L’abate rivoluzionario

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Giovanni Franzoni, Autobiografia di un cattolico marginale, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2014, pp. 261

 

di Salvatore Vento

 

La lettura dell’autobiografia di Giovanni Franzoni, che si autodefinisce “cattolico marginale”, è ricca di insegnamenti per capire l’evoluzione della Chiesa istituzionale nei rapporti con la contemporaneità, negli anni della generazione del ’68 e della contestazione. Essa è stata trascritta da dettatura registrata perché il protagonista – scrivono nella nota introduttiva Salvatore Ciccarello e Antonio Guagliumi, della Comunità cristiana di base di San Paolo (Roma) – ha perso quasi totalmente l’uso della vista. Alcune sue intuizioni di quarant’anni fa, come quella della libertà politica dei cattolici che a lui tanto costò, godono già ora di normale cittadinanza nella Chiesa; altre, come l’auspicio di una Chiesa povera e libera da interessi mondani, costituiscono il filo conduttore di papa Francesco. In questa prospettiva più che di un cattolico marginale, forse bisognerebbe parlare di uno dei tanti profeti che nella testimonianza del Vangelo hanno incontrato la verità nella storia. Non dobbiamo dimenticare che le “esperienze pastorali” di don Milani nel 1958 furono condannate dalla gerarchia cattolica e oggi il papa argentino, nell’assemblea sulla scuola, cita il priore di Barbiana come un esempio da seguire.

Il libro comprende otto capitoli più un’appendice di lettere, documenti, fotografie. Giovanni Franzoni (classe 1928) nel 1950 entrò nel Monastero benedettino di San Paolo, diventò abate nel 1964 e partecipò alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II (che peraltro fu annunciato da Giovanni XXIII proprio in questa abbazia). Era il più giovane, almeno degli italiani: aveva 36 anni. Nel 1973 viene “ridotto allo stato laicale” e inizia un nuovo percorso di vita, di sofferenze, ma anche di amore che a 62 anni corona con il matrimonio di una donna giapponese, Yukiko.

Diamo ora direttamente la parola a Franzoni e cominciamo con il Concilio. Dopo il Vaticano I, che aveva proclamato in maniera netta l’infallibilità del papa e che aveva affermato che non c’è salvezza dell’anima al di fuori della Chiesa cattolica, nessuno al vertice curiale sentiva il bisogno di nuovi concili. Le discussioni nelle singole commissioni e gli interventi in aula erano in latino, lingua morta che tuttavia per la Chiesa continuava a essere lingua universale. Sullo scottante problema del celibato, avocato a sé da Paolo VI e quindi non discusso durante il Concilio, Franzoni afferma: questo problema va urgentemente ristudiato tenendo conto delle Scritture e dell’esperienza delle Chiese dei primi secoli, dove il celibato obbligatorio non esiste, come non esiste, salvo alcuni casi, nel cattolicesimo di rito orientale, per non parlare delle Chiese riformate, mentre da noi crea tante tensioni e priva la Chiesa dell’apporto di persone valide.

Subito dopo il Concilio, prosegue Franzoni, si cominciò a dire che i documenti dovevano essere interpretati alla luce della tradizione e che per alcuni i tempi non erano maturi. E il “rivoluzionario” abate, che fino al 1972 aveva sempre votato per gli uomini della sinistra Dc, poi con discrezione si avvicinò al Mpl (Movimento popolare dei lavoratori) fondato dall’aclista Livio Labor. Il suo progressivo spostamento a sinistra preoccupò la gerarchia vaticana che lo costrinse alle dimissioni. Il giornale “Il Tempo” di Roma, appresa la notizia, esultò di gioia: “L’abate rosso si è messo da parte, speriamo che stia tranquillo”. Il 31 luglio 1976 l’ex sant’Uffizio emanò la sentenza di riduzione allo stato laicale motivata in particolare per le posizioni assunte in occasione del referendum sul divorzio e di quello sull’aborto e per il voto al Pci.

Mentre elogia le iniziative di Paolo VI (Populorum progressio del 1967 e Octogesima adveniens del 1971), Franzoni appare  molto critico su Giovanni Paolo II perché il papa polacco ha soppresso tutti i fermenti teologici, ormai ghettizzati in periferia, togliendo la cattedra a teologi e teologhe che pensavano liberamente.

Ecco come descrive con onestà e senza ipocrisie la sua vita privata con Yukiko: “Nell’aprile del 1990 ci siamo sposati con il rito civile all’ambasciata italiana a Tokio, stiamo bene insieme. Non ha mai voluto apparire al mio fianco in comunità, per non mischiare la mia fede con il suo ateismo, ma solo tra gli amici con le loro famiglie. Ha partecipato soltanto alla ‘cena del martedì’ poiché di quella cena apprezzava molto il modo di stare insieme che le ricordava alcuni momenti felici della sua vita politica e di solidarietà in Giappone”. Per quarantasei anni, confessa Giovanni Franzoni, ho conosciuto la castità monastica, affiancata da  amicizie e da affetti sinceri all’interno dell’abbazia. Poi diciassette anni di viaggi, conferenze e politica che mi avevano indurito il cuore e durante i quali ho avuto qualche esperienza affettiva. Mi mancavano i sentimenti intimi, le relazioni tra temperamenti diversi. Ho scoperto la sessualità come arricchimento totale e non come deprivazione di energie che potrebbero essere dedicate al Signore”.

 

Salvatore Vento

 

*L’articolo è uscito sull’inserto culturale di “Conquiste del Lavoro” (settimanale della Cisl) del 21/22 giugno.

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