Che cosa significa “sguardo di genere”? Che cosa significa che la Chiesa è laica? La distinzione tra laicato, religiosi/religiose e ministri ordinati è molto problematica, e solo lo spazio maschile è considerato. Gli “uomini di chiesa” non seguono il modello maschile di Gesù, non mantengono la comunità di eguali voluta da Gesù, ed enfatizzano il valore dello spazio sacro, e quindi separato.
Si tratta dell’intervento tenuto dall’autrice al seminario dell’associazione Agire politicamente (socio fondatore di c3dem) tenutosi ad Assisi all’inizio di settembre.
Premetto che quando parlo di “chiesa” intendo popolo di Dio, mai gerarchia o magistero. Quando parlo di “uomini”, intendo maschi, mai esseri umani in generale. Resto in un’ottica binaria anche se sono consapevole che è in discussione. Parlare di laicità e differenza di genere apre orizzonti molto, troppo, vasti e implica discorsi su più piani. Quello che dirò quindi sarà assai parziale.
- Cosa significa sguardo di genere
Visto il titolo, parlerò della laicità della chiesa, di tutta la chiesa, nel mondo tenendo presente che la vita della chiesa e il suo modo di rapportarsi al mondo (da cui si distingue ma di cui fa parte) non è qualcosa di neutro ma qualcosa in cui la presenza di donne e di uomini, i loro corpi, il pensiero che questi corpi ha rivestito di caratteristiche, ruoli, limiti, valori ecc. hanno un peso.
Adotterò quindi uno sguardo di genere. Che non vuol dire (per un po’ di tempo è stato così…) parlare delle donne ma dare peso al fatto che in ogni realtà sono presenti uomini e donne, oppure o uomini o donne e questo ha delle conseguenze, genera un certo tipo di organizzazione, di regole e di parole anziché altre. Quindi avere uno sguardo di genere significa mettere a fuoco “sulla scena” le persone in quanto donne e in quanto uomini, esplicitare questa differenza, valutarla criticamente allo scopo di superarne gli aspetti oppressivi e valorizzarne il potenziale di liberazione. Per le donne e per gli uomini. Anche gli uomini hanno un gran bisogno di liberazione!
E se noi riusciamo a vedere criticamente nella realtà della chiesa (ma in ogni realtà) questo muoversi di donne e di uomini con i loro differenti corpi, le loro differenti storie e i loro differenti punti di vista, possiamo avere una visione più profonda della realtà stessa.
- Cosa significa che la Chiesa è laica
Dicevamo, la laicità come dimensione di tutta la chiesa. Cosa significa?
Che la chiesa non è Dio, è una realtà umana, limitata, sempre in dialogo con il Signore che crediamo vivente in mezzo a noi ma che noi, la chiesa, non possediamo, non conosciamo fino in fondo. La Santa Sapienza ci sfugge sempre, ci chiama continuamente a un di più, a un cammino, a restare sempre aperte e aperti a un oltre rispetto a ciò che possiamo pensare o dire di lei. Molto istruttivo il libro di Giobbe in questo senso: Giobbe pretende delle risposte da Dio ma ne ottiene solo altre domande che si potrebbero sintetizzare così: ma chi ti credi di essere tu per pensare di ingabbiare Dio dentro ai tuoi schemini?!
La chiesa non è Dio. È uno dei pallidi segni della presenza di Dio nel mondo. A volte molto pallida. Dio è sempre al di là dei nostri concetti, dei nostri dogmi, dei nostri riti delle nostre, a volte ridicole, immagini (l’omone con la barba, muscoloso, pelle bianca, rigorosamente maschio…). Ma anche le metafore migliori e le caratteristiche più nobili non possono esaurire la Santa Sapienza e ciò che ci vuol dire!
Ancora, la chiesa è laica perché deve camminare nelle strade del mondo, “all’aperto” (e qui attingo alle relazioni tenute dal teologo Ermes Ronchi a Parma qualche mese fa e che citerò testualmente più avanti): i luoghi principali della chiesa sono le strade, le case, la tavola perché è Gesù che ha vissuto e predicato, con il suo piccolo gruppo di seguaci, donne e uomini, molto più nelle strade, nelle case, a tavola… che nelle sinagoghe e nel tempio.
- La distinzione tra laicato, religiose e religiosi, ministri ordinati
Se questa è una descrizione plausibile della laicità della chiesa e se parliamo appunto di laicità della chiesa e non di un gruppo all’interno di essa, diventa discutibile la divisione nei tre gruppi a noi noti: laici/laiche, religiose/i e ministri ordinati.
Hanno senso, sono validi i diversi ruoli assegnati a questi gruppi? Annunciare il Regno occupandosi delle cose del mondo per il laicato (testimoniando l’essere nel mondo della chiesa) vivere con radicalità i consigli evangelici e testimoniare il “non essere del mondo” della chiesa per religiose e religiosi, insegnare governare (esercizio dell’autorità) e santificare (incarnare/occupare l’ambito del sacro) per i ministri ordinati?
In realtà questa distinzione di ruoli esiste solo in teoria (e anche lì solo in parte) perché è evidente che se ci sono spazi che per laici e laiche sono inaccessibili perché riservati al clero (diciamo lo spazio dell’autorità e lo spazio del sacro per intenderci), di fatto non ci sono spazi riservati al laicato.
Esempi: il segretario di Stato Parolin, durante la crisi del governo Draghi è intervenuto pubblicamente invocando stabilità, il vescovo dimissionario di Verona ha dato indicazioni di voto per il ballottaggio, il card. Zuppi interviene spesso sull’attualità politica, il vescovo di Roma nei suoi documenti entra a piè pari in temi politici, tecnici, scientifici, un prete può esercitare una professione (dall’insegnante al prete operaio…), si occupa molto spesso di leggi, questioni burocratiche, soldi, edifici, strutture, rapporti con enti locali… Stessa cosa si può dire per gran parte di religiose e religiosi che sono negli ospedali, nelle scuole, sono perseguitati per il loro impegno sociale….
Diciamo che religiose e religiosi e ministri ordinati sconfinano ampiamente nell’ambito “secolare” mentre non avviene e non può avvenire il contrario, in particolare non può esserci nessun sconfinamento di laici e laiche in ruoli riservati al clero: per celebrare l’eucarestia è necessario il ministro ordinato e così per quasi tutti i sacramenti, proibito a una persona laica predicare durante la celebrazione eucaristica, esercitare il magistero, avere l’effettiva responsabilità di una parrocchia.
È una distinzione a senso unico.
- Due gruppi misti, un gruppo maschile. Perché?
Questa discutibile suddivisione presenta inoltre un evidente squilibrio: i primi due gruppi li decliniamo al femminile e al maschile mentre l’ultimo gruppo lo definiamo solo al maschile. Molto importante nominare le differenze – nominando la presenza di donne e di uomini – perché se io avessi detto laici, religiosi e ministri ordinati, sarebbe meno facile accorgersi dello squilibrio e chiedersi: come mai i primi due gruppi sono misti mentre il terzo è solo maschile? Ha senso? Corrisponde al messaggio di Gesù?
Il Magistero ecclesiastico afferma che a queste domande ci sono risposte chiare, addirittura indiscutibili:
I 12 erano maschi, afferma la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio Sacerdotalis, e per non tradire la volontà di Gesù i loro successori devono necessariamente essere maschi. Il magistero ecclesiastico sostiene di non avere l’autorità per cambiare una scelta che apparterrebbe alla Tradizione. Gesù era maschio, aveva affermato anni prima, ai tempi di Paolo VI, la Congregazione per la dottrina della fede con la Dichiarazione Inter Insigniores, e solo i maschi possono rappresentarlo.
Come capo però. Come servo, anche le donne.
Ragioni davvero debolissime per una scelta tanto drastica.
A mio parere la radice, o una delle radici, di questo sistema, in realtà, sta nel bisogno maschile di conservare difendere la propria identità di genere che purtroppo è sempre stata legata a qualche forma di potere su qualcuno e/o su qualcosa. Tra questo “qualcuno” ci sono sempre state le donne, certo, ma non solo. Una identità di genere inoltre ipertrofica perché si è identificata con l’umano in quanto tale. Pensiamo a come viene raccontata la storia, per esempio, la storia della chiesa, come storia di papi, storia di teologi (anche in questi giorni!). Oppure la storia del cattolicesimo democratico (anche in questi giorni) come storia di politici e intellettuali. Tutti, invariabilmente, maschi. (Il problema non è tanto, o solo, che ci si dimentica delle donne, ma che non ci si accorge che non si sta raccontando “la storia” ma “la storia maschile”). Pensiamo al termine uomo che pretende di andare bene sia per gli uomini che per le donne.
È questo alla fine quello che voglio dire, ciò attorno a cui ruota il mio discorso.
A questo punto io potrei dilungarmi sull’assurdità dell’esclusione delle donne dal ministero ordinato: non ha fondamento biblico (già il parere della Commissione biblica messa al lavoro – e poi ignorata – da Paolo VI nel 1976 sull’ordinazione delle donne, lasciava aperta la questione) e non ha nemmeno fondamento razionale. Che la conformazione dei rispettivi corpi, la composizione cromosomica xx o xy determini la possibilità o meno di accedere a un sacramento è evidentemente senza senso.
Ma non è su questo che vorrei insistere anche perché potremmo anche dire un po’ provocatoriamente che le donne nei fatti sono meno escluse di quel che sembra perché nella concretezza della vita di parrocchie e associazioni esse ci sono, esercitano di fatto molti ministeri e anche un certo potere. Molte parrocchie chiuderebbero se sparissero le donne.
Io quindi non voglio parlare dell’esclusione delle donne, ma puntare l’attenzione sugli uomini che teorizzano, organizzano e praticano questa esclusione.
- Chi sono questi uomini?
La domanda allora che vorrei porre è la seguente: chi sono questi uomini di chiesa che così pervicacemente hanno teorizzato la loro superiorità sulle donne e hanno limitato la loro libertà? Chi sono questi uomini che ancora oggi, non teorizzano più l’inferiorità delle donne (anzi, a volte sembra che ne esaltino curiosamente quasi la superiorità! Pensiamo alla retorica un po’ stucchevole del “genio femminile” …) ma ne continuano a teorizzare l’esclusione da alcuni spazi? Chi sono questi uomini che si ostinano a mantenere spazi di potere a loro riservati come fossero voluti da Dio stesso? Cosa pensano di sé stessi in quanto uomini? Cosa pensano del modo in cui esercitano la loro maschilità? Sono consapevoli di incarnare una parte dell’umano e non l’umano in quanto tale rispetto a cui le donne sarebbero “l’altro”, la differenza?
Io penso che pochissimi uomini e, tra questi, pochissimi uomini di chiesa, abbiano riflettuto sul loro essere maschi. E invece proprio qui, a mio parere, sta uno dei nodi perché un certo modo di essere chiesa che è in contraddizione con la sua laicità e che le donne hanno spesso fattivamente contestato, e rispetto al quale hanno creato valide alternative, ha molto a che fare con il modo di pensare, o di “non pensare” il maschile.
Abbozzo qualche risposta un po’ provocatoria.
Innanzitutto, si tratta di uomini che non hanno riflettuto sul modo in cui Gesù ha vissuto il proprio essere maschio. Pensiamo un attimo a Gesù – attingo liberamente dal testo della teologa Simona Segoloni Ruta (Gesù maschile singolare, EDB Bologna 2020): non si è sposato e non ha avuto figli, ha quindi rinunciato a esercitare poteri tipici dei maschi del suo tempo, sulla moglie e sui figli. Gesù non è mai stato capofamiglia, non è mai stato padre, ma solo figlio. Per inciso: come mai invece i ministri ordinati (che secondo una teologia ancora diffusa, in quanto maschi, assomiglierebbero di più a Gesù) nella chiesa vengono comunemente chiamati “padre”?
Ancora, solo per fare qualche altro esempio: Gesù che si mette il grembiule e lava i piedi dei suoi amici e delle sue amiche, Gesù che esprime emozioni (cosa generalmente proibita agli uomini), Gesù che si dà da mangiare esattamente come una madre si dà da mangiare alla figlia o al figlio quando la porta in grembo e quando la allatta. In generale, e qui cito testualmente Segoloni: “Gesù non domina nessuno, non occupa posizioni né ruoli, tratta le donne alla pari, condivide la condizione delle vittime, destruttura la famiglia e il sistema gerarchico sociale e religioso” (op.cit p. 25).
Questo modello maschile così inusuale non è riuscito a scalfire il modo in cui i maschi, si sono pensati né la cultura egemone, condivisa peraltro da molte donne, che ha definito il maschile. La quale viceversa si è spesso indissolubilmente legata al potere come volontà di dominio. Ma non così Gesù!
In secondo luogo, si tratta di uomini che modificano radicalmente quella “comunità di uguali” impostata da Gesù
Prima della Pasqua e immediatamente dopo, infatti, la comunità cristiana si struttura appunto come comunità di uguali marcando una profonda differenza rispetto al contesto sociale e religioso del tempo che era fortemente patriarcale. Nel giro di pochi decenni però questa differenza sparisce e la comunità cristiana diventa un’istituzione gerarchizzata, in cui il potere di guida è in mano a uomini che si sentono tali solo esercitando un dominio innanzitutto sulle donne ma non solo. È una tendenza che si consolida nei secoli nonostante i tentativi di riforma e di ritorno allo spirito evangelico. Le riforme “dall’alto” portano certamente novità positive ma più di una volta diventano “…complessi processi di ordinamento religioso e politico che hanno comportato la modifica di assetti istituzionali e teologici in linea più con la difesa dei privilegi della casta clericale che con l’affermazione dei principi ideali del vangelo”. È ciò che la storica e teologa Adriana Valerio afferma a proposito delle riforme gregoriana e tridentina (A. Valerio, Donne nel medioevo in C. Militello, S. Noceti, Le donne e la riforma della Chiesa, EDB, p. 98). E anche i tentativi di libertà e creatività evangelica di tante donne che amano Cristo e la Chiesa vengono spesso osteggiati in tutti i modi: dalle beghine del medioevo nordeuropeo, viste come una minaccia per l’istituzione, alle congregazioni femminili di vita attiva che nascono nel XIX secolo, riconosciute da Leone XIII nel 1900 dopo moltissimi ostacoli e dopo che furono imposte loro forti limitazioni alla libertà e alla creatività pastorale che le avevano fatte nascere (si veda su questo anche Mary Melone, La profezia dei bisogni, in op. cit. pp. 135-150).
In terzo luogo si tratta di uomini che hanno conferito un’enorme importanza al culto, agli spazi “sacri”, a ciò che avviene attorno all’altare. Ma Gesù, dice Ermes Ronchi, non parla mai di altari e sacrifici. “Ha celebrato l’ultima cena, se vogliamo la prima messa, dove? A tavola, non in sinagoga. La tavola di casa è il primo altare del cristianesimo, quello della chiesa viene dopo è un sostituto, un surrogato, un ripiego. (…) Gli altari non appartengono al cristianesimo come li vediamo oggi, sono un’eredità spuria, un cascame culturale ereditato dal paganesimo e dal giudaismo. Sono il luogo del sangue, del fuoco, del sacrificio. Gesù non parla mai di altari, mai di sacrificio se non per dire: l’amore voglio e non il sacrificio.
Troppa importanza è stata data agli altari e a ciò che si fa attorno all’altare.
Troppa importanza al sacerdozio che ha nell’altare il suo luogo di potere e troppo poco al sacerdozio battesimale comune, alla profezia e alla creatività dello Spirito. Gesù non è venuto a insegnare nuove liturgie, ma a guarire il disamore del mondo a partire dalle nostre case” (qui).
Dio non possiamo rinchiuderlo nel cosiddetto spazio sacro: è presente, da testimoniare e incontrare nella vita normale, quotidiana. E la realtà normale e quotidiana è il principale spazio della chiesa.
Invece una delle caratteristiche della nostra chiesa è la centralità dei sacramenti e in particolare della celebrazione eucaristica che non si può fare senza ministro ordinato. C’è una quasi ossessiva ripetizione di celebrazioni eucaristiche. Non solo la domenica ma tutti i giorni e in tutte le occasioni: corsi, convegni, ritrovi, esequie, battesimi, matrimoni, anniversari… un’abitudine molto cattolica.
Ma il modello che ci viene proposto da Gesù non è quello del sacerdote o del levita (se prendessimo sul serio la parabola del Buon Samaritano ci parrebbe molto strana l’idea che chi sta attorno all’altare o chi si allontana dal mondo sia più vicino a Dio…) ma del laico (ed eretico!) samaritano che risponde all’appello del poveraccio aggredito.
La divisione tra sacro e profano, tra realtà religiosa e realtà laica non la troviamo granché nei vangeli: Dio che si fa uomo abolisce ogni separazione! Come scrive la teologa Lilia Sebastiani: “Quanto più l’essere umano sarà umano, tanto più Dio potrà essere presente nel mondo attraverso il suo Spirito. Dopo l’evento di Gesù non vi è più bisogno di sacerdoti, né di tutto l’apparato sacro: tempio, culto, legge intesa come insieme di precetti, e relative esclusioni. Il rapporto con Dio è im-mediato, è vicino, è totale; ed è stato Gesù a sancire questa vicinanza con il suo messaggio e la sua persona. (…) Se si dovesse attribuire un ‘ruolo’ anche a Dio, forse il suo sarebbe più vicino a quello dei laici che a quello del clero…” (cfr. Rocca 5.2022).
Io penso che purtroppo la celebrazione eucaristica con il suo corredo di indispensabilità, centralità ed enorme potere del presbitero – pensiamo per esempio alle liturgie frettolose e sciatte, alle omelie lunghissime, a volte improvvisate, a volte paternaliste, a volte offensive che un’assemblea subisce; oppure, viceversa, a celebrazioni belle che aiutano la preghiera, a gustare la Parola di Dio. Ci sono preti che addirittura cambiano le parole del Credo, pur con ottime motivazioni, ma d’autorità. Nel male o nel bene, tutto dipende da come è fatto e da come si comporta il prete –, la celebrazione eucaristica, dicevo, sia diventata lo spazio principale di un’identità maschile che non riesce a vedersi senza potere, un potere sancito da uno spazio sacro da occupare in modo esclusivo.
In quarto luogo, questi uomini iniziano a elaborare dottrine tendenti a sistematizzare e cristallizzare in norme morali e rituali il kerygma, a stabilire ciò che è nei confini della verità divina e ciò che ne è fuori. Anche prendendosi enormi libertà rispetto alla Scrittura e alla testimonianza di Gesù. Pensiamo solo al fatto che essi cominciano a definirsi “sacerdoti” con un’operazione linguistica a mio parere molto grave che distorce il senso del popolo di Dio. Nel Nuovo Testamento si parla di Gesù come unico sacerdote e in lui tutti i battezzati e le battezzate costituiscono un popolo sacerdotale. Mai nel Nuovo Testamento il termine “sacerdote” viene attribuito a presbiteri o vescovi né si mette in relazione il termine “sacerdote” con l’Eucarestia (Cfr. Dichiarazione della Pontificia Commissione biblica sull’Ordinazione delle donne, 1976).
Lo stretto legame tra identità maschile e volontà di dominio ha così significato anche il tentativo di “dominare Dio stesso” attraverso formule, dottrine, norme, attraverso la pretesa di definire la volontà e il pensiero di Dio, addirittura la Verità, in modo ben delimitato e immutabile. La dottrina del sacramento dell’Ordine riservato agli uomini dichiarata “sentenza definitiva” (Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis) ne è un esempio recente e chiaro ma, ovviamente, non unico.
Afferma una delle madri della teologia femminista italiana Cettina Militello che la gerarchia “propone forme considerate definitivamente e indefettibilmente veritative senza avvertire la dipendenza delle stesse da modelli obsoleti ormai esauriti nella loro vivacità/aderenza valoriale e, perché tali, in totale rotta di collisione con i temi che li hanno al passato supportati. L’evento ecclesiale non è estraneo alla storia e alle culture e dunque al peregrinare che le connota”. Esattamente come il soggetto umano che è “soggetto nomade per antonomasia a partire dalla mitica fuoriuscita dall’Eden e poi nelle tante traversie del suo lungo e travagliato divenire”. (C.Militello, Donne e riforme di chiesa. Proposte operative, in C. Militello, S. Noceti, Le donne e la riforma della Chiesa, EDB 2017, p. 280)
Un Dio trinitario e quindi relazione dinamica e “mai conclusa” di Persone amanti, un Santo Mistero “uno” ma molteplice che si fa carne e si rivela nel limite e nella debolezza, testi sacri che sono narrativi e non dogmatici, avrebbero dovuto condurre su strade diverse, ma così non è stato. Così, uomini di chiesa hanno impedito che fosse.
Chi si è assunto l’onere di esercitare l’autorità nella chiesa ha di fatto ingabbiato Dio dentro schemi umani, e questo lo ha fatto per difendere la propria identità maschile, per non mettere in discussione la sua caratteristica ritenuta fondante: dominare. Le donne, certo, ma anche molto molto di più.
- Conclusioni
Gli uomini hanno purtroppo legato la propria identità di genere al dominio, al potere sugli altri, alla tendenza a sottomettere. Se gli si toglie questo non sanno più chi sono, si sentono perduti.
La cultura patriarcale che ha segnato la storia della chiesa e ancora per tanti aspetti la caratterizza (faccio solo un esempio fresco di stampa: nel recente documento della Cei che viene consegnato alle Chiese locali per orientare il secondo anno del Cammino sinodale, dal titolo I cantieri di Betania, si parla della chiesa domestica, affermando che in essa la comunità vive “una maternità accogliente e una paternità che orienta”. Un modo elegante per dire sempre la stessa cosa).
Dicevo, la cultura patriarcale che ha segnato la storia della chiesa e ancora per tanti aspetti la caratterizza, è legata all’idea che “non c’è maschile senza dominio” (per millenni si è dato per scontato che non potesse esserci dominio senza maschile – le donne non potevano governare, non erano considerate capaci – ma l’idea vera è che non c’è maschile senza dominio), quindi senza struttura gerarchica, senza verità ben definite a cui adeguarsi, senza sacralizzazione dei ruoli maschili, perché appaiono più potenti, elevati rispetto al popolo dei semplici fedeli. Il dominio sulle donne è solo un aspetto, pur paradigmatico, di questa cultura del maschile.
Ed è questa che va messa in discussione! E non solo perché ha danneggiato le donne quanto perché ha immiserito gli uomini e soprattutto ha allontanato la chiesa dal vangelo! Non è solo una questione di rispetto della dignità delle donne come battezzate, c’è in ballo ancora di più: la dignità degli stessi uomini e la fedeltà della chiesa al vangelo.
C’è dunque una laicità della chiesa da recuperare, riprogettare, ripensare, che non può non implicare una riflessione sul maschile che devono fare innanzitutto gli uomini che spesso sentono ancora il peso di quel pensiero che ha rivestito il loro corpo e che avvertono ora, a volte, come inadeguato e questo li rende fragili e incerti. A volte, come reazione, li rende rigidi fino alla violenza.
Questo modello maschile è stato introiettato anche da molte donne ovviamente mentre alcuni uomini se ne sono liberati. Ma anche quelli che se ne sono liberati devono farci i conti se vogliono portare un contributo significativo al cambiamento.
Ciò che ci distingue uomini e donne è il corpo e, io dico, la storia, cioè per noi donne la storia di sottomissione e umiliazione ma anche di lotta e forza, mentre per gli uomini è una storia di dominio (anche l’uomo di ceto più umile doveva dominare sulla moglie e sui figli…), della forza del potere, di compiti di protezione, proibizione di manifestare molte emozioni…
Tutti dobbiamo fare i conti coi nostri corpi e con la storia che ci fa essere ciò che siamo, per capire chi siamo e che cosa vogliamo essere. Per andare oltre e far fiorire il nostro essere nella libertà. Le donne hanno fatto molta strada su questo. Ora tocca agli uomini. Anche a quelli che si sentono già “liberati” ma che devono sentire la responsabilità di tutti gli altri. Come tutte quelle donne che, pur vivendo libere dalle oppressioni del passato, lottano per le loro sorelle ancora ingabbiate.
È un compito difficile perché molti uomini di chiesa “Non riescono ad essere patriarcali fino in fondo, ricacciando le donne dove il patriarcato le vuole, perché lo riconoscono (…) come sbagliato, ma non riescono a pensare niente altro e vorrebbero lasciare tutto com’è, sperando che le donne trovino il modo di esserne contente e di custodire (come hanno sempre fatto) le relazioni. Si tratta di una debolezza a tratti sconvolgente che rivela crisi di identità e paura” (cfr. Simona Segoloni Ruta, Fratelli, ce la facciamo a uscire dal patriarcato?).
Solo una chiesa che ripensa profondamente il genere maschile liberandosi da una gerarchizzazione, un patriarcalismo, una sacralizzazione di alcuni ruoli ormai insostenibili, da gabbie concettuali e canoniche…potrà migliorare la propria relazione con il mondo da cui molto ha da imparare e a cui può molto donare. Laicità è il contrario di dogmatismo, pretesa di avere la verità. Una chiesa più laica sarà più capace di dialogare con il mondo, saprà rispettare le culture, le religioni, la scienza, le istituzioni nella loro autonomia e nel loro valore, ma potrà anche portare nel mondo la profezia del vangelo.
Non credo che il compito della chiesa sia quello di dispensare le risposte di Dio alle domande del mondo. Quanto paternalismo in questo atteggiamento! Ammesso che Dio dia risposte, non possiamo certo pretendere di rinchiuderle nelle nostre parole, nelle nostre prediche e nei nostri documenti.
Più che dare risposte, mi pare che la Santa Sapienza ponga domande e inviti ad andare, alzarsi, uscire, camminare, soccorrere, amare.
Ecco la laicità della Chiesa.
Questa laicità si manifesta quindi in una grande capacità di ascolto del mondo non solo per soccorrere ma per imparare e valorizzare tutto ciò che in esso porta alla fioritura delle persone, alla libertà, alla convivialità delle differenze.
Ciò implica anche accettare il conflitto, il confronto franco su tutto, mai pretendendo di chiudere le discussioni in modo autoritario. La Chiesa è sempre in ricerca, in cammino.
Se un diverso rapporto tra donne e uomini nella chiesa non si riesce a impostarlo grazie al Vangelo (molto strano, ma evidentemente è ancora difficile) ci si dovrebbe arrivare grazie all’ascolto della ragione, della scienza, dell’esperienza di tante comunità in cui donne e uomini sono riconosciuti nella loro identica dignità e condividono responsabilità e poteri.
Come afferma Cettina Militello nel testo già citato: “Il Concilio partì dalla liturgia e fu scelta felice”. Ora però occorre fare il percorso inverso: “ripartire da quella che è stata l’attenzione conclusiva: il soggetto umano nella trama delle sue molteplici interrelazioni”, quindi partire dalla Gaudium et Spes per poi arrivare alla Sacrosanctum Concilium.
Siamo già ora una minoranza nel mondo ma questo non vuole dire che Dio è meno presente in esso. Forse sarà proprio la destrutturazione delle forme di potere e della tradizionale identità maschile ad esse collegata che contribuirà a riscoprire il carattere laico della chiesa e a farci riavvicinare al vangelo. Forse Dio, la Santa Sapienza, non si aspetta che la chiesa si diffonda su tutta la terra con le sue liturgie, i suoi edifici e le sue formule teologiche, ma che sia nel mondo un lievito efficace che il mondo lo faccia fiorire.
Carla Mantelli
9 Settembre 2022 at 15:10
Lo scritto di Carla Mantelli è molto bello e importante, da condividere ampiamente.
Mi permetto di esprimere due considerazioni che non sono critiche, ma di allargamento del discorso.
Il testo è concentrato sul ruolo, la posizione e il potere degli uomini (dei maschi) all’interno dlel’istituzione ecclesiale. Penso che si dovrebbe situare il problema anche nel contesto della società, sia storica che attuale.
La società, pur delle diverse immagini ed espressioni, non soffre della medesima situazione?
Il potere maschile nella chiesa non corrisponde al potere maschile nella società? Forse la società si sta muovendo di più e più velocemente nell’affrontare il problema, ma la situazione rimane assolutamente presente. Permane una condizione della donna che è in generale una condizione di non pieno riconoscimento. Parlo delle società occidentali che maggiormente affrontano la questione, senza considerare il mondo intero, tema ben più complesso. Però la chiesa è universale e certamente altrove i problemi si pongno diversamente.
Un secondo problema che occorrerebbe affrontare è ancora più serio: si tratta del problema sessuale.
Penso che il ruolo esclusivo dei maschi nelle funzioni sacerdotali abbia molto anche un motivo quasi di difesa rispetto a possibili influenze sessuali; si è creata una barriera “sacra” che doveva proteggere il prete dai rischi dell’attrazione sessuale. In un certo senso si è negato il sesso, lo si è demonizzato, per tenerlo lontano. Molta sacralità è meno un rispetto del divino, che una separazione dal mondo.
Anche in questo caso, il tema non è certo solo ecclesiale. Riguarda l’intero atteggiamento rispetto al sesso, ai rapporti, alle convivenze; su cui personalmente penso che occorrerebbe un ripensamento molto ampio sul modo con cui si affronta il problema da parte del mondo ecclesiale.