L’economia non può fare a meno dell’etica

| 0 comments

Lectio al dottorato di Ricerca in Economia del Dipartimento di Economia dell’Università di Genova

 

Grandi cambiamenti, ma per quali fini?

Non v’è ambito della vita sociale, economica, istituzionale che non sia percorso da grandi cambiamenti. Grandi cambiamenti certo. Ma per quali fini? In nome di quale progetto? Per questi interrogativi non esistono, oggi, risposte adeguate e convincenti. Da ciò discendono paure, incertezze, difficoltà.

Il calcolo, gli interessi egoistici di gruppo, di ceto, di categoria sembrano far premio sulle esigenze della solidarietà. Ciò concorre ad aumentare, secondo una circolarità viziosa, problemi e conflitti. “Il calcolo non ignora solo le attività non monetizzabili, gli aiuti reciproci, l’uso dei beni  comuni, la parte gratuita dell’esistenza, ma ignora anche e soprattutto quello che non può essere calcolato né misurato: la gioia, l’amore, la sofferenza, la dignità, cioè il tessuto stesso della nostra vita.” [1]

Cresce e si consolida la tentazione di risolvere la complessità delle situazioni in nome della forza, sia direttamente sia indirettamente attraverso l’accordo bloccato degli interessi predominanti. E il più forte può assumere i nomi più diversi: oligarchie finanziarie, concentrazioni massmediatiche, burocrazie sovranazionali, poteri tecnocratici, ideologie contrabbandate come verità indiscutibili. Il futuro dell’umanità si gioca  su molti tavoli: economici, politici, scientifici, militari. Troppo pochi, e  non sempre identificabili, sono coloro che decidono al di fuori di ogni controllo collettivo, nel mentre aumenta l’area dell’impotenza e della rassegnazione. I margini di libertà reale appaiono pregiudicati sia dall’incapacità del corpo politico di elaborare progetti coerenti sia dal riflusso del dialogo sociale in fenomeni lobbistici e corporativi sia dall’emergenza di “governi privati” fautori di uno stato minimo e debole.

L’uomo d’oggi si presenta ricco di strumenti, ma povero di fini e di valori. Questa inversione tra mezzi e fini caratterizza – a ben vedere – le moderne forme di alienazione nell’ambito delle quali l’uomo perde il senso profondo di sé in rapporto agli altri uomini e al creato. Si priva cioè della possibilità di una “buona vita”. L’interdipendenza, svincolata da valori e fini più generali rispetto a quelli di una mera competizione acquisitiva genera contraddizioni e ambiguità crescenti.

I “numeri” finiscono per prendere il posto degli uomini specie dei più deboli e quindi più bisognosi di stato sociale. Alle le frontiere politiche tra gli stati, altre se ne affiancano a livello sociale ed economico. Trattasi di frontiere mobili, invisibili sulle carte geografiche, ma materializzate nella divisione del lavoro, negli assetti urbani, nelle regolamentazioni amministrative.

L’esclusione è oggi un grande dramma e una grande paura. Essa è forse più grave delle tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali. Lo sfruttamento presuppone pur sempre un rapporto sociale di tipo oppositivo, intorno al quale sono sorte le diverse organizzazioni del movimento operaio e sindacale. Questo rapporto non esiste nell’area dell’esclusione. Qui troviamo soltanto degli individui, dispersi, praticamente invisibili, senza espressione propria, senza mezzi di appoggio e di lotta. Gli esclusi non possono prendere parola, non possono cooperare, non hanno parte nello scambio sociale.

 

L’invadenza e l’impotenza dell’economia

L’economia è oggi tanto invadente quanto impotente di fronte alla gravità dei problemi che sono sul tappeto. La logica del sempre di più delle stesse misure di politica economica va incontro a pericolosi effetti di rigetto. E’ questo il caso delle misure di austerity ove sempre più spesso il presunto rimedio è peggiore del male che vorrebbe curare. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in gradò di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile e democratica.

I tradizionali paradigmi della scienza economica – la ricerca del proprio tornaconto su orizzonti temporali sempre più brevi e una sorta di darwinismo sociale per cui i più forti vincono e prendono tutto- entrano in crisi tanto a livello interpretativo quanto normativo. Non sono in grado di spiegare ciò che sta succedendo e soprattutto non sono in grado di fornire ricette efficaci. Le grandi questioni dell’esclusione, della pace, dell’ambiente, delle generazioni future rivelano ampiamente sia l’insufficienza del mercato quale regolatore supremo sia dell’individualismo metodologico come norma  comportamentale.

Il neoliberismo rischia di distruggere i fondamenti stessi del bene comune. Oggi ci se ne rende sempre più conto. L’economia ha finito per occupare tutti gli spazi della vita dell’uomo. Dall’economia di mercato si è passati alla società di mercato. Lo scambio mercantile si è esteso ad ambiti sempre più vasti quali la cultura, la salute, il tempo libero. L’individuo conta solo se è in grado di consumare e poco importa se per farlo si indebita ipotecando il proprio futuro.

Il neoliberismo non è soltanto un modo di intendere e di gestire l’economia ma è anche e soprattutto una ideologia, una cultura, una modalità di vita, un pensiero che si vuole unico e che nell’ambito della scienza economica pretende di mettere a tacere i punti di vista diversi da quelli dominanti . In questa ottica vanno ridotti al minimo l’intervento pubblico e più in generale i “condizionamenti” sociali, ritenuti inefficienti per definizione. Al contrario si richiedono deregolamentazioni, privatizzazioni, flessibilità.

L’inconsistenza di tali affermazioni è di piena evidenza. L’economia va pertanto ripensata. Va, per così dire, ri-legata alla persona e alla società a partire da alcune verità elementari che vogliamo riepilogare:

  • Il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante ovvero fornita di adeguato potere di acquisto. Con la conseguenza che oggi cresce il superfluo, l’inutile nel mentre esigenze fondamentali di umanità restano inevase;
  • La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia (produzione di beni e di servizi), anzi la sua tossicità sta avvelenando la base materiale produttiva. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali Non è più così: li determinano! Attraverso il gioco perverso della speculazione si assiste alla moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce. La finanza si sta mangiando l’economia;
  • L’impresa non “appartiene” soltanto agli azionisti o ai proprietari bensì a tutti gli stakeholder (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, comunità). I loro apporti, su un piano di uguaglianza sostanziale, sono indispensabili per il bene dell’impresa e della collettività;
  • L’utilità collettiva, il bene comune non sono la somma dei tornaconti individuali e dei beni privati: dai vizi privati non discendono pubbliche virtù. A sua volta l’economico non coincide con il sociale. La razionalità del primo non può espropriare quella del secondo. Devono semmai armonizzarsi, Non è infatti pensabile uno sviluppo economico che non sia anche sociale, culturale, morale. Lo sviluppo umano non può che essere integrale, riguardare ogni uomo e tutto l’uomo;
  • La sfera dell’economia di mercato non è la biosfera. Non funzionano secondo la stessa logica. Questo fatto poteva essere ignorato quando la prima non minacciava l’esistenza della seconda. Ora non più. Lo sviluppo non può che essere sostenibile, fondato sull’alleanza tra uomo e ambiente;
  • Tra reddito e felicità il legarne non è Molte ricerche dimostrano che una volta che il reddito procapite ha superato una data soglia (quella che consente di vivere in modo decente) viene meno la sua correlazione con la felicità. Anzi l’aumento del reddito può bruciare i fondamenti della felicità affettiva, famigliare, relazionale.. La questione degli stili di vita diventa pertanto fondamentale.

 

La definizione tradizionale di economia come scienza che insegna a trovare il mezzo migliore per perseguire un fine determinato si rivela oggi del tutto inadeguata. Come abbiamo visto i problemi economici non dipendono tanto dalla mancanza di risorse quanto dal fatto che le istituzioni economiche,  politiche  e culturali  non sono più in grado di interpretare  le esigenze  della attuale fase di sviluppo. La questione  vera sta nella scelta  tra fini  diversi.  Per questo  è essenziale  il riferimento ai  valori, all’etica.

Come ha osservato A. Sen, occorre guardare non al  benessere  definito  in  termini  utilitaristici, bensì al bene tout-court, entro il quale il benessere gioca un ruolo ovviamente  importante  ma parziale. Valorizzare le persone e le loro capacità, promuovere la partecipazione congiuntamente al perseguimento della conoscenza e all’esercizio della solidarietà rappresentano obiettivi che, oltre ad essere significativi  in sé, disegnano  un universo di valori decisivi per lo stesso successo economico.

L’assunto antropologico dell’ homo oeconomicus su cui si regge tutta l’impalcatura neoliberistica va rifiutato con forza perché non giustificato né scientificamente né eticamente. Infatti chiediamoci cosa si può costruire se si assume come termine di riferimento “una figura astratta, eppure diffusissima, che non ha relazioni, né capacità di amare, né storia, né sentimenti all’infuori dell’avidità e dell’angoscia che porta a credere nelle regole brutali di un sistema che pure, per chi ha conservato la vista, è palesemente falso”.

Con altre parole e sempre in un’ottica di concretezza, perché la progettazione degli assetti economici deve poggiare sul presupposto (o pseudo verità) che le persone sono egoiste, edoniste, chiuse in loro stesse? Analogamente perché continuare a vedere il mondo come la foresta di cui parla Hobbes, nel cui ambito gli individui sono intrinsecamente incapaci di creare una comunione di obiettivi solidali e condivisi, di cooperare costruttivamente? L’esperienza storica e anche la riflessione teorica, nella misura in cui fuoriesce dalle secche del pensiero unico, ci dicono che è possibile realizzare una comunità di uomini liberi, uguali e pacifici e che ciò diventa fattore di crescita e di arricchimento per tutti.

 

Umanizzazione e trascendimento etico. La sfida della reciprocità e della solidarietà

L’economia richiede umanizzazione e trascendimento etico. Laddove all’etica si attribuisca il significato non tanto o non solo di norme di comportamento quanto di “dimora” ovvero di recupero di senso in ordine al lavorare, al consumare, al vivere. L’etica è connaturata alla razionalità economica. Ciò perché la dimensione morale è all’interno di tutti i gradi dell’agire umano, da intendersi come agire dell’uomo, per l’uomo, tra gli uomini. Con altre parole non esiste un’etica parziale, secondaria, derivata che si colloca a valle della “oggettività” dell’economia, della finanza, del sistema delle imprese. L’etica non è una “pietosa infermiera”

Tutto si tiene e va pertanto assunto in quanto tale. Ogni società è posta di fronte a tre questioni fondamentali relative all’ordinamento dell’economia. Trattasi del cosa produrre, come produrre, per chi produrre.

Con riferimento alla prima questione, cosa deve produrre l’economia? La scelta è tra beni di consumo, beni di investimento, servizi; tra beni per scopi pacifici e beni per scopi militari; beni privati e beni collettivi. Tale scelta non è neutrale. Pertanto a quali beni e servizi dare le priorità?

Con riferimento alla seconda questione, come deve produrre l’economia? Come, in che rapporto, con quali modalità, impiegare i fattori della produzione (terra, materie prime, energia, lavoro, capitale, imprenditorialità, tecnologia)? Non esiste un’unica funzione di produzione. La teoria neoclassica parla di uguaglianza delle produttività marginali ponderate dei fattori utilizzati. Ma un conto è la produttività di un’ora di lavoro libero, un altro conto la produttività di un’ora di lavoro forzato!

Con riferimento alla terza questione, per chi deve produrre l’economia? Chi, alla fine, deve trarre vantaggio dai beni e dai servizi prodotti? Gli investitori? I produttori? I consumatori? E il surplus complessivo come deve essere ripartito fra i membri della società? In base alla prestazione fornita? In base ai bisogni? In base alla posizione di forza dei diversi attori in gioco? Possiamo accettare vistose diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni?

È di tutta evidenza che gli interrogativi dianzi posti sono, ad un tempo, interrogativi economici ed etici. Non c’è un prima e un dopo. Un ordinamento sociale ed economico per potersi sviluppare in maniera armonica ed equilibrata deve fare riferimento a tre principi regolativi. Il primo riguarda lo scambio di mercato fondato sul contratto e mediato dal pagamento di un prezzo, relativo al bene venduto e acquistato.  Il secondo  riguarda la redistribuzione pubblica  della ricchezza  prodotta, attraverso il sistema fiscale. Il terzo consiste nella reciprocità che si esprime attraverso la gratuità e il dono, come espressione di fraternità.

Lo scambio di mercato poggia sull’interesse personale e si propone l’uso efficiente delle risorse impiegate per produrre. La redistribuzione delle risorse, fondata sull’autorità e sull’obbligo, si propone l’equità. La reciprocità si propone il consolidamento delle relazioni sociali, alimenta il capitale sociale che sempre più si rivela fattore di competitività complessiva. Il dono genera l’alleanza tra le persone, promuove la fiducia, la cooperazione, l’amicizia, la solidarietà, la libertà. Il dono non è qualcosa per l’altro ma con l’altro.

In questa ottica la solidarietà costituisce un passaggio fondamentale. Però attenzione, non si può fare di ogni erba un fascio. C’è una solidarietà meramente compassionevole, assistenziale, passiva. Riconosce l’esistenza di situazioni di disagio, di povertà,di squilibrio. Cerca in qualche modo di addolcirle, di mitigarle con erogazioni private o pubbliche, senza però mettere in discussione le cause di tali situazioni. Non si crea un rapporto di fiducia con l’altro, questo rimane uno sconosciuto, senza un volto da guardare. C’è invece una solidarietà attiva, partecipativa.  Essa è il prodotto di azioni personali e collettive finalizzate alla rimozione delle diseguaglianze, all’aumento della democrazia a livello politico, economico, sociale, all’allargamento degli spazi non solo di autodeterminazione ma anche di autorealizzazione.

La solidarietà che abbiamo definito attiva e partecipativa può manifestarsi secondo tre  modalità tra di loro strettamente connesse. La prima, quando rinunciamo a una parte del nostro potere  per donarlo a chi potere non ha. La seconda, quando usiamo del nostro potere per ottenere vantaggi per chi si trova in situazione di precarietà. La terza, quando ci impegniamo per creare le condizioni affinché tutti possano realizzare, valorizzare le proprie  potenzialità. Come sottolinea Marta Nussbaum occorre eliminare gli ostacoli che impediscono agli individui (singoli, isolati, esclusi) di diventare persone, capaci di relazioni.

Con altre parole abbiamo bisogno di una economia multidimensionale, capace di prendere in carico gli ambienti socio-naturali e culturali sui quali essa si apre; dinamica e coevolutiva con il mondo nel quale si inscrive; a servizio dell’uomo e non padrona del suo destino. Una economia in grado di assumere una molteplicità di criteri oltre alla crescita del  Pil. Che il Pil non sia in grado di esprimere compiutamente il benessere di un paese rappresenta ormai un convincimento largamente condiviso. La citazione d’obbligo riguarda Robert Kennedy che nel 1968 affermava che “il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

Altri criteri dunque, sui quali fondare le scelte collettive. Criteri di salvaguardia (la terra non è soltanto per noi, abbiamo un obbligo verso le generazioni future); di umanità (il rispetto di ogni uomo è la cifra del vivere insieme); di responsabilità (se tutti nel soddisfare le proprie esigenze si comportassero tenendo conto delle esigenze e delle necessità degli altri, alla fine tutti si troverebbero in una situazione migliore di quella che deriverebbe da logiche strettamente individualistiche); di moderazione (la sobrietà è il modo per scoprire risorse che non hanno prezzo); di prudenza (nel senso di capacità di prevenzione e controllo dei rischi presenti e futuri); di diversità (ovvero di riconoscimento dell’altro come via per rispondere alla varietà delle situazioni); di cittadinanza (ognuno è membro a pieno titolo della comunità in cui vive).

Anche in economia più strade sono possibili. I problemi non hanno una sola soluzione. C’è spazio per l’impegno responsabile dei soggetti e per la loro progettualità, una progettualità eticamente e umanamente fondata. C’è spazio per una economia che nasce dal basso, fortemente radicata nella società civile, una economia dotata altresì di una forte carica di contaminazione nei confronti sia dello stato sia del mercato.

Le esperienze del mondo cooperativo, delle fondazioni, delle imprese sociali, del volontariato, del commercio equo e solidale, del microcredito, dell’economia di comunione ma anche delle imprese profit impegnate in progetti di responsabilità sociale e di welfare aziendale ci dicono che le frontiere dell’economia e del mercato possono essere allargate nella prospettiva del bene comune. Trattasi di esperienze che rovesciano la prospettiva del “do ut des”, dello scambio che non guarda alle persone, che evita il coinvolgimento.

In luogo di situazioni ove i più forti sfruttano a proprio vantaggio le posizioni di debolezza di chi ha dimeno, di chi non ha voce, non ha potere di mercato emergono relazioni di cura (darsi carico) attraverso le quali consumatori, lavoratori, risparmiatori, produttori si impegnano per offrire pari opportunità, costruire le capacità e promuovere inclusione per coloro che sono rimasti incagliati nella trappola della povertà. [2]

Se c’è fiducia reciproca, se c’è solidarietà il mercato può espletare pienamente la sua funzione economica. Diventa una istituzione fondamentale.  E’ possibile pertanto operare per una grande riconciliazione o ricomposizione, anche semantica, tra:

  • socialità ed economicità superando l’impostazione per cui la prima è considerata esclusivamente come un costo o un vincolo da minimizzare e la seconda come unica espressione della razionalità imprenditoriale;
  • crescita della produttività e aumento dell’occupazione assumendo in termini contestuali lavoro e sviluppo, promuovendo altresì il finanziamento di attività di utilità sociale;
  • flessibilità per far fronte al cambiamento e tutela dei valori fondamentali della persona che non possono essere strumentalizzati e precarizzati;
  • uguaglianza fondamentale dei soggetti e valorizzazione delle professionalità personali in una prospettiva di reciproco arricchimento;
  • profitto e uso sociale delle risorse nel quadro delle più vaste esigenze della crescita nella solidarietà.

Efficienza, giustizia, partecipazione non possono più essere separate e, in misura crescente, si pongono come condizioni per la sostenibilità dello sviluppo. Rispettare l’ambiente è alla lunga conveniente; il coinvolgimento dei lavoratori, dei consumatori, dei cittadini è essenziale per il successo delle stesse iniziative economiche; senza regole del gioco trasparenti e affidabili anche la funzionalità del mercato viene meno; la solidarietà crea le premesse perché abbiano a dispiegarsi le potenzialità di ciascuna persona e di ciascun gruppo sociale, perché sia possibile l’accesso più largo ai beni e ai servizi di base nell’interesse del maggior numero di soggetti e nel rispetto delle generazioni future.

 

La necessità di nuovi criteri di giudizio

Non è la scarsità delle risorse che genera  la competizione  e la lotta tra gli uomini. Piuttosto  è vero il contrario: la competizione e la lotta depotenziano le risorse, nel mentre la condivisione solidale e creativa le moltiplica. In questo quadro la questione dei beni comuni  diventa  cruciale.  Occorre  a scala globale costruire un ordinamento e una strategia di azione secondo cui i beni della terra (ambiente,  clima,  acqua,  conoscenza) non appartengono  a coloro che per primi se ne impossessano o li sfruttano, ma son destinati  a tutti gli uomini. Sono appunto “beni pubblici  globali”.

Di fronte a una crisi sempre più pervasiva e incidente, si impongono grandi mutamenti culturali, l’assunzione di criteri di giudizio diversi da quelli ordinari. Gli ultimi, i poveri, in  un’ottica  di globalità e di interdipendenza diventano chiave interpretativa del vivere sociale. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, i primi hanno bisogno degli ultimi. Gli ultimi hanno bisogno della imprenditoria, competenza, scienza, abilità dei primi. I primi a loro volta hanno bisogno degli ultimi per trovare un senso alle loro ricchezze: l’accumulo fine a se stesso non genera  una nuova qualità della vita bensì  una cultura di disperazione.

Innovazione e trasformazione dei sistemi rappresentano certamente  una discriminante  ineludibile per le moderne società industriali e postindustriali. Si tratta però di verificare se lo sviluppo e la crescita debbano, necessariamente ed esclusivamente, poggiare  sugli  squilibri,  le  disuguaglianze (che il gioco economico finanziario inevitabilmente rafforza), con la conseguente distinzione e selezione  tra vincitori  e vinti oppure se lo sviluppo  e la crescita –  nella  misura in cui sono autentici- non possano invece trovare stimolo ed innesco nella “solidarietà creatrice” con l’inserimento dei processi di cambiamento in una prospettiva comunitaria, con la diffusione di  valori  di comunicazione, dialogo,  apprendimento, cooperazione,  valorizzazione di tutte le risorse.

Certamente la prima alternativa o ipotesi è, al presente, largamente maggioritaria. Il progetto di società, proposto come modello all’opinione pubblica, poggia sull’apologia del migliore (o del più forte): che i migliori (o i più forti) vincano, stabiliscano le regole del gioco, le modalità di risoluzione dei conflitti, di allocazione delle risorse e di suddivisione dei redditi. I successi di pochi grandi attori diventano espressione di interesse generale.

La seconda alternativa o ipotesi, nella misura in cui si rivela scarsamente strutturata o strumentata metodologicamente ed operativamente, potrebbe apparire come una illusoria o consolatoria fuga in avanti. Purtuttavia la complessità e novità dei problemi dai quali siamo interpellati ci portano ad intravedere in tale alternativa o ipotesi il fondamento di una razionalità più  ricca  ed  autentica. Occorre allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali. Vincoli e possibilità possono essere spostati in avanti, liberando nuove energie e nuove risorse.

Sulla scena del mondo non  ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico sul quale si gioca la possibilità di una buona società in cui vivere a scala globale. Il sapere scientifico-tecnologico, la comunicazione, la rete, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità la globalità degli uomini con la loro storia, cultura, appartenenze. Lotta alla povertà e sviluppo sostenibile – come evidenzia la Laudato si’ –sono le due facce della stessa medaglia. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme o si salvano insieme. Qui sta il punto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità sia per capovolgere situazioni di ingiustizia e esclusione che non possono più essere accettate dalla comunità mondiale, sia per cogliere e valorizzare tutte le potenzialità del bene condiviso.

La globalizzazione può avere un’anima; può essere ancorata a un fondo comune di valori condivisi e vissuti nel profondo che merita di essere portato alla luce non ostante i molti conflitti, le molte diversità. Valori di verità (poter credere in quello che ci viene detto), di giustizia (non sentirsi discriminati per nessun motivo), di umanità (non essere trattati come oggetti ma come soggetti di pari dignità). Da qui il dovere di una cultura di non violenza, di pace, di rispetto di ogni vita e della natura; il dovere di una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto; il dovere di una culture dell’accoglienza reciproca nella piena valorizzazione dialogante delle differenze. L’interculturalità non è semplice accostamento tollerante di culture molteplici. Esprime piuttosto la possibilità di imparare dagli altri e fare strada insieme a loro.

Messo con le spalle al muro l’uomo deve ricostruire se stesso. Il sentiero è stretto ma percorribile. Non mancano segni di inquietudine e anche di speranza. Sempre più ci si interroga sulla validità e sui rischi dei  modi di agire a livello di produzione, consumo, utilizzo delle risorse ambientali. Si fa strada la consapevolezza della necessità di modelli plurali e interdipendenti di modernizzazione, in grado di sviluppare le capacità e le peculiarità delle persone secondo le loro specificità a partire dai più deboli.   Ci si accorge che non si è soli e che si è responsabili verso gli altri che dipendono, per il bene e per il male, dalle nostre azioni. E la catena della responsabilità non ha confini né di spazio né di tempo. L’umanità, il calore umano, il senso di comunità possono far sì che qualsiasi luogo smetta di essere un inferno e diventi il contesto di una vita degna. (Ls, 150 – 154).

Lorenzo Caselli*

 

 

* Lorenzo Caselli è Direttore Emerito di “Impresa Progetto”; è Professore Emerito presso il Dipartimento di Economia (DIEC) dell’Università degli Studi di Genova; email: lcaselli@economia.unige.it

 

[1] E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2012.

[2] L. Becchetti, La transizione dal Welfare State alla Welfare Society, in Paradoxa, 3, 2010.

Lascia un commento

Required fields are marked *.