Qual è l’utilità della partecipazione e della rappresentanza politica in una società abbondante, atomizzata e privatizzata? In presenza di quali delle sue forme si può parlare di partecipazione? A tutti i cittadini interessa davvero partecipare alla società e alla politica, essendo parte di una comunità, o molte persone preferiscono essere interpellate una tantum e lasciar fare per il resto?
Nell’approcciare a questa riflessione mi sembra utile, ma anche un doveroso ed affettuoso riconoscimento, muovermi dalle parole di Valerio Onida, di cui ho avuto il piacere di seguire le lezioni universitarie, proprio sulla democrazia sostanziale di Dossetti:
L’idea o l’ideale di democrazia che il Dossetti costituente, politico, educatore, difensore della Costituzione ha portato avanti in tutta la vita… è “sostanziale”, nel senso che muove dalla centralità della persona, portatrice di una inviolabile dignità e di diritti e di doveri, e insieme qualificata dalla molteplicità delle relazioni comunitarie in cui essa vive e si sviluppa e dal rapporto vitale fra persona e comunità.
Nel connubio fondamentale fra persona e comunità viene subito in evidenza il rigetto, per forza di cose simultaneo, sia della democrazia liberal-formale, sia di quella statalista (nella sua accezione etica come in quella materialista): opposte, ma entrambe rispondenti ad una concezione strumentale e non partecipata del rapporto fra Stato e cittadino, e che oggi si trovano in qualche modo, e curiosamente, a coincidere in linea di principio.
Il ripartire dalla democrazia sostanziale per riflettere sul se e sul come sia possibile rigenerare la democrazia rimanda direttamente anche al rapporto politica-società; la quale, però, è in continuo mutamento, e in questo secolo è un mutamento che ha accelerato e si è complessificato, fino a diventare spesso inintellegibile dalla politica.
L’analisi di apertura di Sandro Antoniazzi evidenzia come in questo contesto tendano a convergere (opportunamente, a questo punto) le ragioni e il ruolo del cattolicesimo democratico e quelli del cattolicesimo sociale.
Proprio dentro all’integralità della visione di Dossetti, e comunque nell’idea di una sostanza democratica, se ragionata sui cattolici, (o, perlomeno, su una parte di essi), l’ipotesi di partenza ci rimanda inevitabilmente al loro ruolo nel Paese: quello di una comunità portatrice del dovere, civile e spirituale, di costruire, necessariamente insieme, lo Stato e la Chiesa (o, se preferiamo, lo Stato come la Chiesa), rischiarati in questo dalla medesima Luce, in grado di agire in maniera trasversale rispetto sia alla politica sia alla società (società di cui la Chiesa è parte, e la Fede è fondante).
Il punto di arrivo dei ragionamenti contenuti nell’apertura al confronto di Sandro Antoniazzi sembra quindi rappresentare per noi un valido punto di partenza.
Verso quale idea di democrazia?
Se una è la formula della democrazia così definita, naturalmente variabili sembrano invece le forme che essa potrebbe assumere oggi, anche proprio a causa di quella molteplicità richiamata da Onida nella visione di Dossetti.
Anche, ma non solo.
Sembra, in effetti, doveroso lasciare che il nostro punto di partenza ci riporti indietro, fino alla nascita della Repubblica: essa avvenne più che sulle macerie, sul deserto della società precedente, e in una sorta di vuoto prodotto dalla storia (fallimento della democrazia liberale, inadeguatezza delle sue norme fondamentali e del suo sistema politico rispetto alle spinte violente, culturali e sociali, della Storia, necessità di un nuovo regime).
E’ su quel deserto che la ginestra di una nuova democrazia è nata, che un nuovo rapporto fra politica e società ha vissuto nel Dopoguerra una lunga fase positiva, nella quale si è strutturato, specificato, fortificato e tradotto in pratiche di governo, di amministrazione, e di rappresentanza politica.
Bisogna però avere il coraggio di dire che le grandi risorse, materiali e morali, di allora hanno prodotto una distorsione duratura nel modo di interpellare la politica e chi la pratica; che rischia di far perdere di vista alle persone (magari anche a noi) le condizioni nelle quali operiamo oggi, e le concrete possibilità e le diverse difficoltà.
Fare deserto
Tornando con la mente a quella fase, e provati noi tutti dalle novità insite alla globalizzazione del XXI secolo, può forse essere utile fare per un attimo deserto anche noi: mettere in discussione il ventaglio di riferimenti che abitualmente prendiamo come scontati; magari in crisi e da ricostruire, e proprio per questo comunque scontati.
I partiti, le elezioni, la rappresentanza, i corpi intermedi, l’associazione per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”…
Perché?
Perché oggi non ci muoviamo in un deserto, o su macerie da sgombrare in fretta per meglio ricostruire con un progetto sicuro, bensì in una abbondanza generale di elementi.
I preziosi interventi che mi hanno preceduto, aiutandomi nello sviluppo -che spero riuscirà- di un ragionamento centrato, anziché di una riflessione più libera che utile, hanno spesso richiamato il momento della partecipazione come elemento fondativo di una rigenerazione democratica.
Ma in che contesto operiamo?
Nelle nostre riflessioni, l’esperienza della partecipazione viene idealmente “ramificata” lungo le fronde del grande albero che abbiamo ormai imparato a prendere, anche implicitamente, come nuovo riferimento, cioè la società complessa: e allora ci sembra naturale complessificare anche la partecipazione, dentro a un paradigma generale che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere, oggi, soggetti sociali, civili, economici.
Non posso non notare che proprio il momento partecipativo rappresenta un aspetto critico nella nostra impostazione: rispetto al quale mi sembra necessario tenersi aperta una finestra di dubbio, riguardo quantomeno le sue forme, se non circa l’utilità e la necessità.
Ad esso si aggiunge poi un altro elemento di crisi, ossia il ruolo odierno della rappresentanza politica: è ancora un’attività di interesse pubblico, o privato?
Oggi i partiti, proiettati in una dimensione nella quale sono stati costretti a ripensarsi sia sotto il profilo culturale che sotto quello organizzativo e delle risorse, appaiono molto poco dei soggetti di rango costituzionale, e molto più delle mere associazioni private organizzate a perseguire scopi propri accanto, o dentro, a quelli pubblici.
In poche parole, più che allontanarsi dalla società, i partiti sembrano esservi entrati in pieno, diventarne parte, rispecchiarne le fragilità e le cattive abitudini, e in definitiva cambiando pelle e ruolo sostanziale rispetto ai partiti di un tempo.
“La democrazia senza partiti non esiste”: nella necessità di puntualizzarlo, e di analizzarne le ragioni, che spingeva Giovanni Bianchi a parlarne spesso, sta, mi sembra, la cifra della grande difficoltà della politica a ripensarsi oggi nel suo rapporto con la società.
E’ uno sforzo utile e sufficiente?
La fragilità dei due elementi in gioco (data dalla storia più che dalle intenzioni), l’ambiguità (multiforme e dai molti nomi anch’essa) crescente del rapporto tra di essi, portano il nucleo della nostra riflessione dentro a delle domande:
è sufficiente ed utile stimolare la partecipazione per ridare qualità ad un rapporto fra elementi che oggi si presentano fragili e mutevoli?
Una volta riconosciuta la complessità della società, ed averla virtuosamente incamminata lungo le strade della partecipazione, è possibile tradurre tutto questo in politica, sì da dare effettivamente corpo ad una democrazia sostanziale? La traduzione è spontanea, o necessita di uno sforzo aggiuntivo, di un di più che la qualifichi?
E’ forse necessario, per qualificare quel rapporto, qualificare (in modo nuovo?) l’obiettivo e l’esperienza stessa della partecipazione.
Dopotutto, oggi una gran mole di informazioni fondamentali sui bisogni e le aspirazioni dei cittadini può essere raccolta grazie alla tecnologica digitale, così come lo sviluppo di competenze sempre più specifiche permette al decisore politico (qualunque, decisore politico) di poter accedere a una notevole qualità di risposte possibili.
Molto spesso queste informazioni vengono fornite di proposito dalle persone, dentro al desiderio di essere parte di una comune, per quanto effimera, esperienza.
Il fatto nuovo in effetti, sembra essere proprio l’abbondanza.
Ed è un fatto che potrebbe rivelarsi un problema: qual è l’utilità della partecipazione e della rappresentanza politica in una società abbondante, atomizzata e privatizzata? In presenza di quali delle sue forme si può parlare di partecipazione? A tutti i cittadini interessa davvero partecipare alla società e alla politica, essendo parte di una comunità, o molte persone preferiscono essere interpellate una tantum e lasciar fare per il resto?
Qui il discorso si amplia e diventa sofferto: ma prima che, nella stesura di questa riflessione, i confusi echi delle visioni di Huxley e dell’impolitico di Mann prendano il sopravvento sull’educazione del nipote di Cosimo Ferilli (politico e attivista DC che credeva nel ruolo fondamentale dei corpi intermedi, del sindacato, delle cooperative), sullo studente di Valerio Onida, e sull’allievo di Giovanni Bianchi, preciserò che dal mio punto di vista, quand’anche fosse possibile farsi portare in braccio, senza mediazione alcuna, dalla più efficiente delle intelligenze artificiali, e farsi mettere nelle mani del migliore dei decisori politici, la mia irriducibile e fallace parte umana troverebbe più confortante la libertà dell’errore rispetto alla soddisfazione dell’efficienza.
E che quindi sia sempre preferibile, per la dignità umana, la spontanea, imprecisa, controversa, organica partecipazione tra molti, a quella input-output praticabile in forma sì individuale ma nei molteplici contesti specifici offerti dalla società complessa.
Anche scendendo su piani più profani (ma non meno rivelatori dell’uomo):
è più appagante ascoltare per conto mio la mia playlist, o andare a ballare musica a caso in 10mila?
Non per tutti è così; e non mi sembra sia a questo, che veniamo abituati: lo spostamento delle interazioni umane in dinamiche (spesso anche quelle partecipative) di input-output lavora chiaramente contro questa prospettiva; ma la società così prodotta non è pur sempre essa stessa la società, in cui si trovano a convivere i “partecipativi”, i “disponibili” e i “non partecipativi”? In cui non si possa prescindere, nella costruzione di una democrazia sostanziale, dall’inclusione di tutti in una comune, qualificata, esperienza?
Il punto sembra insomma essere non solo come le tante, possibili e praticabili, esperienze sociali possano essere portate dentro alla partecipazione alla democrazia, ma anche la necessità di qualificare la stessa partecipazione, per qualificare il rapporto politica-società anche a beneficio di chi non ci crede ed è libero di non crederci.
Serve lo spirito giusto
Personalmente non credo di avere molti strumenti adatti a dire come si costruisce la partecipazione oggi, in una società fatta di persone educate al pensarsi libere, di e da, a volte in un tutt’uno di onnipotenza. Senza, per carità, escludere chi scrive…
Bisogna respingere l’idea che la partecipazione possa essere libera da: questa produce un ventaglio di autoreferenzialità che coinvolge cittadini e associazioni e che è bene non si trasferisca al rapporto con la politica, non più di quanto sia già accaduto.
Nemmeno sembra un motore sufficiente pensare ad una partecipazione libera di: questa dimensione è diffusamente vissuta dalle persone in maniera tristemente appagante nel quotidiano. Perchè mai dovrebbero volerla replicare, gravata per giunta dalla necessità di una mediazione con altri?
A mio avviso insomma, in assenza dello spirito giusto, non c’è modo di coinvolgere in un processo partecipativo e democratico persone, associazioni, politica: questo interpella direttamente i cattolici, perchè vivono una fatica simile anche nella Chiesa, e ancora una volta torna allora in rilievo la questione del loro partecipazione alla costruzione della Città come una unica, ispirata, esperienza comunitaria.
La democrazia nella società complessa, abbondante, libera, non mi sembra più essere pensabile in senso compiuto al di fuori dell’idea di un destino comune verso cui tendere, un per (la sostanza vitale del rapporto persona-comunità di cui alle prime righe) in grado di spiegare perché, in qualunque forma si partecipi, o si sia semplici cittadini, una persona dovrebbe oggi preoccuparsene, impegnarsi, mettersi in gioco con altri, quando anche l’esercizio in proprio della libertà lascia spesso insoddisfatti gli esseri umani, come a restare assetati pur bevendo in continuazione.
Dopotutto, è forse proprio nel tradimento sostanziale della libertà delle persone (Magatti ha scritto pagine importanti sulla libertà immaginaria) che si è indebolita la percezione di quanto possiamo essere utili al mondo e, con essa, il senso stesso dello starci dentro.
Magari allora può essere utile lavorare sul concetto di libertà, o di libertà per, sposato a quello di dignità umana, per trovare una leva in grado di rivitalizzare quel fragile rapporto tra politica e società, tra persona e comunità, senza il quale la democrazia sostanziale non esiste, e finiamo per accontentarci di una sua versione inevitabilmente sempre più rarefatta.
Luca E. Caputo
(coordinatore dei Circoli Dossetti di Milano).