di Vittorio Sammarco
A volte quadretti di scene familiari provocano profonde riflessioni inattese. Siamo seduti a casa, di fronte alle immagini di papa Francesco che in carcere il Giovedì Santo lava e bacia i piedi dei giovani detenuti. All’udire la giornalista che fa il servizio televisivo, parlando di giovani emarginati dalla società, mio figlio esordisce severo anche se in modo pacato: “Società? ma se stanno lì vuol dire che qualcosa di sbagliato l’avranno pur fatto!”. Così sua madre ed io proviamo ad abbozzare qualche discorso sulle condizioni sociali che hanno determinato gli errori, sulle difficoltà di vita, sulle famiglie, sull’educazione, e così via. Lo convincono poco, perché suonano un po’ forzate, parole stridenti con quell’educazione da lui ricevuta che ha sempre parlato di responsabilità, di consapevolezza delle proprie azioni, di rispetto della legge e delle regole. Tutto quello che manca sempre più in questa nostra società fatta di “faccio quello che voglio e nessuno mi fermi”.
Così di fronte al dolore causato dagli errori, di fronte alle giovani vite che partono con il piede sbagliato, mi sono chiesto dove sta il confine tra regola e perdono, tra uguaglianza delle opportunità e seconda chance, tra la linea (dritta) disegnata dalla società e quella (storta) che spesso il destino ti consegna cinico. Mi sono chiesto, in fondo, se l’equilibrio sempre cercato tra giustizia e umanità non sia un problema irrisolvibile in via generale, ma valutabile solo di caso in caso. Di storia in storia. Di piede in piede.
E’ la saggezza misericordiosa del Cristo, che condanna l’errore e di fronte all’errante non giudica, ma ama, lava e riscalda. E della Chiesa tutta quando ha il coraggio e la franchezza di seguirlo senza altri fini.
Diceva un rivoluzionario amato da tanti: “Bisogna essere duri, senza mai dimenticare la tenerezza”. Ecco, io comincio a vacillare su quel “bisogna”. E –sarà forse l’età che avanza, o le immagini di papa Francesco – mi viene sempre più spontaneo il “non dimenticare”.