Legge elettorale, intesa per sopravvivere?

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di Franco Monaco

Il senatore Franco Monaco critica l’orientamento che nelle settimane scorse, prima delle amministrative, è sembrato prevalente tra i partiti – anche di sinistra – in fatto di riforma della legge elettorale, cioè l’abbandono del maggioritario e il ripristino del proporzionale. Il tema appare di grande interesse. Nel pubblicare l’analisi di Monaco, la redazione di c3dem auspica che si apra, in questo spazio, una riflessione e un dialogo a più voci tra quanti hanno a cuore il (massimo possibile) recupero di effettiva democraticità del sistema politico italiano. Questo articolo è apparso in “Appunti di cultura e politica”, 2 (marzo-aprile) 2012. “Appunti” è la rivista fondata dala Lega democratica nel 1978. Dall’inizio del 2002 è pubblicata a cura dell’Associazione Città dell’uomo, fondata a Milano nel 1985 da Giuseppe Lazzati. L’attuale direttore è Luciano Caimi.

Mi fa molto riflettere la piega che sta prendendo la discussione sulla legge elettorale. Prescindendo dalle tecnicalità, la sostanza è la seguente: si va verso l’abbandono del paradigma maggioritario e il ripristino del paradigma proporzionale. Con soluzioni che, a quanto sembra, neppure contemplano un previo (al voto) vincolo di alleanze. Con buona pace per la teoria di Ruffilli del “cittadino arbitro”, ovvero decisore circa maggioranza e governo. Un’impostazione molto simile a quella del primo tempo della Repubblica. Per i centristi non è una novità, lo è invece per Pdl e Pd. Poco male se questa conversione rispondesse a un rinnovato protagonismo di partiti degni di questo nome e sicuri di sé. Ma la mia impressione è esattamente contraria: quella di un’intesa tra partiti deboli e rinunciatari, un patto per sopravvivere. Provo a spiegarmi.

La legge elettorale che si profila, se mai la si farà, secondo la previsione del più autorevole studioso di sistemi elettorali, Roberto D’AIimonte, promette uno scenario multipartitico non polarizzato, una frammentazione e un’instabilità che evocano appunto la prima Repubblica. A valle e per venirne a capo, governi di grande coalizione. Si abbandonano le coalizioni bollate come ammucchiate per patrocinare altre ammucchiate, messe insieme solo dopo, a urne chiuse, non sottoposte al vaglio degli elettori. Oppure si conferisce un potere di coalizione esorbitante al polo di centro, vero arbitro di una partita per definizione senza vincitori nella competizione per il governo. Qui, a mio awiso, si scorge la contraddizione al fondo di una tale ipotesi di riforma elettorale: di norma, la proporzionale è segno e strumento del protagonismo dei partiti e della loro autonomia. Qui è l’esatto contrario: dietro quella soluzione si coglie la rinuncia all’ambizione di vincere e governare, così da dare seguito ai propri programmi e, di più, alla propria visione. Perché, come dicevo, è altamente probabile che non vi sia un vincitore certo. Si ha l’impressione che ci si contenti di partecipare, di assicurarc al proprio personale politico la rappresentanza in parlamento. Mi verrebbe da dire: di esserci, di sopravvivere. In un tempo di subalternità psicologica, prima che politica, ai tecnici al governo. Verso i quali si nutre un complesso di inferiorità. Mi chiedo il perché di tale timidezza al limite dell’abdicazione. Abbozzo una lettura.

Innanzitutto, si è impressionati dal consenso che i sondaggi attribuiscono al governo Monti. lJn consenso, però, che andrebbe tarato. Con l’oggettiva, allarmante emergenza, con la circostanza di seguire al conclamato fallimento e discredito del governo Berlusconi, con l’ostentata alterità di Monti e dei suoi ministri rispetto al ceto politico professionale. Tutt’altra cosa è la partita politica che si aprirà a valle di esso. Certo, l’offerta politica dovrà essere qualificata, ma sono convinto che la polarizzazione del consenso si ripristinerebbe, se non intervenisse una legge elettorale che favorisce la dispersione. Si confermerebbe che la coscienza politica del corpo elettorale ha assimilato il bipolarismo più di quanto non l’abbiano assimilato i gruppi dirigenti dei partiti.

Per quanto riguarda più specificamente il Pd, si devono considerare due dati a prima vista tra loro in contrasto: esso, da un lato, sembra premiato dal sostegno a Monti, ma, dall’altro, sconta un’emorragia alla sua sinistra. Non solo: gran parte degli elettori del Pd, quando possono prendersi qualche libertà come nelle primarie di coalizione, mostrano di orientarsi su candidati dal profilo più di sinistra. È il caso di Milano, di Napoli, di Genova, di Cagliari. A testimonianza della complessità del problema, che non può essere risolto con la celebrazione acritica del governo Monti e con l’ossessione di inseguire I’elettorato moderato di centro. E, magari, con il gusto di cercare la rottura con la rappresentanza delle organizzazioni sindacali. No al collateralismo, sì all’autonomia del partito, ma neppure demonizzazione di una positiva interlocuzione, quasi che quel rapporto fosse più un problema che una risorsa.

Una tale deriva consociativa e compromissoria è anche figlia di un’analisi e di una narrazione semplicistica e persino distorta, che pure si va facendo senso comune anche tra le fila del Pd. La seguente: la politica tutta ha fallito, non Berlusconi; Monti fa cose che avremmo dovuto fare noi; anche noi e i nostri esecutivi abbiamo govefnato male, esattamente come i nostri avversari; il bipolarismo ha fallito. Non sono d’accordo. Soprattutto contesto che abbia fallito il bipolarismo. Intanto perché, prima di esso, non abbiamo conosciuto l’età dell’oro. E poi perché il vituperato bipolarismo muscolare o selvaggio non è ascrivibile al modello, ma all’assoluta anomalia che porta un nome e un cognome: Silvio Berlusconi, con il suo colossale conflitto di interessi, la torsione delle regole di una sana competizione a cominciarc dalla regola più alta, quella costituzionale, la tensione impressa agli organi di garunzia, il controllo dei mezzi di informazlone. Insomma, un contesto che pregiudica in radice una leale competizione, una partita ad armi pari (la celebre “par condicio” in senso lato). Prima di sposare acriticamente il luogo comune del “bipolarismo coatto», riflettiamo un attimo sulla rottura che ha segnato l’attuale legislatura, quella tra Fini e Berlusconi. Domando: essa è ascrivibile a incolmabili distanze politico-ideologiche o non invece, più semplicemente e radicalmente, all’anomalia-Berlusconi (leggi ad personam, conflitto di interessi, scontri laceranti tra le istituzioni, concezione proprietaria del partito che esclude una sana dialettica interna)? È questa anomalia che ha minato ed esacerbato il nostro bipolarismo. Ma noi abbiamo ceduto al ricatto dialettico di chi ci ingiunge di non indulgere all’antiberlusconismo, di non personalizzare. Come se davvero si fosse trattato di opposti, equivalenti estremismi. Non è così. Ma chi interiorizza questa lettura terzista conclude che la colpa sta nel bipolarismo.

Si fanno strada così due teorie. La prima conduce all’abbandono del bipolarismo di coalizione. Con una conseguenza: considerato che quello italiano non può essere bipolarismo bipartitico, l’abbandono del bipolarismo di coalizione corrisponde semplicemente all’abbandono del bipolarismo tout court per uno schema multipartitico. La seconda strada, più radicale, conduce alla tesi che si dà una e una sola ricetta e, dunque, all’abdicazlone della politica e alla delega ai tecnici. Spero di sbagliare, ma dietro il proporzionalismo incipiente scorgo l’inclinazione a reiterare anche per il futuro un governo d’impronta tecnocratica sostenuto da una grossa coalizione. Appunto, la rinuncia a una trasparente competizione tra proposte politiche e di governo naturaliter alternative. Fa riflettere la circostanza che Gustavo Zagrebelski, non un pasdaran del maggioritario e, invece, di sicuro, uomo che non può non avere apprezzato il passaggio da Berlusconi a Monti, senta tuttavia l’esigenza di ammonire che la parentesi della sospensione della fisiologica dialettica politica non può essere reitetata, che non ci si deve assuefare a tale anomalia. Non sorprende che Berlusconi, dopo un primo sbandamento, si sia esposto nel prospettare la continuità del governo tecnico anche oltre il 2013: egli esce da un fallimento del proprio esecutivo, capeggia un partito in calo di consensi e che si sfarina, è sulla difensiva, rifugge la competizione e, dunque, metterebbe la firma in calce a un pareggio. Ma, mi chiedo, perché mai il Pd dovrebbe rinunciare a candidarsi per davvero a un’alternativa di governo? Perché avalla una regola elettorale che promette o un pareggio o la consegna al Terzo Polo di decidere l’esito della partita a urne chiuse sulla base dei suoi mobili calcoli di convenienza? Un Terzo Polo, noto in parentesi, il cui approdo più plausibile, nel medio periodo, è quello di confluire in un nuovo centrodestra raccordato al Ppe. Per tacere di una preoccupazione che mi sorprende sfugga ai dirigenti del Pd: non è affatto sicuro che il Pd possa sopravvivere in un tale contesto, le logiche divisive della proporzionale potrebbero attrarre pezzi del Pd verso il centro, da un lato, e verso la sinistra, dall’altro, divaricandolo. Soprattutto verso queile formazioni di centro alle quali taluni “moderati” del Pd  malvolentieri rilascerebbero uno straordinario potere di coalizione. Dal loro punto di vista, anziché sperare, senza garanzie, di potersi alleare, meglio, molto meglio andarci direttamente. Qualche politico più sveglio e disinvolto di altri, compreso uno dei due fondatori del Pd – intendo Rutelli – si è già portato avanti.

Prevedo un’obiezione: un’effettiva competizione per una limpida alternativa di governo di centrosinistra non avrebbe un esito scontato. È una partita che si può anche perdere. Ma qui siamo alla radice del problema: chi, per essere sicuro di non perdere, neppure prova a vincere con le proprie idee e i propri programmi, ha già perso, dando prova di ispirarsi a un’idea della politica priva di ambizione e di ideali. Chi pensa di trattenere la propria vita e non si mette in gioco la perderà… Si può anche perdere, ma è sempre meglio che non perdersi.

One Comment

  1. Il PD deve esprimere chiaramente una idea di paese; come vede il futuro degli italiani. Non può presentarsi alle elezioni politiche con il “patto tra progressisti e moderati di centro”, con una formula. I giovani, la gente ha bisogno di idee, di leader che sappiano indicare la strada, che abbiano il coraggio delle scelte che servano al bene di tutti. Le scelte politiche, costituzionali e di sistema elettorale che il PD deve fare, sono quelle che non garantiscono più il primato del partito e la sopravvivenza della logica che i partiti sono il Parlamento. I cittadini devono sapere prima del voto chi governerà, i loro progetti i loro programmi, la loro idea di paese.

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