L’eclissi della borghesia e il recupero delle virtù civili. Un libro di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo.

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di g.f.

Molte cose colpiscono nel libro scritto da Giuseppe De Rita insieme ad Antonio Galdo (L’eclissi della borghesia, Laterza, ottobre 2011, pp. 91, già alla settima edizione). Per esempio che in Italia la percentuale degli eletti in possesso di una laurea è scesa dal 91,4 per cento della prima legislatura (1948) al 64,6 per cento della quindicesima (2007). Un’altra prova empirica, ma ugualmente molto indicativa, del fenomeno dell’eclissi della borghesia italiana De Rita dice di ricavarla guardando alle liste dei candidati alle elezioni, soprattutto quelle amministrative. Dice di aver fatto l’esperimento nella città di Roma, che lui e Galdo conoscono bene: “migliaia di nomi di aspiranti consiglieri, tutti sconosciuti”. E commenta: “Non sappiamo se cercano pubblicità. Potere, affari. Ma una cosa è certa: nel loro anonimato non rappresentano neanche un angolo della borghesia locale e confermano una scelta di diserzione dall’impegno nella vita pubblica”. E conclude: “Potenziali leader non possono essere dei perfetti sconosciuti, e in queste condizioni è impossibile immaginare un fisiologico ricambio di classi dirigenti. E senza ricambio una società, prima o poi, implode”.

Il giudizio di De Rita sulla borghesia italiana è tanto negativo quanto sono negative le conseguenze che, secondo de Rita, ha avuto la sua eclissi. Per borghesia De Rita non intende la classe sociale che controlla i mezzi di produzione. Quella è scomparsa da tempo. Si riferisce alla élite che sente una responsabilità collettiva, che se ne fa carico e che guida il sistema-paese sulla base di interessi generali e non solo di pulsioni particolari. Questa élite è tipicamente borghese. E’ quella che ha costituito la spina dorsale del Risorgimento e che anche durante il ventennio fascista ha pur sempre costruito le basi dell’intervento pubblico nell’economia (l’Iri) e nella sicurezza sociale (l’Inps, l’Onmi), e che poi ha costruito e modernizzato l’Italia nel dopoguerra. Uomini tra loro molto diversi, ma che avevano in comune un alto grado di onestà personale e di amore per la patria, senza sbavature retoriche.

Poi è venuta l’eclissi, dice De Rita. “Quando scatta la molla del benessere, tutto cambia” e avviene quella che, con orribile vocabolo, De Rita chiama la “cetomedizzazione” dell’Italia: una veloce mobilità orizzontale (migrazione dal sud al nord) e verticale (l’operaio diventa piccolo imprenditore), il boom dell’iniziativa individuale, che “ha accentuato le nostre caratteristiche di popolo individualista”, la diffusione di una cultura dello status del benessere (la casa in proprietà) e una corsa febbrile ai consumi. E lo Stato, a questo punto, ha fatto lievitare il debito pubblico indirizzandolo a finanziare non la crescita e lo sviluppo ma l’espansione del ceto medio e le sue esigenze di sicurezza, in una logica assistenziale che ha garantito al ceto medio stili di vita superiori alle proprie possibilità. “Al cittadino intraprendente – scrive De Rita – ha corrisposto uno Stato inerme e pagatore”.

Il vuoto borghese e l’esplosione del ceto medio – due fenomeni cresciuti insieme – hanno impedito la crescita di una solida cultura istituzionale. E’ questa la tesi di De Rita. Ma perché, in un Paese che pure ha mantenuto un’economia ricca, flessibile, reattiva, non è emersa, da quarant’anni a questa parte (e in particolare negli ultimi venti), un’èlite di classe dirigente spendibile nello Stato, e in generale nello spazio della vita pubblica? De Rita, nel suo libro cerca una risposta. E la individua soprattutto nella amoralità della società italiana, nel suo soggettivismo esasperato, nel libero mercato che diventa libero arbitrio. “E nella tube tossica di una morale fai-da.te – osserva De Rita – non può certo maturare una borghesia degna di questo nome, dotata di una responsabilità consapevole, condivisa, collettiva”. Infatti, la borghesia ha conosciuto una deriva corporativa e familistica. Le professioni non hanno più formato “comunità di classe dirigente” ma viceversa si sono messe al riparo dalla vita pubblica, trasformandosi in trincee ben protette.

Nelle sue conclusioni De Rita sembra puntare meno, con qualche contraddizione con la sua stessa analisi, su un recupero del senso dello Stato, e dunque sui percorsi di ricostruzione di una classe dirigente responsabile, e di più, invece, sulla domanda, che c’è, di “nuove forme di partecipazione collettiva”. Non solo il volontariato, che in verità non sembra crescere in questi anni, ma anche e soprattutto la società civile nel suo insieme. E, da questo punto di vista, giudica interessante la sfida di David Cameron in Gran Bretagna, la sua idea di Big Society, di una comunità civile che divenga protagonista della modernizzazione del paese. Vede in questa proposta un’applicazione concreta di “un’idea di poliarchia della democrazia e del rapporto tra Stato e cittadini”. In Italia, dice De Rita, in un certo senso la Big Society esiste già, dal omento che esiste una fitta rete di sussidiarietà. Ma è difficile – osserva – capire come si possa trasformare questa risorsa che già esiste in un progetto politico di lungo respiro. Ma la via da percorrere, dice oggi De Rita, è proprio questa. Il rilancio di virtù civili.

 

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