di Stefania Salomone, in “Adista Segni Nuovi” n. 9 – 2012.
Una bella esperienza di accoglienza e condivisione nata nel senso della Comunità di base di San Paolo, a Roma. Comunità “di base” e non “ecclesiale” a tutti gli effetti, se per ecclesiale intendiamo in accordo con la chiesa locale. Comunità piuttosto autonoma, e, si potrebbe dire, tollerata, che ha sede (da una trentina di anni) in locali dell’Abbazia di San Paolo fuori le mura, di cui Giovanni Franzoni – ancora oggi membro attivo della comunità – fu abate negli anni 60 e nei primi anni 70. Un’esperienza non dissimile da altre che sono nate in locali di parrocchie e istituti religiosi, già da molti anni, ma che sono sempre troppo poco numerose rispetto non solo ai bisogni di accoglienza di persone che vivono ai margini, ma anche rispetto al bisogno di coerenza evangelica delle comunità ecclesiali che troppe volte resta disatteso (e ne siamo tutti responsabili)..
Primi mesi del 2010: un piccolo gruppo guidato dai giovani della Comunità di Base di San Paolo si riunisce per discutere della possibilità di offrire una colazione la domenica mattina nei locali della comunità, in via Ostiense, a persone in stato di necessità. Il dibattito dura a lungo. Alla fine si arriva alla conclusione che un’iniziativa del genere non corrisponde al comune sentire. Si voleva piuttosto qualcosa che andasse al di là del “fare per”, e che permettesse di “fare con”.
Già da tempo alcuni seguivano le complesse e alterne vicende dei profughi afghani presenti tra i binari dell’ex Air Terminal della stazione Ostiense, di fatto mai entrato pienamente in funzione. Una ventina di tende blu semi-nascoste nella struttura costruita per i mondiali di calcio Italia ’90 con una fila di bagni chimici come unico servizio permanente. Vi “alloggiano” a decine, quasi tutti uomini, a volte minorenni, che hanno affrontato viaggi infiniti e rocamboleschi pagando più di 5mila euro per attraversare Iran, Turchia e Grecia.
Coperti dai cartoni quando è freddo, all’aperto in estate e spesso senz’acqua corrente, convivono con la minaccia costante delle ruspe. Tanti di loro non vorrebbero restare in Italia, ma le normative europee li costringono a girare l’Italia alla ricerca di un improbabile lavoro per poi ritornare alle tende di Ostiense, che ritroveranno tali e quali nonostante le voci di imminenti sgomberi si susseguano da 10 anni, in un grottesco alternarsi di emergenze caldo-freddo.
Ed è lì che si decide di incontrarli, per farci guidare ed ispirare da loro. “La Sosta” nasce così, come momento di pausa, di incontro e condivisione, durante il quale mettere a disposizione i locali della comunità affinché i ragazzi possano cucinare i loro piatti tipici, mangiare, ballare, stare insieme tra loro e con noi.
Si inizia al sabato, con la spesa a piazza Vittorio, l’allegro mercato multietnico del quartiere Esquilino, a due passi dalla stazione Termini, dove si trova di tutto e sembra di stare in un bazar di una moderna cittadina mediorientale. L’amico Mustafà, proprietario del banco al quale ci serviamo, ormai ci conosce e ci serve con grande entusiasmo ed attenzione.
Poi la domenica ci si ritrova alle 15.30 insieme ai cuochi afghani di turno, per dare inizio all’attività di cucina vera e propria. Si sminuzzano e affettano cipolle, verdure e ortaggi, si taglia a pezzi la carne e la si insaporisce con le spezie. E naturalmente si prepara il riso che viene dapprima messo a bagno per qualche ora, poi cotto e stufato con pomodoro, ceci e uva passa.
Una volta avviata la cottura delle varie pietanze, rimane del tempo libero per fare amicizia e conoscere i ragazzi che nel frattempo hanno affollato il salone. E mentre molti giocano a carte o si cimentano in appassionate sfide a Forza 4, altri colgono l’opportunità per fare la doccia e radersi.
Alcuni danno inizio al rituale della tradizionale danza in cerchio, che ricorda le allegre ed affollate serate familiari dei loro villaggi in cui il ballo e il ritmo segnano la magia dell’incontro e della festa.
Le melodie sono particolari, sembra di ascoltare il lamento delle montagne di un tipico paesaggio afghano, con tonalità acute che provengono da un curioso strumento che, all’ascolto, sembra una sorta di flauto elettronico. Anche le voci che cantano i brani più ascoltati sembrano frutto di un lavoro di mixaggio effettuato con un sintetizzatore. Il tutto crea un effetto nuovo ed incantevole ai nostri orecchi.
Curioso è il fatto che quando si chiede a qualcuno dei ragazzi di tradurre le parole di quei canti, rispondono molto genericamente: «Parla del mio Paese, di amore, di tristezza», come se fossero i soggetti privilegiati dei loro pensieri, prima, durante e dopo il viaggio. E forse è proprio così. Nel loro Paese vivono infatti in grandi gruppi familiari, in cui amicizia e solidarietà sono il perno. E questa forma di protezione reciproca tra di loro è riscontrabile molto spesso anche qui; si aiutano nel disbrigo delle pratiche burocratiche, si difendono, si cercano, si stringono.
Certo non è tutto facile. In questi mesi ci siamo trovati talvolta in difficoltà per via delle enormi differenze culturali che ci caratterizzano e che stiamo tuttavia imparando a conoscere e ad accogliere. Una fra queste riguarda il rapporto dei ragazzi afghani con l’universo femminile, un rapporto spesso ingabbiato in schemi molto rigidi, a dire il vero più per via di tradizioni orali che di questioni di ordine religioso. È un aspetto col quale non potevamo non fare i conti visto che tra i volontari ci sono molte donne. All’inizio c’è sicuramente una certa diffidenza. Sanno che qui le cose vanno diversamente, quindi preferiscono in genere attendere di capire quale sia il nostro approccio, quanto riusciamo a tenere conto delle loro abitudini. È difficile per un afghano realizzare che in Italia le donne hanno diritto – perlomeno dovrebbero avere – di dire, fare, vestirsi come vogliono senza dover chiedere autorizzazioni al padre o al marito e soprattutto è difficile comprendere la ragione per cui, ad esempio, una quarantenne possa non essere sposata e viva senza una decina di figli al seguito.
Piuttosto radicata è anche l’attitudine a pensare in termini di clan; ci sono gli appartenenti e gli esclusi, c’è un capo e si seguono le sue indicazioni. Di solito questa figura di riferimento è il più anziano del gruppo. Per questa stessa ragione e con le stesse modalità hanno facilmente riconosciuto il “ministero” di Giovanni Franzoni che ha fin da subito suscitato in loro ascolto e rispetto.
Si pensava che il non parlare una parola di pashtu o di farsi avrebbe comportato maggiori difficoltà nei rapporti. Invece tra un italiano stentato, un inglese un po’ maccheronico e una gestualità universale ci capiamo piuttosto bene.
È interessante come questa nostra attività sia partita inizialmente solo con ragazzi di etnia pasthun, ma nel tempo si siano aggregati anche molti giovani di etnia hazara, condivisione che in Afghanistan o in Pakistan sarebbe impensabile, se non addirittura sconsigliabile. Abbiamo avuto modo di constatare alcune delle grandi differenze che esistono tra i due gruppi: laddove i primi sono più legati alla tradizione e timidi, gli altri sono più “occidentali” e “progressiti” in termini di abbigliamento, approccio e conoscenza delle lingue straniere. E anche di gusti musicali. Quando nel salone risuona una musica simil-techno sappiamo che i ragazzi hazara hanno collegato uno dei loro cellulari all’amplificatore e ci precipitiamo per guardarli danzare con le loro curiose movenze.
Ad un cenno dei cuochi che indica che la cena è pronta, di solito intorno alle 19, i ragazzi sistemano i tavoli e alcuni si offrono per la preparazione delle porzioni. Tutto si svolge con ordine e velocità poiché incombe l’orario massimo di rientro nei centri d’accoglienza o nelle case famiglia per i più giovani. Alla fine della cena si chiede che qualcuno degli afghani si fermi a dare una mano nel tentativo di rendere La Sosta un’iniziativa condivisa, in cui tutti i partecipanti si sentano coinvolti e decidano di assumersi una parte di responsabilità.
Abbiamo incominciato un paio d’anni fa senza sapere bene dove saremmo arrivati né cosa avremmo saputo realizzare, ma, a quanto sembra, i ragazzi afghani sono contenti di stare insieme, apprezzano gli spunti per la reciproca conoscenza e considerano questo appuntamento essenziale per la loro vita sociale, mai agevole. Non una “grande opera” o una struttura di assistenza, ma un piccolo segno di convivialità e di condivisione evangelica.
* Comunità Cristiana di Base di San Paolo