di Sandro Antoniazzi
Alcuni amici della Cisl hanno sottoscritto una lettera critica rivolta alla Confederazione in occasione dello sciopero generale del 29 novembre.
Anche a me è stato chiesto di aderire, ma ho declinato l’invito, per diversi motivi.
Le firme sono praticamente tutte di ex-sindacalisti, salvo qualche iscritto e una dirigente in carica (alla quale va tutta la mia stima). Non mi piace far parte di una categoria di ex: ricorda quello che siamo stati, ma non ci dà titolo per intervenire oggi.
In questo modo l’intervento appare provenire dall’esterno, ma le critiche in un’organizzazione devono provenire dall’interno e misurarsi negli organi direttivi.
Quando documenti di questa natura troveranno anche solo qualche decina di firme di dirigenti attuali meriteranno considerazione e apprezzamento, perché significa l’apertura di un reale dibattito nel sindacato.
Il contenuto poi è argomento di discussione.
La lettera sostiene che i dichiarati benefici sono solo la conferma dei provvedimenti dello scorso anno; è vero, però andavano finanziati e hanno comportato l’uso della maggior parte delle risorse disponibili.
Nuove richieste che, stando a quanto scritto nella lettera, richiedono “miliardi in doppia cifra” devono dunque trovare altri finanziamenti, che vengono individuati nella riforma fiscale, ma non quella del governo, che va in senso contrario, essendo rivolta alla riduzione delle tasse.
Più esplicitamente il volantino della Cgil chiede “di prendere i soldi dove sono: extraprofitti, profitti, rendite, grandi ricchezze, evasione fiscale e contributiva”.
Nell’uno e nell’altro caso non si tratta di rivendicazioni e di proposte – che richiedono esattezza e rigore – ma piuttosto di aspirazioni, desideri, espressione di ideali. Wishful thinking, direbbero gli inglesi.
Sempre nel volantino della Cgil appaiono due proposte più concrete: per quanto riguarda il lavoro si parla di un possibile blocco dei licenziamenti e per i salari della detassazione degli aumenti.
Il primo è un provvedimento che è stato attuato solo nella situazione economica del dopoguerra (e oggi siamo in un’economia moderna internazionale), la seconda sembra un’idea confusa e difficilmente attuabile (avremmo dei salari in parte tassati e in parte no).
Ciò che appare evidente, sia dalla manovra che da queste posizioni, è che la situazione economica è veramente difficile (nonostante le continua autogratificazioni della presidente Meloni sul buon andamento del paese).
La manovra è fatta da nove miliardi in deficit e da una cifra pressoché analoga di tagli (all’automotive, alla scuola, alle detrazioni fiscali, alle spese dei ministeri, ecc.); è dunque una manovra povera perché i soldi non ci sono. Ed è facile prevedere che anche le manovre dei prossimi anni saranno dello stesso tenore.
Dunque il problema a cui mettere mano – ciò che richiede l’assunzione di una seria responsabilità – è quella dello sviluppo economico del paese che è tutt’altro che positivo: significa affrontare il debito pubblico (che pesa ogni anno 90 miliardi di interessi), la produttività che in Italia è troppo bassa a confronto con gli altri paesi, dotarsi di una seria politica industriale, elevare la formazione dei lavoratori soprattutto digitale, favorire la formazione di imprese più grandi e innovative.
E’ su questi problemi che il sindacato dovrebbe svolgere un ruolo dirigente ed essere realmente presente prima di avanzare richieste, al fine di dimostrare di avere coscienza e competenza delle situazione.
Veniamo allo sciopero. E’ vero che le posizioni della Cgil sono più di protesta politica che sindacali ( e Landini non perde occasione di rimarcare questo suo ruolo di agitatore sociale politico) e dunque non accettabili, ma la Cisl non può chiudersi in uno sdegnato silenzio.
L’iniziativa della Cgil e della Uil, per quanto criticabile, ha un merito o perlomeno un vantaggio; chi si muove ha sempre qualche ragione.
Se la Cisl sta ferma e zitta, può avere delle ragioni, ma non viene considerata. Non basta avere delle ragioni: le ragioni che uno ha vanno sostenute nella pratica, nell’azione.
Questo appunto significa svolgere un ruolo dirigente – come veniva chiamato dai fondatori della Cisl, Pastore e Romani – ruolo che va espresso con coraggio nel confronto con le altre organizzazioni.
Diceva Churchill che ogni virtù non serve a nulla se manca il coraggio, perché il coraggio significa la forza per sostenerle.
Un’altra questione merita di essere richiamata, quella dell’unità; l’unità sindacale non è mai stata così debole come in questo momento. Penso che tutti i sindacati, compresa la Cisl dovrebbero porsi la questione (era anche il tema dell’ultima lettera inviata da Pierre Carniti alle tre Confederazioni).
L’unità non è un’opzione eventuale: se c’è bene, se non c’è pazienza. L’unità è vita per il sindacato, peri lavoratori; la disunione è non solo fattore di debolezza, ma anche di sfiducia, di rassegnazione. Per questo l’unità è un compito, un dovere per il sindacato.
Ci sono oggi posizioni molto diverse tra i sindacati, ma compito di tutti e certamente della Cisl è, anche in queste condizioni, ricercare sempre come sia possibile ricostruire unità e impegno comune.
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