Abituati al calendario cattolico che entra nelle nostre case e che fissa per ogni giorno la memoria di santi o sante, abbiamo dimenticato una prerogativa che invece deve interessare la comunità, il popolo, la gente quotidiana a cui è rivolto già dall’AT l’invito alla ‘santità’: “Siate santi, perchè io sono santo” (Lv 11,44). Dio, parlando a Mosè e ad Aronne, tra le regole di ‘purità’ chiedeva al popolo di essere santo come Lui è santo.
Per santità si intendeva essere ‘separato’ da ciò che, per il popolo ebraico, appariva come ‘impuro’, privo cioè del principio vitale che era soltanto in Dio. Oggi potremmo tradurre che santo è ‘separarsi dal male’, dalla menzogna, dalla ingiustizia.
Gesù non ha tardato, come già fecero i Profeti, a rendere l’idea di santità una esigenza interiore e concreta. Le Beatitudini di Mt 5 sono la concretizzazione della santità. “Beati i poveri nello spirito” significa: “coloro che hanno lo spirito di povertà” (come ricorda Jules Isaac, famoso studioso ebreo, nel suo bel volume Gesù e Israele); i miti, i misericordiosi, gli uomini di pace, gli afflitti, i testimoni della giustizia: Gesù ha interpretato la santità del Levitico con una pratica di vita che porta sulla terra la santità che è in Dio.
Cosa significa ‘essere religioso’ se non tentare di vivere la nostra esperienza umana come ha fatto Gesù stesso? Lui è il volto concreto delle Beatitudini che ha predicato sul monte.
La festa del primo novembre (ma anche la memoria dei defunti che segue) cosa vogliono dire a noi, al nostro mondo, se non ricordare che c’è sempre stata una santità di uomini e di donne, che hanno illuminato la storia con esempi di testimonianza alla carità, alla giustizia, al faticoso sviluppo tra i popoli per la libertà, i diritti, la difesa dei poveri? Una santità assolutamente anonima, ma come vuole il vangelo, vissuta come sapienza e sale della terra. Una testimonianza a volte eroica, come lo è stato anche per tanti uomini al servizio sociale e politico dei propri paesi, che hanno salvato i loro popoli dal precipitare nell’abisso della distruzione.
La santità vissuta con gesti semplici, nascosti, quotidiani di infinite persone che hanno terso le lacrime di uomini e donne nella sofferenza delle guerre, dei lager, delle prigioni, degli ospedali, o anche la santità dei nostri genitori o amici che ricordiamo testimoni umili, semplici, affidati alla provvidenza di Dio senza incertezze, e che hanno sviluppato in noi e intorno a noi la fiducia nel bene e dell’accoglienza.
Senza dimenticare che nel mondo intero è sempre esistita anche la santità di chi non è cristiano, ma che ha sempre vissuto con la dolcezza della carità e del sacrificio generoso, pur in situazioni di estrema povertà, di malattie e miseria,
E’ un bel giorno quello della liturgia dei Santi, che non finisce col primo di novembre. E’ la santità del popolo di Dio: c’è come un ‘germe’ divino dentro le masse dei popoli, che fa rivivere nei secoli il detto rivolto a Israele: “Siate santi, perchè io sono santo”: un segno divino, ripreso dal Concilio, nella Costituzione sulla Chiesa, base ormai fondamentale sulla definizione della santità del popolo di Dio: “Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo…” (LG 9). Ed è per questo popolo santo che la chiesa non può fare a meno di sentirsi santa e bisognosa di purificazione come recita la stessa Costituzione al n. 8: “Ecclesia sancta et simul et semper purificanda” (8).
Sta proprio qui la modernità e la novità di questa chiesa, anche oggi, contro ogni resistenza: Dio, in Gesù continua a santificare la chiesa, ma essa deve essere capace di rinnovarsi nella purificazione. In quel “sancta simul et semper purificanda” sta la chiave per gioire di una festa che continua nel popolo di Dio.
Don Enrico Ghezzi