Eugenio Mazzarella, docente di Filosofia Teoretica all’Università Federico II di Napoli e deputato del Partito Democratico, interviene sul tema dei beni comuni in Tam tam democratico n. 7, la rivista on line del Pd (www.tamtamdemocratico.it), e oppone una serie di riserve a quanti fanno della “teoria dei beni comuni” un’ideologia semplicista, illusoria, che finisce per attecchire soprattutto al Sud “dove il corto circuito tra un ceto politico spesso senza soluzioni e sempre senza cassa e bisogni sociali sempre più pressanti trova nella teoria dei beni comuni materiali ideologici di sostegno a forme, o quanto a meno a prodromi, di leghismo meridionale che ha i suoi Miglio nei teorici dei beni comuni”. Un contributo interessante su una materia oggi di grande interesse, che vede un ampio ventaglio di posizioni.
In Italia la discussione, in ambito di teoria economica allargata, sui beni comuni è cresciuta ormai nel dibattito pubblico – è un dato di fatto – a proposta politica; a manifesto per uscire, per via di una democrazia partecipata dal basso, dalla crisi certo profonda delle democrazie liberali e dei loro istituti rappresentativi; lasciandosi finalmente alle spalle il modello “mercatista” cui esse – dai reaganomics in poi – hanno fin troppo guardato senza molti sensi di colpa, e senza prudenza; almeno fino alla crisi finanziaria mondiale innestata dai subprime americani.
Le esigenze, non poche condivisibili, che questa discussione ha messo in campo (e che per altro incrociano un’autocritica della teoria economica dominante che almeno dal Nobel ad Amartya Sen ha conquistato cittadinanza pubblica e plausibilità scientifica), patiscono però una pesante enfasi ideologica.
Un’enfasi ideologica più funzionale ad un’immediata spendibilità sul mercato politico della teoria dei beni comuni da parte di forze impegnate ad ampliare un bacino di consenso potenziale per i loro obiettivi di “rappresentanza” a sinistra del Pd, a soddisfare la richiesta che vi circola di soluzioni semplici (con il rischio alla fine di ridursi a ingrediente di ricette populistiche), che a fare dei beni comuni istituzione discorsiva e politica, dando possibilità concrete ai bisogni sociali che vi prendono parola, come sarebbe necessario.
Una richiesta di soluzioni semplici che fa breccia soprattutto al Sud, dove il corto circuito tra un ceto politico spesso senza soluzioni e sempre senza cassa e bisogni sociali sempre più pressanti trova nella teoria dei beni comuni materiali ideologici di sostegno a forme, o quanto a meno a prodromi, di leghismo meridionale che ha i suoi Miglio nei teorici dei beni comuni.
La recente giornata dedicata ai “beni comuni” lo scorso 28 gennaio a Napoli, affollata di “movimenti” e di esponenti del variegato panorama politico nazionale a sinistra del Pd, da Sel a Italia dei valori, organizzata dal sindaco di Napoli de Magistris, non a caso ha avuto il patrocinio del sindaco di Bari, Emiliano, e del presidente della regione Puglia, Vendola; ma ha dovuto anche registrare la sintomatica defaillance all’ultimo momento dell’annunciato sindaco di Milano, Pisapia, probabilmente poco incline a schierarsi sotto bandiere ideologiche troppo esposte ai venti del “rivendicazionismo” territoriale meridionale, nonostante la caratura nazionale, su cui era stato costruito l’evento.
Sarebbe un errore sottostimare, a sinistra, la capacità di mobilitazione ideologica e politica di quello che qualcuno ormai già chiama il “benecomunismo”. L’alone comunitario e moralizzante la crisi dell’individualismo sociale – che vi circola – come risposta ai bisogni delle “persone”, di troppe persone, gli “individui concreti” al di qua delle policies economiche e sociali che possano riguardarli e segnano il passo un po’ dappertutto, non fa fatica a trovare ascolto sociale e seguito politico, in assenza di risposte apprezzabili a breve alla crisi del welfare che larghi strati di popolazione vivono sulla propria pelle, aggravata dal concomitante crollo occupazionale.
Questo perché il “benecomunismo” propone una risposta “semplice”, di immediata presa emotiva – direi nel quadro di quell’ “emotivismo” che la Caritas in veritate indica come rischio inquinante la necessità di risposte vere e ponderate alla gravità della crisi in atto nelle relazioni sociali ed economiche – alla crisi del modello di welfare dei paesi occidentali, i già paesi “avanzati” che oggi arretrano negli indicatori economici mondiali sotto l’incalzare delle nuove potenze economiche.
Una crisi che ha messo a nudo “la politica” nell’area di crisi delle democrazie liberali, in un modo che ha pochi precedenti, dove classi politiche selezionate per decenni da una politica come amministrazione, fondamentalmente ancorata alla spesa pubblica, dove la ricerca del consenso si è sostanzialmente misurata sulla capacità di rispondere ad esigenze di protezione sociale date dai loro elettori per acquisite una volta per tutte, fosse governata questa spesa da “destra” o da “sinistra”, mostrano di non avere grandi risorse né politiche né di analisi di scenario per gestire una transizione epocale degli assetti economici mondiali, che ha devastanti riflessi “locali”.
I riflessi, in Italia, di questa crisi del welfare sono sotto gli occhi di tutti. La destra l’ha gestita, o ha provato a gestirla, con la denuncia dell’insostenibilità del modello, per il quale non ci sarebbero più i mezzi; e questo imporrebbe di abbandonarne anche i fini generali di protezione sociale a vasto raggio, magari con politiche sostitutive che spingano la società ad un obbligato “fai da te”.
Non adeguarsi a questa diagnosi e a questa ricetta, che ha dalla sua difficoltà di cassa importanti delle finanze pubbliche, se si vuole “congiunturali” (anche se magari per uscirne ci vorrà un decennio), ma soprattutto riassetti degli equilibri economici mondiali che sono strutturali, impone alla sinistra una rigorosa manutenzione dei mezzi – risorse economiche, strategie sociali, visioni culturali – per difendere le finalità del modello; per far sì che quelle finalità non divengano inesigibili dagli strati sociali più interessati.
Un lavoro di “riforma” del welfare non di poco conto, per stare sugli eufemismi, che tra le altre difficoltà patisce la spina nel fianco di (pseudo) soluzioni “populistiche”, che, giusto il caso del “benecomunismo”, provano ad attrezzarsi sul piano di un collante ideologico generale da offrire ad istanze variegate e dissimili, da una puntuale battaglia ecologista a un largo disagio territoriale e sociale. Proprio per questo è importante confrontarsi nel merito delle istanze dei “beni comuni”, mostrando come non il riduzionismo ideologico del tema a fini di marketing politico congiunturale all’attuale fibrillazione del quadro della rappresentanza politica, è ciò che meglio può rispondere alle istanze positive, ed in alcuni casi irrefutabili, che vi sono implicate.
Così l’esigenza di una tutela costituzionale che li difenda meglio dal loro esito di mercato nella sfera della proprietà privata, favorito dalla debolezza degli Stati territoriali nei confronti delle corporations multinazionali, più che proporsi come alternativa di sistema alla proprietà privata, e in definitiva anche come luogo di resistenza alla proprietà pubblica dello Stato, può trovare un esito politico concreto piuttosto nella capacità del discorso pubblico e dell’iniziativa politica di costruzione di una nuova statualità, anche sopranazionale, capace di tener fronte ai nuovi robber barons delle corporations multinazionali, a sostegno della resistenza endogena delle comunità locali e delle reti sociali anche transnazionali alle asimmetrie del mercato.
L’idea che possa bastare una tutela partecipativa dal basso dei beni comuni, ventilando in essa la possibilità di trovarvi funzioni surrogate della crisi del welfare, tramite il libero accesso ad essi per ogni membro della comunità, pensando che sia possibile insieme “meno mercato” e “meno Stato”, e non si tratti piuttosto di una nuova “regolazione” di Stato e mercato, cui possa concorrere anche il ruolo dei beni comuni, sconta l’ingenuità di pensare ad un’autoconsistenza istituzionale dei commons, restituiti che siano ad una partecipazione indivisa di tutti alle risorse; l’ingenuità di pensare ad una capacità autosufficiente di autoregolamentazione “comunitaria” nell’accesso al “comune” di aggregazioni sociali che non sono più comunità organiche, con rigidi codici comportamentali introiettati, ma comunità indotte da bisogni sociali comuni talora contingenti; se questo mondo c’è stato, e c’è stato, questo è il mondo prima dell’esplosione moderna dei diritti soggettivi e dell’aspirazione ai diritti cresciuti sulla libertà individuale moderna.
Questo mondo non tornerà, non può tornare, e non è neanche bene che torni. L’utopia che oggi ci serve è un’utopia riflessiva. Questo va ribadito ai teorici dei “beni comuni”. Il “neomedievalismo” dei processi della globalizzazione e del policentrismo giuridico in essere nel mondo contemporaneo, cui la teoria dei beni comuni guarda come ad un’opportunità di resistenza ad una modernizzazione a scala planetaria dai “caratteri aberranti” – per ricorrere all’aggettivazione di un suo stesso teorico tra i maggiori, Jürgen Habermas – esprime certo un’esigenza sociale diffusa, per l’individuo della globalizzazione, che la comunità torni ad essere per lui un’opportunità per la sue speranze, i suoi timori, le sue aspettative, e la si smetta con una narrazione pubblica e politica che la veda come un impedimento alla sua autorealizzazione “privata”, sotto il segno dell’individualismo proprietario, come troppo a lungo è stato; un’infezione certo passata dall’Occidente al “mondo” globale, ma anche con tanti elementi di “salute” nella sfera della libertà e delle libertà.
Ma questo comunitarismo per non essere velleitario deve fare i conti con l’individuo concreto della globalizzazione, che non è l’individuo “resistente” alla modernizzazione delle comunità residuali che non vi hanno avuto ancora accesso da proteggere in “riserve” equo-solidali e delle comunità di quartiere, ma l’individuo intimorito e deluso dalla modernizzazione, che però difficilmente è disponibile a rinunciare alle sue promesse di emancipazione, e di emancipazione da società “affluente”, si sarebbe detto una volta.
Non sarà una politica che si risolva in sindacato territoriale “leghista” o in antagonismo sociale di sistema, per quanto appeal ideologico possa procurarsi invocando i “beni comuni”, che potrà difendere, nelle sue finalità, il modello di welfare che abbiamo conosciuto per decenni – decisivo per la tenuta soprattutto degli strati sociali e dei territori più “deboli” nell’attuale temperie di crisi sociale ed economica.
L’abbandono della difesa di questo modello all’emotivismo di soluzioni “sostitutive” troppo semplici, o peggio alla sua strumentalizzazione da parte di una politica a impronta populistica, renderebbe più facile, di questo modello, lo smantellamento in nome della necessità dei “conti”. Con buona pace di stringenti aspettative sociali, soprattutto al Sud.