a favore della riforma che riduce il numero dei parlamentari a 400 deputati e 200 senatori. Se è discutibile quale sia il grado di coscienza costituzionale con cui l’elettorato arriva a pronunciarsi sulla nuova composizione delle due Camere, può essere però utile provare a ripercorrere le diverse direttrici che si intersecano attorno a questa scelta.
Che il taglio del numero degli eletti in Parlamento abbia una storia antica è dato facilmente verificabile. Si tratta di un intervento che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, ritorna nelle diverse proposte di revisione della seconda parte della Costituzione che aspiravano a ridisegnare il quadro istituzionale della Repubblica, fino ad arrivare alla riforma rigettata col referendum costituzionale del dicembre 2016. Tuttavia, l’attuale proposta nasce dentro un quadro politico che, rispetto a quella lunga serie di riforme incompiute o non giunte alla ratifica finale, presenta elementi di profonda diversità. Si radica infatti nell’agenda politica del Movimento 5 Stelle, dentro una radicale messa in discussione della democrazia rappresentativa che, da un lato, aspira a dare molto più rilievo a istituti e pratiche di democrazia diretta e, dall’altro, vede la necessità di ridurre il perimetro della responsabilità politica e istituzionale degli organi rappresentativi e dei loro componenti. Per quanto confuso e forse superficiale nei suoi tratti, è questo l’orientamento politico da cui emerge l’idea di questa riforma costituzionale, entrata nell’agenda politica di due maggioranze parlamentari antitetiche per orientamenti, sensibilità e visione delle cose come sono state quelle che hanno sostenuto i due esecutivi guidati da Giuseppe Conte. Una circostanza riflessa nell’ampia e trasversale maggioranza che ha sostenuto la riforma nei suoi passaggi parlamentari, ma che, al tempo stesso, rivela una sorta di eterogenesi dei fini, in ragione della quale l’assenso di forze politiche fra loro così diverse non risponde all’esistenza di un consenso diffuso su quelli che dovrebbero essere gli assi portanti di una riforma complessiva delle istituzioni.
Alle ragioni del Movimento 5 Stelle, richiamate in precedenza, si aggiungono soprattutto quelle del Partito Democratico, che la direzione del 7 settembre ha ufficialmente schierato per il sì e che, nel corso dell’iter parlamentare, ha aggiunto i propri voti a sostegno della riforma dopo la formazione del secondo governo Conte e il patto di governo che includeva la riduzione del numero dei parlamentari. Nelle intenzioni del Partito Democratico questo passaggio, seppur circoscritto al solo tema del numero dei parlamentari, dovrebbe segnare l’avvio di un percorso di riforma che ora si renderebbero necessarie e quasi inevitabili per prevenire distorsioni derivanti dall’entrata in vigore della nuova composizione delle due Camere. Quello sposato dalla direzione del Partito e dal suo segretario è un approccio di carattere squisitamente costituzionale, che si fonda sull’assunto che una modifica degli equilibri istituzionali debba necessariamente innescare ulteriori interventi di revisione del dettato costituzionale in modo da mantenere il sistema istituzionale della Repubblica radicato nel proprio equilibrio democratico. La stesura di una nuova legge elettorale e più ancora interventi costituzionali di revisione della composizione dell’assemblea che elegge il Presidente della Repubblica e della forma bicamerale del nostro sistema legislativo sarebbero la logica e inevitabile conseguenza della ratifica della riforma. In questo scenario il Parlamento sarebbe, in un certo senso, costretto a dare corso ad un insieme organico e strutturato di interventi di legislazione costituzionale ed elettorale.
Può essere utile chiedersi se questo approccio integralmente costituzionale sia sufficiente a valutare l’attuale proposta e le sue conseguenze e più in generale se questo sia l’unico punto di vista da assumere rispetto a un processo di revisione dell’articolato della Costituzione, ampio o circoscritto che esso sia. Provando a “storicizzare” l’oggetto del referendum del 20-21 settembre dentro la vicenda della Repubblica degli ultimi decenni emerge un quadro complesso e sfaccettato, nel quale le proposte di riforma costituzionale rappresentano il precipitato di un intreccio di ragioni politiche ma anche di orientamenti e sensibilità culturali molteplici che sono passate attraverso tentativi di composizione parlamentare che si sono rivelati per lo più fragili nella loro capacità di fissare il perimetro di una riscrittura del patto costituzionale come luogo di riconoscimento della comune appartenenza alla democrazia repubblicana. Lo testimonia un approccio alle riforme che ha rapidamente visto emergere come attore principale non il Parlamento, ma il Governo o la maggioranza parlamentare.
Il fatto che l’esigenza di una riforma costituzionale faccia parte delle agende di governo piuttosto che delle sensibilità parlamentari suggerisce come il modo con cui si guarda alle riforme costituzionali e se ne elaborano le formulazioni risponde ad una logica politica piuttosto che costituzionale e trova giustificazione nelle attese e nelle aspirazioni delle classi dirigenti dei singoli partiti e movimenti politici piuttosto che nelle esigenze di un equilibrio complessivo della democrazia repubblicana, adeguato a dare strumenti efficaci di attuazione della Costituzione dentro una fase storica nuova, segnata oramai in modo decisivo dall’appartenenza allo spazio politico dell’Unione Europea. Tuttavia, l’intreccio fra la riforma costituzionale e agende di governo restituisce anche le ragioni delle fragilità delle proposte sin qui avanzate che emergono, oltre che da questioni di merito sui contenuti, dall’evoluzione del sistema politico italiano e del rapporto fra Governo e Parlamento per come si è riqualificato a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Il progressivo indebolirsi della capacità del Parlamento di incarnare la funzione legislativa in modo autonomo rispetto all’operare del Governo ha influito sulla capacità delle Camere di essere il centro di un processo di costruzione del consenso attorno ad una visione comune di riforma delle istituzioni. Si aggiunga a questo la debolezza del sistema partitico, instabile nella sua composizione, fatto di forze politiche difficilmente identificabili come il precipitato partitico di culture politiche riconoscibili e attraversate, in modo più o meno problematico, dalla grande questione del futuro dei partiti quali strumenti con cui i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49).
Rispetto a questa prospettiva, la lettura delle diverse proposte di riforma, inclusa quella ora sottoposta a referendum, rivela un volto più problematico e complesso, nel quale gli automatismi sottesi ad una valutazione strettamente costituzionale vengono meno. Emerge piuttosto una pluralità di variabili che sembrano sfuggire all’attenzione della discussione pubblica e che tuttavia, negli ultimi decenni, hanno giocato un ruolo cruciale nel determinare il fallimento o l’incompiutezza delle varie iniziative di riforma avviate o proposte. Pur cercando garanzie di passi successivi, sia quanto alla legge elettorale sia quanto alle integrazioni costituzionali del taglio dei parlamentari, la riforma attuale suppone un orientamento condiviso sull’ordinamento della Repubblica e sulla natura e forma della sua democrazia che è ancora indefinito e da costruire. Più ancora, la realizzazione di un vero patto costituzionale resta subordinata ad un accordo di maggioranza parlamentare intrecciato con il Governo in carica e il suo destino politico, con le fragilità e debolezze che ne conseguono. Uno scenario che rende indefinibili tanto i tempi quanto i contenuti di una proposta di revisione complessiva degli equilibri istituzionali della Repubblica. Criticità, queste, presentate in un documento dell’associazione Argomenti 2000.
Al di là dello specifico passaggio nella storia costituzionale italiana che viviamo in questi giorni è allora opportuno chiedersi se sia possibile misurarsi con l’urgenza di restituire spessore alla qualità democratica della nostra vita politica e istituzionale, senza cogliere la complessità storica in cui processi del genere sono coinvolti. È questo misurarsi con la realtà delle cose che permette, anche nella materia costituzionale, di procedere su un cammino certo difficile, faticoso e non immediato che porta ad elaborare e costruire un consenso politico e civico vasto e radicato sui pilastri che possono fondare una Repubblica italiana europea.

 

Riccardo Saccenti, Comitato scientifico dell’associazione Argomenti2000

 

One Comment

  1. L’ultima zattera peri 5Stelle per preservare l’identità di movimento antisistema e anticasta: questo è il significato più profondo del SI al referendum sulla riduzione dei parlamentari. L’ultima frontiera per difendere, almeno nell’immagine e dopo le tante sconfitte e il dimezzamento del peso elettorale, la diversità di una presenza politica che ha fatto della democrazia diretta e della messa in discussione di ogni autorità le proprie cifre identitarie.
    Per quanto scalfito e indebolito, il populismo ancora imperante sotto varie forme porterà senz’altro all’affermazione dei Si. Lo smottamento del fortino dei 5 Stelle sarà scongiurato e i loro leader avranno buon gioco a riprendersi il ruolo di dominus della scena politica, facendo coincidere, in maniera surrettizia, il primato formale nel Parlamento con quello nella società.
    Queste riflessioni naturalmente riguardano il contesto del referendum e non il testo del quesito referendario. I riformisti che sostengono le ragioni del Si e che culturalmente sono agli antipodi dei vari populismi, martellano su questa differenza per affermare che il cittadino è chiamato ad esprimersi sul merito della questione, a prescindere dalle conseguenze politiche che ne potrebbero discendere.
    E’ vero. Un conto è il contesto e altro è il merito. E tuttavia mi chiedo, tenere separati i due aspetti a quale logica risponde? Distinguere è sempre opportuno? In democrazia la forma è sostanza. Vero. In linea generale. Forse, soprattutto per chi si richiama ad una ispirazione religiosa, è altrettanto vero che l’esercizio del discernimento, virtù più proclamata che praticata, aiuterebbe a superare il limite della forma trasformata in questione di principio. Le questioni di principio, poi, facilmente rischiano di scivolare verso l’ideologia. Ecco, penso che la ratio della separazione sia meramente formale. E impiccarsi alla forma può significare la morte del riformismo.
    La molto probabile vittoria dei Si porterà senz’altro ad una riforma delle Istituzioni parlamentari. Il riformismo dei piccoli passi avrà ottenuto un primo importante risultato al quale se ne aggiungeranno altri. In questo modo si comporrà organicamente il processo riformatore. Lo stesso risultato, insomma, che una riforma organica della Costituzione avrebbe conseguito in un solo colpo. Il punto è proprio questo: quale processo riformatore scaturirà dalla vittoria dei Si al referendum? Il piano proposto dal PD, solo qualche giorno fa , che punta, tra l’altro, sul superamento del bicameralismo perfetto? Un piano che per diventare processo riformatore dovrebbe raccogliere un ampio consenso tra le forze politiche. Condizione molto difficile, considerati gli attuali equilibri di forza.
    Luigi Lochi

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