L’autore è membro del Centro Mounier di Genova
Con questo intervento vorrei elencare alcune delle principali elaborazioni e proposte che vanno in direzione di una critica radicale alle politiche di austerità finora imperanti in Europa. La strategia di Lisbona in vigore dal 2009 si proponeva di far diventare l’UE, entro il 2010, “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale, nel rispetto dell’ambiente”. Alla prova dei fatti ciò non è avvenuto e l’Europa, da culla dell’economia sociale di mercato su cui si basa il modello europeo, si è trasformata nella più intransigente sostenitrice dell’austerità intesa come politica dei due tempi (prima il risanamento, poi lo sviluppo) le cui conseguenze sul versante occupazionale sono davanti ai nostri occhi.
Già agli inizi degli anni ’90 era stato lasciato cadere il libro bianco o piano Delors che prevedeva grandi investimenti nelle infrastrutture e definiva progetti in grado di creare lavoro. In ambito sindacale ricordo la proposta del Fondo di solidarietà (il famoso 0,5%) di Pierre Carniti e le successive elaborazioni di Ezio Tarantelli che fu tra i primi economisti che lanciò serie proposte per l’occupazione da attuare attraverso accordi trilaterali (sindacati, associazioni imprenditoriali, governo). Oggi si è aperta la discussione sul progetto l’Europa 2020 nel quale sono fissati cinque obiettivi strategici: innalzamento del 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni); aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo in modo da raggiungere il 3% del PIL dell’UE; riduzione delle emissioni di gas serra del 20% (o persino del 30%, se le condizioni lo permettono); aumento del 20% dell’efficienza energetica e del fabbisogno di energia ricavata da fonti rinnovabili; riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce al di sotto del 10% e aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione universitaria; riduzione di almeno 20 milioni delle persone a rischio di povertà.
Sorgono anche nuove mobilitazioni, come per esempio il comitato promotore dei cittadini europei (ICE) per un “Piano straordinario di sviluppo sostenibile e per l’occupazione” da finanziare attraverso l’istituzione della carbon tax, la tassazione delle transazioni finanziarie e l’emissione di euro bond. Il recente documento del sindacato tedesco DGB, un “Piano Marshall” per l’Europa, costituisce per la sua ispirazione europeista, un importante punto di riferimento. Il piano, di durata decennale (2013-22), prevede un ammontare di investimenti di 260 miliardi di euro (160 diretti e 100 di finanziamenti alle imprese a tasso basso) in grado di dare un impulso decisivo per una ripresa qualitativa dell’occupazione. Questa “offensiva di investimenti” potrebbe creare nel lungo periodo tra i 9 e gli 11 milioni di nuovi posti di lavoro, innovativi e full time. Per la Germania andrebbe previsto un prelievo di una tantum del 3% su tutti i patrimoni privati sopra i 500 mila euro per i contribuenti non coniugati, e sopra 1 milione di euro per le coppie sposate. In Italia il livello del dibattito politico su questi temi non è neanche lontanamente confrontabile con esperienze del passato e si è ridotto all’emanazione, dal 1997 al 2012, delle tre leggi di riforma del mercato del lavoro svincolate da qualsiasi approccio programmatico di politica economica.
Al di là dei giudizi che possiamo dare sugli esiti delle scelte degli anni ’50 in Italia, almeno il ministro del bilancio Ezio Vanoni, nel suo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito nel decennio 1955-64”, aveva ben chiari gli obiettivi: la creazione di 4 milioni di posti di lavoro nei settori secondario e terziario per compensare la caduta dell’occupazione agricola, il raggiungimento dell’equilibrio nella bilancia dei pagamenti, il superamento del divario economico tra Nord e Sud, la ristrutturazione della distribuzione delle forze di lavoro. Certo, è facile stabilire obiettivi e anche indicare gli strumenti con i quali realizzarli, occorrono poi scelte operative coerenti. Ma è ancora più importante la creazione di un clima di fiducia, di condivisione all’interno del quale ogni soggetto deve essere consapevole che il suo comportamento può contribuire al raggiungimento delle mete stabilite. Ad una crisi di carattere strutturale si deve rispondere con proposte di modifica strutturale in grado di disegnare un modello di sviluppo diverso. Una mentalità concertativa è indispensabile, come peraltro successe in Italia durante la crisi del 1992/93.
L’esperienza ha dimostrato che gli interventi sul fronte della deregolamentazione del mercato del lavoro – sia negli ingressi con la proliferazione di contratti precari (tempo determinato, interinali, a chiamata, ecc.), sia nelle uscite con la maggiore libertà di licenziare – non producono maggiore occupabilità. Chi esce dal lavoro stabile si trova senza nessuna protezione sociale e perde anche i diritti alla maturazione di una pensione dignitosa. Il lavoro “atipico” (diventato tipico della contemporaneità) rispetto a quello “standard” (a tempo pieno e con tutte le garanzie sociali) sta travolgendo tutti i paesi, compresa la Germania dove, secondo i dati più aggiornati, ha raggiunto la cifra di circa 9 milioni di lavoratori. Nonostante le dichiarazioni di principio siamo ancora dentro la “normalizzazione del precariato”. E quando si parla di riforme strutturali, nel linguaggio corrente e mediatico, ormai s’intende diminuzione della spesa sociale, ulteriore deregolamentazione, privatizzazione dei servizi pubblici essenziali.
Nell’ultimo G20 svoltosi a Mosca l’ILO ha presentato un “Patto globale per l’occupazione” elencando le misure adottate con successo in alcuni paesi: aumento degli investimenti in infrastrutture per innescare crescita economica e produttività nel medio e lungo periodo con una contestuale creazione di posti di lavoro nel breve termine; miglioramento del livello e della copertura del salario minimo per combattere la povertà e le disuguaglianze e contribuire all’aumento della domanda interna; miglioramento dei meccanismi di fissazione dei salari, attraverso il rafforzamento della contrattazione collettiva per adattare meglio salari e produttività e per far fronte alle diseguaglianze; allargamento della copertura dei sistemi di protezione sociale per aumentare la resistenza delle famiglie, ridurre la povertà ed ampliare l’inclusione sociale; adozione di programmi di lavoro pubblico come mezzo di protezione sociale per le persone più vulnerabili. L’obiettivo primario del Patto è quello di fornire una piattaforma concertata a livello internazionale sulla quale basarsi per l’adozione di politiche destinate a ridurre lo scarto temporale tra il momento della ripresa economica e quello della creazione di lavori dignitosi.
Il mese scorso la commissione Lavoro del Parlamento europeo, nell’analizzare la situazione sociale di quattro paesi (Gracia, Portogallo, Cipro, Irlanda), ha approvato una relazione di severa critica alla “Troika” (Commissione Ue, Bce, Fmi) perché essa si è comportata come un “club di creditori”, imponendo misure di aggiustamento che hanno portato all’aumento della disoccupazione, alla chiusura di piccole imprese e alla crescita della povertà anche tra le classi medie. Come possiamo constatare, cominciano ad emergere idee comuni, un comune sentire che ormai necessita l’adozione di politiche coerenti. Esiste una base di partenza ormai consolidata. Il cambiamento delle politiche europee impone, inoltre, di guardare con attenzione al dibattito sulle disuguaglianze che si sviluppa negli Stati Uniti. Non è un caso che nella metropoli simbolo del capitalismo mondiale, New York, vinca le elezioni a sindaco un uomo come Bill de Blasio che si propone di aumentare le tasse ai ricchi per costruire asili nido ed espandere la protezione sociale.
Salvatore Vento
16 Marzo 2014 at 19:45
Credo che si dovrebbe realizzare un forte movimento d’opinione nel senso prospettato da Vento: obiettivo della politica, che dovrebbe governare l’economia, dovrebbe essere quello di creare una società a misura delle persone ed in cui ognuno possa trovare le condizioni per vivere dignitosamente. Qui si misura il senso e la forza della politica: l’alternativa è il paradosso di un assoggettamento a logiche che rendono il mondo sempre più invivibile per coloro per i quali il mondo è stato creato! L’Unione europea è nata per questo scopo, come osserva Vento, per garantire condizioni di maggior benessere e di pace per i suoi abitanti e su questi obiettivi deve verificare la validità della propria politica!