Le vicende catalane di questi giorni sono ovviamente molto preoccupanti. In un mondo globalizzato in cui le “piccole patrie” possono avere un senso rassicurante, ma istituzionalmente politicamente contano sempre meno, stiamo assistendo a una contrapposizione drammatica – che non esclude nemmeno la violenza fisica – tra un movimento autonomista che controlla un governo amministrativo locale in Catalogna e un potere statuale costituzionale e democratico come quello spagnolo. Non possiamo fare qui la storia della vicenda, se non per ricordare che il catalanismo è una esperienza che ha una lunga e nobile storia di identità locale, linguistica e culturale. Represso lungamente dal franchismo, è riemerso dopo la “transizione democratica” e inizialmente ha ottenuto un ampio statuto di autonomia, garantito dalla costituzione del 1978. Il problema della realizzazione e attuazione (magari anche dell’allargamento) di questa autonomia è stato, come è naturale, oggetto di un negoziato permanente, che ha sviluppato nel corso degli anni un percorso spesso positivo di comprensione e intesa.
La vicenda ha conosciuto però una rottura nel 2010, quando il nuovo progetto di statuto elaborato dal parlamento catalano e approvato a stretta maggioranza da quello di Madrid, è stato dichiarato in parte incostituzionale dal Tribunale costituzionale spagnolo. Da lì è iniziata una spirale di radicalizzazione del confronto, con la progressiva torsione populista e indipendentista del movimento catalano (che comunque non rappresenta la maggioranza del paese, come si è e visto nel voto delle ultime elezioni), contrapposta al rifiuto totale del dialogo da parte del governo di destra (guarda caso vagamente post-franchista) del Pp di Rajoy. Hanno complicato il quadro sia le debolezze speculari dei due governi (nazionale e locale), che si basano su maggioranze risicate o inesistenti oltre a dover affrontare scandali e contestazioni, sia la crisi economica che morde dappertutto: la controversia indipendentista sembra poter essere utilizzata come diversivo per molte questioni altrimenti difficili da affrontare.
È palese che la legge del parlamento catalano sul referendum da tenere domenica 1° ottobre era una forzatura poco democratica, non prevedendo nemmeno un quorum di validità del voto e sommando due domande in un modo piuttosto ambiguo. Ma è anche chiaro che la risposta semplicemente negativa di Madrid, con la mobilitazione delle forze di polizia mirate a impedire il voto, non può che gettare ulteriore benzina sul fuoco (non a caso, anche molti non indipendentisti si sono detti a questo punto difensori estremi del diritto di voto dei catalani). In sostanza, cattiva politica da ogni parte, che porta in un vicolo cieco dalle conseguenze potenzialmente tragiche.
In Italia apparentemente (e fortunatamente) non siamo a questi livelli, ma appare comunque molto preoccupante il prossimo referendum consultivo che le amministrazioni forza-leghiste di Lombardia e Veneto hanno indetto per il 22 ottobre. Formalmente ineccepibile, esso è di per sé da considerare capzioso, assurdo e anche pericoloso la sua parte. Infatti, chiede ai cittadini se sono d’accordo che le regioni esercitino i poteri previsti dalla costituzione vigente, per aprire un tavolo con il governo centrale in modo da ottenere “l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse” (così il testo lombardo). L’art. 116 della costituzione, riformato nel 2001, permette infatti alle regioni di chiedere maggiori competenze, soprattutto in quel campo complicato che rientra sotto le materie di “legislazione concorrente” tra Stato ed enti locali, se mostrano solidità di bilancio. Alcune altre regioni come l’Emilia-Romagna hanno già avviato il percorso di negoziato politico, che dovrà portare a una legge del parlamento nazionale. Maroni e Zaia invece ciurlano nel manico, con un referendum inutile nella sostanza e che non prevede quorum di validità (quindi nessuna garanzia di rappresentatività e una vittoria assicurata: chi si vuol mobilitare “contro” una maggiore autonomia?). Peraltro, un referendum che costerà parecchi soldi del contribuente: qualcuno a Milano dice ben 50 milioni di euro, la regione ribatte che sono solo 25 (come se fossero pochi…). E che soprattutto si presta a messaggi fortemente capziosi e tendenziosi: anche se nel testo del quesito si parla esplicitamente di scelte “nel quadro dell’unità nazionale”, la propaganda leghista fa leva sul concetto per cui il referendum potrebbe avviare il percorso verso regioni pressoché “a statuto speciale” e insiste sulle cifre mirabolanti di tasse dei cittadini che alla fine rimarrebbero in regione. Tutte millanterie assurde. E tutto ciò nell’imminenza di una campagna elettorale per il rinnovo delle amministrazioni regionali, che quindi viene sostanzialmente condotta in anticipo e in modo surrettizio, sfruttando soldi pubblici.
Insomma, un’operazione equivoca che come unica risposta merita il rifiuto di andare a votare da parte dei cittadini; al contrario, una parte cospicua del Pd locale sceglierà di partecipare… per non lasciare a Maroni e Zaia la vittoria, naturalmente: operazione piuttosto ardua dato il senso politico che le maggioranze locali hanno impresso alla questione.
Il rischio Catalogna dove sta? Nel mettere in piazza, forzandole apertamente rispetto al loro preciso senso istituzionale e democratico, questioni delicate di sviluppo politico-amministrativo, che sarebbe bene rendere oggetto di seria mediazione politica. E che invece vengono agitate con la clava. Quando le aspettative illusoriamente alzate svaniranno di fronte alla realtà, è prevedibile che si avrà un ulteriore giro di giostra, provocando reazioni rabbiose e speculari radicalizzazioni delle richieste. E il tutto – sarebbe quasi un paradosso ridicolo se non fosse pericoloso – proprio quando l’illusorietà della secessione di una cosa inesistente come la Padania è stata certificata dalla stessa svolta partitica salviniana. Classi dirigenti deboli e inette giocano quindi con il fuoco. Proprio come sull’asse Barcellona-Madrid.
Guido Formigoni
14 Ottobre 2017 at 00:19
“una parte cospicua del Pd locale sceglierà di partecipare…” Notevole la scelta dell’aggettivo. “Cospicua”: il 10, il 20, il 40, il 70 per cento? Boh, ma l’aggettivo va sempre bene. Peraltro, tutti o quasi gli iscritti di mia conoscenza non andranno a votare, ma naturalmente io non ho la palla di cristallo, di cui il professor Formigoni sembra disporre. Comunque, ciò che il pd regionale pensa del referendum lo si può vedere al link http://www.blogdem.it/wp-content/uploads/2017/10/slide-fake-news-referendum2.pdf