Le classi sociali esistono ancora?

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di Sandro Antoniazzi

Se si pensa alla realtà degli straricchi, che accumulano giorno dopo giorno migliaia di miliardi, e di contro si pensa ai precari, ai lavoratori poveri, ai marginali, agli esclusi, non dovrebbero esserci dubbi.

Tanto più che molto potere oggi è transitato dalla politica all’economia e quindi i ricchi non possiedono solo le ricchezze, ma anche il potere.

L’America attuale è, al riguardo, un caso esemplare: un gruppo tra i più ricchi ha in mano il potere e mescola potere politico ed economico a beneficio dello Stato (forse), ma anche e soprattutto a beneficio personale: il potere politico rafforza quello economico e quello economico serve a farsi largo in quello politico.

Ma perché allora i dubbi sulle classi? Il motivo è uno solo, ma determinante: è scomparsa la classe operaia, su cui Marx aveva costruito la sua analisi delle classi, attribuendole un ruolo titanico di salvezza dell’intera società.

Il mondo si sarebbe sempre più polarizzato nelle due categorie fondamentali, il padronato e la classe operaia, la quale avrebbe assorbito tanti gruppi sociali in crisi (piccole aziende, artigiani, piccola borghesia), diventando così sempre più ampia e dominante.

Sarebbero cresciute le grandi industrie, dove si sarebbe sviluppata la forza operaia, sino allo scontro finale.

Queste previsioni “sociologiche” si basavano sulla realtà economica di quei tempi, ma sono state smentite dal progresso successivo, il quale più che verso una polarizzazione si è indirizzato verso una diversificazione.

È venuto così a mancare uno dei presupposti essenziali della classe, una massa sociale omogenea con interessi largamente comuni.

L’altro presupposto di una classe è quello di avere un ideale comune, un orizzonte condiviso, una prospettiva unificante: la concezione socialista-comunista per oltre un secolo ha costituito una teoria possente che è stata capace di svolgere un grande ruolo per orientare le masse a livello mondiale (anche in quei paesi, Russia, Cina, Vietnam con ben poca classe operaia).

Venuti meno i presupposti e crollato il sistema sovietico, la classe operaia occidentale è svanita da un giorno all’altro (anche perché nel frattempo si diffondeva la delocalizzazione).

Da allora, al di là di chi crede nel marxismo per fede e vuole vedere ovunque nuova classe operaia, sono gli studiosi a cercare di mettere a fuoco la realtà attuale delle classi sociali.

La tendenza principale di questi studi consiste nell’individuare gruppi sociali che possono essere distinti per la loro omogeneità; qualcuno li chiama “classi”, ma il termine si presenta improprio ed eccessivo: l’omogeneità è di gruppo e non dominante e manca certamente in questi gruppi una qualunque prospettiva comune.

E’ chiara a tutti l’esistenza dei due poli estremi, i ricchi (l’élite) e i precari (così viene chiamata la ”classe” più bassa da Mike Savage, autore di un’indagine inglese che ha avuto 161.000 risposte), cui  possiamo aggiungere un’area di semi-ricchi affermati che si possono sommare ai ricchi.

Le difficoltà vengono subito dopo, quando si tratta di collocare quelli che stanno in mezzo, la classe media e la classe lavoratrice di un tempo. Ad esempio, nella divisione di Savage appaiono ben tre categorie di lavoratori: quelli benestanti, la “classe” operaia tradizionale e gli emergenti lavoratori dei servizi (terziario).

Pur tenendo conto di tutte le differenze, a me sembra che, se si escludono coloro che hanno raggiunto una posizione di reddito e di status decisamente elevata, per il resto i lavoratori, operai e impiegati rappresentano una grande massa che, pure nella diversità dei lavori, sono, tutto sommato, abbastanza unificati da una comune condizione da una società molto standardizzata.

È una grande massa che, fatte le debite eccezioni sociali e culturali, è molto influenzata dai consumi, dai mass media e dai social (come lo siamo tutti).

E una grande massa priva oggi collettivamente di ideali e di aspirazioni, che diano un senso comune alla vita.

È una massa su cui facilmente hanno presa i messaggi populistici; in una carenza di fondo di prospettive chi lancia parole salvifiche trova sicuramente successo.

Ricordo un incontro del direttivo dei metalmeccanici di Brescia, assieme all’amico Bruno Manghi; tema della riunione era il perché i lavoratori aderivano al sindacato, ma poi votavano Lega. Allora, parecchi anni fa, le due cose apparivano ancora incompatibili.

Dicevo allora e penso ancora adesso che i lavoratori aderiscano al sindacato perché risponde a esigenze immediate concrete, ma le loro scelte ideali sono altrove: oggi il sindacato è una realtà utile, ma non è visto come portatore di ideali.

Eppure, parliamo di lavoratori, di una grande massa indistinta, che attende di poter credere in qualcosa che ne valga la pena.

Perché il sindacato non si prefigge questo compito che una volta, alle origini, era tra i suoi fini principali?

Ci si lamenta spesso che questa società è priva di valori, ma se non si fa niente per affrontare questa situazione, come è possibile che possa cambiare?

Un sindacato unitario che si prefiggesse di migliorare la società e dunque esprimesse una visione necessariamente valoriale, costituirebbe una valida risposta a questa profonda esigenza sociale.

È impossibile ricostituire qualcosa di analogo alla classe operaia di ieri: ciò che potrebbe assomigliarle di più o farne in qualche modo le veci, sarebbe un’unità dei lavoratori con una volontà e una prospettiva comune.

Occorre certamente per questo un grande impegno nuovo, ma senza ideali ambiziosi ci si riduce al quieto vivere.

Diceva bene Mounier “allora metti la vela grande all’albero maestro e, uscendo dai porti in cui vegeti, salpa verso la stella più lontana senza badare alla notte che l’avvolge”.

 

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