La lettura di Colin Crouch, docente emerito dell’Università di Warwick e dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, membro del Max Planck Institute for Social Research di Colonia, fornisce dati interessanti di grande attualità, specie rispetto alle ferite post Covid-19.
Tuttavia, una lettura troppo superficiale potrebbe apparire una litania semplicistica di affermazioni note: il lavoro cambia, serve flessibilità, la “tradizione” dei diritti deve cedere il passo ad una “innovazione”, asimmetrie e produttività vanno applicate al reddito, et cetera. Di certo, il contributo di un autore di così consistente peso deve incrociarsi con intelligenza nei percorsi che scelgono di attingere alla singola opera: decontestualizzare determinate riflessioni, tentando operazioni di estrazione ed astrazione, sarebbe ipocrisia autentica. Perché parlarne? In una intervista rilasciata alla rivista digitale Pandora nel gennaio 2019 (1), Crouch è invitato a riflettere, in modo particolare, sulle diverse formule di azione collettiva possibili nelle società cosiddette post-democratiche. È un invito che risuona utile per cogliere la validità del contributo dell’autore, la sua attualità e l’inserimento del testo nel percorso che abbiamo svolto e svolgiamo come gruppo. Il sociologo britannico dice:
Da un lato, c’è il tema della disuguaglianza di reddito. Un fenomeno in crescita, in parte a motivo della predominanza del settore finanziario e di quei settori che generano profitti elevati per pochi. La disuguaglianza è nettamente più alta nell’economia dei servizi di quanto non lo fosse nell’economia manifatturiera. La si può affrontare facendo ricorso alla regolamentazione fiscale. Uno dei problemi maggiori degli ultimi anni è la corsa degli Stati a rendersi il più attrattivi possibile per gli investimenti esteri, con il conseguente crollo della tassazione sul capitale delle grandi aziende. Io penso che si possa correggere questa tendenza, ma con tutta probabilità sarà possibile solo attraverso l’internazionalizzazione delle strategie fiscali, sperando che i governi si rendano conto che la situazione attuale non è realmente nel loro interesse. Dall’altra parte occorre restituire forza agli stati sociali, facendo sì che servizi vitali come istruzione e sanità restino fuori dall’economia di mercato. Se sanità e istruzione sono fuori dall’economia di mercato, la disuguaglianza pesa un po’ meno. La seconda questione è il lavoro. L’aumento del lavoro temporaneo, il lavoro illegale o forzato, questi fenomeni generano disuguaglianza nelle condizioni di vita e nel grado di insicurezza, il che a sua volta tende a creare conflitto sociale fra lavoratori con status differenti. È essenziale che i sindacati trovino la maniera di risolvere questo problema, è cruciale trovare il modo di garantire alle persone che il loro reddito non varierà più in queste proporzioni enormi e a questo ritmo così rapido.
Cosa significa? Che le disuguaglianze di reddito e la ricostruzione di un orizzonte di dignità nel campo del lavoro sono perni necessari per una democrazia con un autentico valore umano e che spetta alla politica costruire, nella consapevolezza dei tempi, gli strumenti necessari. Abbiamo costruito per questo le letture collettive di saggi come quelli di Marta Fana (Non è lavoro, è sfruttamento) o il pamphlet scritto a quattro mani con Simone Fana (Basta salari da fame). È per aver cognizione piena dei paradigmi del quadro macro-economico che abbiamo affrontato la lettura antica e sempre nuova di John Perkins (Confessioni di un sicario dell’economia. La costruzione dell’impero americano nel racconto di un insider). Allo stesso tempo, per restare attenti ai problemi circa le fonti primarie delle economie illegali e criminali nel nostro Paese, abbiamo ripreso l’intervista di Marcelle Padovani a Giovanni Falcone (Cose di Cosa Nostra). Da qui l’interesse per il saggio di Crouch pubblicato col titolo originale Will the Gig Economy prevail? (Polity Press, 2019), letto attraverso il coinvolgimento di quattro profili, diversi per biografia, studi ed impegno: Zaccarias Gigli, giovane laureando in filosofia politica dell’Università di Pisa; Francesco Lauria, ricercatore e formatore del Centro Studi nazionale CISL, Fondazione Tarantelli; Tania Benvenuti, operaia, sindacalista ed esponente della segreteria provinciale della CGIL di Pisa; Bruno Settis, assegnista di ricerca in storia contemporanea della Scuola Normale Superiore, già autore del saggio Fordismi. Storia politica della produzione di massa (Il Mulino, 2016).
Nella discussione svoltasi in tutto il mese di giugno 2020 attraverso le letture informali, il gruppo ha avuto possibilità di maturare ed approfondire punti di vista, incrociando una dimensione teorica con i problemi concreti della quotidianità: hanno infatti preso parte alle riunioni giovani precari che affrontano le complessità reali della vita e del lavoro, che declinano nella carne viva del proprio tempo le ansie e le speranze enucleate nei saggi (2). L’appello per una dignità integrale della persona umana attraverso diritti, reddito e lavoro è stato al centro di una omelia di Papa Francesco nella messa mattutina in Santa Marta, 1° maggio 2020.
La schiavitù di oggi è la nostra “in-dignità”, perché toglie la dignità all’uomo, alla donna, a tutti noi. [..] Ogni ingiustizia che si compie su una persona che lavora è calpestare la dignità umana; anche la dignità di quello che fa l’ingiustizia: si abbassa il livello e si finisce in quella tensione di dittatore-schiavo. Invece, la vocazione che ci dà Dio è tanto bella: creare, ri-creare, lavorare. Ma questo si può fare quando le condizioni sono giuste e si rispetta la dignità della persona. Oggi ci uniamo a tanti uomini e donne, credenti e non credenti, che commemorano la Giornata del Lavoratore, la Giornata del Lavoro, per coloro che lottano per avere una giustizia nel lavoro.
Quali temi sono stati sviluppati nelle letture? Anzitutto, la riflessione è partita con l’assunzione delle categorie interpretative fornite dall’autore per delineare l’economia dei gigs, inizialmente operatori dello spettacolo e dell’intrattenimento: sostituzione di una supposta rigidità di oneri sociali dei contratti a tempo indeterminato con la libertà di scelta, proposta dal free market liberalism e al centro di numerose teorie neoliberali sulla società; libertà di scelta unita ad un contesto potenzialmente totalizzante, per cui l’intera giornata può essere pervasa da oneri e legami con piattaforme di relazione smaterializzata di scala anche multinazionale. L’economia gig è ritenuta da Crouch come punto inevitabile del futuro del lavoro in cui, peraltro, la presenza femminile assume una sua prevalenza e in cui ritorna, con chiave diversa, la dialettica servo-padrone resa affascinante nel quadro anglosassone dal popular Capitalism thatcheriano, ove i vizi privati – sulla scorta dell’idea di Mandeville – possono corrispondere a pubblici benefici, se chiave per una massimizzazione dei profitti. L’economia gig afferma il mito individuale di un rapporto paritetico in seno al capitalismo contemporaneo: la speranza di rimodulare i rapporti di lavoro arrivando a definire l’operatore come non dipendente. Da qui alla costruzione ideologica del dualismo oppositivo tra complessi universi precari e “strutturate/i” genericamente intese/i il passo è breve, tanto quanto risulta breve la dequalificazione di concetti fatti passare per anti-moderni e relativi alle contrattazioni collettive nazionali, al ruolo delle strutture sindacali, alle dinamiche di relazione di classe. Una dequalificazione il cui ulteriore prodotto è la rimessa in questione del welfare state. Una intelligente rimessa in questione, poiché fa leva sui limiti inevitabili – in forza dei progressi storici: è il caso del modello antropologico del male breadwinner – dei modelli europei emersi nei Paesi nordici ad inizio Novecento e durante i Trenta Gloriosi nel secondo dopoguerra europeo per negare, in sé, l’utilità di un Stato Sociale – État Providence laddove esso non si rivolga, in forma del tutto flessibile, all’individuo. Una rimessa in questione che avviene assieme a legislazioni simili in tutta Europa: promozione dei licenziamenti individuali nel segno di una maggiore ricattabilità, compartimentazione delle protezioni sociali a seconda delle imprese e dei livelli di produzione, promozione del lavoro temporaneo e delle derogabilità ai contratti collettivi nazionali. Una tendenza, quest’ultima, che non agevola battaglie importanti come la riduzione dell’orario di lavoro e che apre alle “forme cangianti del precariato” analizzate da Crouch. L’autore non si pone alcune condizioni che sono più note in Italia: lavoro in somministrazione e realtà degli appalti alle cooperative, per esempio. Egli fornisce tuttavia delle chiavi interpretative importanti e generali: la prospettiva di rapporti di lavoro part time involontari, triplicati in Europa tra 2000 e 2016 secondo OCSE, la presenza di numerose donne in questi comparti – specie rispetto alle pulizie e al lavoro di cura – e l’elevata incisione dei rapporti irregolari. Il discorso apre il tema dell’economia sommersa e del bisogno delle rappresentanze sociali di raggruppare i mondi frammentati del lavoro, anche nel tempo di smart e home working e nell’aumento diffuso delle forme digitali di controllo del nostro tempo.
Quale è quel nuovo approccio alla tutela del lavoro che si intesta l’intellettuale britannico? Qui la pars construens del saggio, non scevra da rischi di astrazione ma capace di restituire alcune parole chiave utili per le disamine della modernità. Se la parola chiave per comprendere i capitoli sino al penultimo era asimmetria, inerente al rapporto di lavoro in sé al di là della qualità della relazione, passibile di tamponature e tentativi regolativi tendenzialmente votati alla subalternità al liberismo, il quinto ed ultimo capitolo prende in esame le possibili soluzioni per una precarietà concepita come dato caratterizzante di tutta la storia del lavoro (3) e non (solo) delle modifiche legislative introdotte in Europa occidentale dagli anni Ottanta in poi. Tra le fonti mobilitate da Crouch per immaginare un’agenda alternativa c’è il rapporto di Alain Supiot del 2001 (4) e che individua nel carattere di creatività e autonomia i dati caratterizzanti dell’economia gig, così come le premesse poste da Philippe Van Parijs nella presentazione della proposta sul reddito di base (5), gli studi relativi al peso della automazione e i modelli socio-economici di flexsecurity in Olanda e Danimarca. Nella propria interpretazione, giova ricordarlo, Crouch non critica in sé lo Stato sociale e l’idea di lavoro modellata nel Novecento, ma prova a coglierne i limiti per sancire nuove coperture. L’agenda di interventi che propone è indicabile in cinque punti: la creazione di un’assicurazione sociale sul lavoro utilizzato dalle aziende, a partire dal concetto di use of labor e delle effettive ore lavorate; la riduzione degli oneri assicurativi e della fiscalità per le imprese che accettano una serie di oneri sociali; contributi sociali individuali verso lavoratrici e lavoratori; un fondo assicurativo sociale autofinanziato come strumento protettivo rispetto ai licenziamenti; un più forte ruolo di contrattazione e presenza sociale del sindacato. Se molti degli spunti sono certamente utili ad approfondire proposte politiche anche dense di attualità, come l’idea di una legislazione sul salario minimo e i disegni per una implementazione del good work a partire da maggiori tutele per gli ancora troppo pesanti squilibri di genere (6), la riflessione del gruppo ha individuato alcuni punti su cui urge un approfondimento. Primariamente, la dimensione internazionale (o, almeno, europea) delle possibili delocalizzazioni delle sedi produttive o industriali che, assieme alle masse migranti di manodopera potenzialmente a basso costo costituisce – da tempo – un quadro in cui va declinata qualsiasi riflessione sul lavoro. Nel testo di Crouch sono ben profilate alcune suggestive policies e azioni positive, ma è latente o assente una politics intesa come visione del mondo e come conflitto tra interessi o idee. È anche assente il potere pubblico (Stato) e il suo ruolo come soggetto controllore delle azioni previdenziali, legislatore circa standard giuridici, motore dell’economia reale, punto che tuttavia ritorna in altri testi del sociologo britannico o in testi importanti per una messa in relazione, a partire dall’opera di Mazzucato (7). Andrebbe anche preso in carico il senso della proposta del reddito di base – oggetto di una parziale apertura da parte di Papa Francesco, nella missiva del 12 aprile ai Movimenti Popolari – alla luce degli effetti importanti della legislazione sul Reddito di Cittadinanza in Italia, nell’ottica di una misura non condizionale che, in un contesto di crisi economica, è un importante stimolo al consumo. Esiste inoltre tutto il piano dell’innovazione tecnologica (8), con annesso potenziale di sostituzione di personale umano con robot, che tuttavia, come individuato anche nel recente libro dei Fana9, non è un dato che si accompagna tanto al progresso in nuovi macchinari, quanto piuttosto al tasso di profitto ottenibile al principio della convenienza economica per l’impresa.
Va comunque chiarito che l’automazione non è questione nuova in una riflessione storica sull’evoluzione dei rapporti di lavoro, poiché replica, in forme aggiornate, il tema più classico toccato anche dalle economie pre-capitaliste circa il valore proprio dell’opera umana in rapporto al principio di convenienza e allo sviluppo delle tecniche automatiche. Allo stesso tempo, il ruolo del genere nelle dinamiche dell’economia gig merita un approfondimento ulteriore, poiché sono proprio le Nazioni Unite a sottolineare come uno degli effetti socio-economici più gravi della epidemia sarà a carico delle donne: a livello mondiale il divario di genere nelle retribuzioni è fermo al 16%, con punte del 35% in meno in alcuni Paesi; 740 milioni di donne a livello globale lavorano nell’economia informale, mentre le donne dai 25 ai 34 anni hanno il 25% di possibilità in più di vivere in estrema povertà. La situazione è peggiore nelle economie in via di sviluppo in cui la stragrande maggioranza dell’occupazione femminile – 70% – lavora nell’economia informale con poche protezioni contro il licenziamento, senza congedi per malattia retribuiti e un accesso limitato alla protezione sociale. Il Covid-19 ha messo in risalto anche un altro elemento: la maggior parte di coloro che sono in prima linea nella lotta alla pandemia sono donne, perché le donne rappresentano il 70% di tutto il personale sanitario e dei servizi sociali a livello globale. Esse costituiscono la maggior parte del personale di servizio delle strutture sanitarie – addette alle pulizie, lavanderia, catering – con maggiori probabilità di essere esposte al virus.
Modernità e complessità, potenzialità e storture, bisogni di maggiori simmetrie in un mondo teso alla decomposizione – socio-economica, antropologica, giuridica e politica – delle relazioni nel nome di un neoliberalism con tratti ideologici forti ed una grande capacità di dispiegamento nelle forme di egemonia culturale e in ogni decision making process. Asimmetrie che contemplano lo sfruttamento degli invisibili tanto quanto la fascinazione verso lo smart, gli approcci esteriormente eco-compatibili con le priorità economiche, l’innovazione digitale con la sostituzione degli operatori qualificati, il lavoro (più o meno) autonomo messo in contrapposizione con le contrattazioni generali, la decomposizione del ruolo di pianificazione da parte del potere pubblico nel nome di una sussidiarietà che diventa, da ottimo potenziale di impegno in economie civili e plurali, sostituzione becera e paternalista dei rapporti di lavoro con la smaterializzazione delle relazioni.
In tal senso, la ripresa di parola sul tema del lavoro assume un imperativo non solo socio-economico, ma anche una qualificazione morale, ossia il bisogno di essere all’altezza dei tempi e dei bisogni di masse di working poors, come evidenziato in recenti inchieste proprio sull’economia gig come Se lo schiavo sei tu (La Repubblica, 10 giugno 2020) a cura di Carlo Bonini, Matteo Pucciarelli, Alessia Candito, Giuliano Foschini, Luisa Grion, Riccardo Staglianò. La ripresa di parola non può esulare dalla lucida critica di schemi ideologici neoliberal accettati tra anni ‘80 e Duemila, che hanno contemplato un innalzamento dei livelli di precarietà e che solo l’assenza – sino al 2008-2011, per il nostro Paese – di crisi generalizzate non ha consentito anche ad una parte ampia dell’opinione pubblica di leggere in tutta la sua drammaticità. La ripresa di parola da parte della Rosa Bianca non può esulare dai racconti degli invisibili: lavoratrici e lavoratori della gig, donne, migranti. Volti e rabbie delle invisibilità che sarebbe errato contemplare da una moralistica torre d’avorio, ma con cui l’incontro sarà fruttifero solo nella misura in cui potrebbe rilanciare il racconto pubblico delle alternative possibili, generando intersezionalità positive e stimolando le forze politiche e sociali.
La tragedia del coronavirus, in questo senso, costituisce il vero e proprio banco di prova per cui un presente possibile non costituisca una mera carezza verso l’esistente, quanto piuttosto una ricostruzione generale di senso ancorata a prospettive saggiamente conflittuali e positivamente operose.
1 Eleonora Desiata, “Disuguaglianze e post-democrazia. Intervista a Colin Crouch”, Pandora Rivista, 21 gennaio 2019 <https://www.pandorarivista.it/articoli/disuguaglianze-intervista-colin-crouch/>.
2 Cfr. Nicola Quondamatteo, “A che punto è la consegna? I rider dopo la legge”, Jacobin Italia, 23 dicembre 2019 <https://jacobinitalia.it/a-che-punto-e-la-consegna-i-rider-dopo-la-legge/>.
3 Cfr. Eloisa Betti, Precari e precarie. Una storia dell’Italia repubblicana, Carocci, Roma, 2019.
4 Cfr. Alain Supiot (dir.), Au-delà de l’emploi, Flammarion, Paris, 2016. Nel 1999-2001 il giurista Supiot, docente al Collège de France, aveva presieduto la redazione di un rapporto su richiesta della Commissione Europea, col titolo «Les transformations du travail et le devenir du droit du travail en Europe»: a partire da un’analisi comparativa delle evoluzioni sociologiche, economiche, giuridiche e manageriali dell’organizzazione del lavoro nei Paesi membri, il rapporto aveva avanzato proposte di rinnovamento su quello che all’epoca era chiamato modello sociale europeo.
5 Cfr. Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, Basic Income: a radical Proposal for a Free Society and a Sane Economy, Harvard University Press, Harvard, 2017.
6 Sull’impatto sociale e nel lavoro delle donne da parte del coronavirus basti fare riferimento al Policy Brief: the Impact of Covid 19 on Women delle Nazioni Unite
<https://www.unwomen.org/-/media/headquarters/attachments/sections/library/publications/2020/p o licy-brief-the-impact-of-covid-19-on-women-en.pdf>.
7 Cfr. Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014.
8 Cfr. John Diebold, Automation: the Advent of automatic Factory, Van Nostrand, New York, 1952; Alain Touraine, L’évolution du travail ouvrier aux usines Renault, CNRS, Paris, 1955; Shoshana Zuboff, In the age of the smart machine. The future of Work and Power, Basic Books, New York, 1988; Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 2006.
9 Cfr. Marta Fana, Simone Fana, Basta salari da fame!, Laterza, Bari, 2019.